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CAZZO, Austin. Da quando mi consideri sempre incazzata? Preoccuparmi per te non è l’equivalente di essere incazzati. Qualcuno deve pur assumersi questo compito, visto che tu ovviamente non sei poi così interessato al tuo futuro e, appena uscito di prigione, la prima cosa che hai fatto è stato dare una festa dove l’alcol scorre a fiumi e gli invitati sono minorenni. In una base militare. A casa di papà.
Erano quelli i pensieri che mi vorticavano nella testa mentre salivo le scale fino alla mia vecchia camera. L’aria in casa si stava facendo sempre più pesante. Dovevo andarmene. Avevo bisogno di una pausa da Austin. Dalla vodka. Dalla festa. Non sapevo se avessi bisogno di una pausa da Kael e, per un istante, quasi mi ero dimenticata della sua presenza.
Per un istante.
Quasi.
Era impossibile che si fosse perso lo scambio di battute. Probabilmente pensava che mi fossi comportata in modo meschino e che fossi una stronza. Non era vero. Assolutamente no. Cercavo di non rendere la vita difficile alle altre ragazze. Avevamo già abbastanza problemi. Ormoni. Mestruazioni. Reggiseni con il ferretto. Standard doppi. Ragazzi imbecilli. Dovevamo stare unite, non mettercelo in quel posto a vicenda. Ne ero davvero convinta. Ma… c’era sempre un «ma», non era cosi? Non riuscivo proprio a trattenermi dal dare un’immediata valutazione degli altri esseri di sesso femminile. Li esaminavo da capo a piedi, cercando di determinare chi fossero, dove si collocassero nella nostra gerarchia invisibile. Detta così sembrava crudele, ma non paragonavo loro a me, semmai il contrario.
La ragazza con la camicetta con i volant era più carina di me. Aveva una bellissima pelle chiara, fianchi stretti e gambe lunghe. I suoi capelli erano stupendi. Si vestiva in un certo modo per rendersi attraente, per esaltare le sue caratteristiche migliori. Io, invece, indossavo abiti più o meno puliti o in saldo. Non ero in competizione con Katie, Barbie o qualunque fosse il suo nome. (Okay, questa era una cattiveria). Davvero, non lo ero. Primo, era di un altro livello rispetto a me e, secondo, il suo obiettivo era mio fratello. Era stato chiaro sin dall’inizio. Perciò, i paragoni, la competizione… non c’entravano con i ragazzi.
Dunque, perché mi mettevo a confronto con delle ragazze su Instagram o in tv, come facevo con Madelaine Petsch che mi fissava dallo schermo? Lei era impeccabile. Persino sulla mia tv ad altissima risoluzione aveva la pelle liscia come una bambola di porcellana. Non un’imperfezione, non una macchia o una ruga. Mi faceva venire quasi voglia di diventare vegana, se quello era l’effetto che si otteneva.
Pensavo spesso a quel genere di cose. Cercavo di capire da dove provenissero tutte le mie insicurezze. Sinceramente non mi importava che i ragazzi guardassero le altre più di quanto guardassero me. Il punto era che alcune ragazze mi facevano sentire inferiore. Non sapevo spiegarlo, non con precisione, ma era difficile togliermelo dalla testa. E il fatto era che ero certa non capitasse solo a me. Pensai a Elodie, la bellissima parigina bionda, con le sue belle guanciotte e i suoi occhi da cerbiatta. Si sedeva con uno specchio in grembo, torturandosi il viso e sottolineando quanto orribile fosse la sua pelle, che i suoi occhi erano diversi e che il naso era storto. Tutte le donne si comportavano così?
Era in momenti come quello che sentivo di più la mancanza di mia madre. Sarebbe stato bello poter parlare con lei di quel genere di cose, avere qualcuno con cui confidarsi, essere ascoltata senza venire giudicata. «È sempre stato così?» le avrei chiesto. E lei mi avrebbe risposto: «No, la situazione un tempo non era così tragica; i social media, i selfie e le Kardashian hanno peggiorato moltissimo tutto quanto». Oppure avrebbe detto: «Sì, in effetti è sempre stato così. Da giovane ero solita paragonarmi a una delle Charlie’s Angels». Poi avrebbe sfoderato il suo vecchio album di fotografie e avremmo riso dei suoi capelli anni Ottanta.
Ma chi stavo prendendo in giro?
Non sarebbe mai successo.