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LA festa si era
ormai avviata alla conclusione. Il tavolino in soggiorno era
disseminato di bottiglie di birra e bicchieri di plastica; il
joystick del videogioco giaceva abbandonato di fronte alla tv. Il
divano era ricoperto di corpi inerti e alcuni invitati si erano
accomodati sul pavimento. C’erano più che altro ragazzi (e più che
altro dell’esercito), fatta eccezione per la ragazza che prima era
avvinghiata ad Austin. Al momento se ne stava seduta da sola sul
pavimento, muovendosi leggermente a tempo di musica, con le spalle
che eseguivano una danza rilassata. Fondamentalmente stava facendo
ciò che di solito fai quando ti ritrovi tutto solo a una festa e
vorresti dire «va bene, sto bene, va
tutto bene».
«Vuoi un altro drink?»
ho chiesto a Kael.
Lui ha sollevato la
birra, agitando la bottiglia vuota. «Sì, grazie.»
Siamo usciti dal
soggiorno, scavalcando con cautela corpi fasciati nei jeans. La
cucina era vuota. I tristi tentativi di Estelle di creare un
décor in stile
campagna francese (un canovaccio sul quale si leggeva la parola
CAFÉ, un galletto di ceramica, un piccolo cartello di metallo con
su scritto BOULANGERIE
che Elodie diceva Estelle pronunciasse nel
modo sbagliato), erano visibili in mezzo al caos di bottiglie vuote
e cartoni per la pizza. Eppure, vedendo Kael lì, sullo sfondo di
così tante cose familiari, sentendolo lì accanto a me emanare quel
dannato calore... la cucina mi sembrava improvvisamente minuscola.
Mentre lui mi sembrava enorme, incredibile, tanto che quando gli
sono passata accanto per poco non gli ho rifilato una gomitata
nelle costole. Si è allontanato da me di un millimetro, spostandosi
verso il frigo. Ovviamente dovevo recuperare il ghiaccio dal
vassoio nel freezer.
«Scusa», mi ha detto,
quasi inciampando sui miei piedi per spostarsi.
«Tuuutto bene», ho
replicato, mentre le mie parole si ingarbugliavano.
Mi faceva sentire così…
nervosa. Forse non era la parola giusta. Non ero tesa o nel panico,
sensazioni solitamente associate al nervosismo. Il fatto era che mi
faceva sentire come se tutto quanto fosse vicinissimo alla
superficie, crudo e vivido. Quando gli stavo attorno, il mio
cervello processava ogni cosa alla velocità della luce, ma tutto
sembrava così naturale, così calmo quando lui si apriva con me. Mi
sentivo intelligente e sveglia, stabile ed equilibrata nello stesso
momento. Il mio cuore ha iniziato a galoppare quando l’ho guardato
e mi sono accorta che mi stava fissando, le sue lunghe dita
giocavano con la collana che portava al collo. Forse era l’effetto
della vodka ma, mentre mi riempivo il bicchiere, riuscivo a
sentirmi addosso gli occhi di Kael, come se mi stesse ammirando da
capo a piedi. Non mi stava analizzando in quel modo viscido che di
solito hanno certi ragazzi quando ti squadrano. Non si comportava
affatto così. Quando Kael mi guardava, era come se mi vedesse
davvero, come se vedesse la vera me; chi ero, non chi cercavo di
essere. Ha sostenuto il mio sguardo per un momento, poi ha
abbassato gli occhi. Sentivo le farfalle nello stomaco. Anzi,
scordatevi le farfalle, erano merli. Grossi merli lucidi che
sbattevano le ali, facendo spiccare il volo al mio cuore. Ho
inspirato a fondo per cercare di calmarmi. Mi sentivo il suo
sguardo addosso e cercavo di ignorare la stretta in fondo allo
stomaco. Ho posato di nuovo la bottiglia sul ripiano e ho aggiunto
alla vodka del succo di mela. Qualcuno aveva fatto sparire quello
al mirtillo.
«Che gusto avrà?» Era
proprio alle mie spalle. Non saprei dire se si fosse mosso lui o
io. Ho visto la sua ombra nel lavandino di metallo e ho sperato con
tutta me stessa che non riuscisse a sentire il battito furioso nel
mio petto.
Mi sono voltata per
fronteggiarlo. Era così vicino.
«O buono o schifoso.» Mi
sono stretta nelle spalle.
Ha fatto un mezzo passo
indietro, ma il mio corpo non si è calmato.
«E sei disposta a
correre il rischio?» mi ha chiesto, sorridendo da dietro il drink.
Avrei voluto dirgli che non c’era bisogno che lo nascondesse... il
sorriso, intendevo. Che mi piaceva un sacco quando era divertente,
quando mi prendeva in giro. Ma avrei avuto bisogno di qualche shot
in più per raggiungere quel livello di audacia.
«Sì, suppongo di sì.» Ho
infilato il naso nel bicchiere e ne ho annusato il contenuto. Non
era così male. Ho preso un sorso. Non era tremendo. Ma forse avrei
fatto meglio a metterlo nel microonde, per fare finta che fosse
sidro.
«Buono?»
«Sì.» Ho sollevato il
bicchiere tra noi. «Vuoi provare?»
«No, grazie.» Ha scosso
la testa, sollevando la birra.
«Bevi sempre
birra?»
«In genere, sì. Era da
un po’ che non lo facevo, però», ha risposto, cercando di
trattenere un sorriso. «Perché sono stato via. Ero laggiù», ha
precisato.
«Ooohh, perché eri in
missione.» Ci ho messo un secondo a capire, nonostante la quantità
di volte in cui avevamo ripetuto la parola «missione». «Giusto. Sì.
Via. Laggiù.» Ero un’idiota, stavo facendo eco alle sue parole.
«Wow. Sì, riabituarsi alla vita civile dev’essere davvero
strano.»
Ogni volta che mi
ricordava che la sua vita era così drasticamente diversa dalla mia,
mi sentivo scossa. Ho notato di nuovo i suoi occhi immobili… dei
bellissimi occhi marroni. Forse era solo brillo quanto me. Mi sono
protesa verso Kael per chiedergli se fosse ubriaco, se stesse bene,
ma è stato allora che Austin è entrato nella stanza con Mendoza
alle calcagna. Bel modo per rovinare il momento. «Ehi ragazzi! Che
silenzio di tomba che c’è qui» ha esclamato, battendo le mani come
per spaventare un piccolo animale.
Io e Kael ci siamo
allontanati l’uno dall’altra, come per istinto.
«Amico mio.» I due si
sono dati il cinque. «Te ne stai andando?»
Mendoza ha
annuito.
«Grazie per essere
venuto. Lo so che è difficile uscire.»
«Sì.» Mendoza si è
voltato prima verso Austin, poi verso Kael. Ho avuto l’impressione
che di fronte a me stesse accadendo qualcosa di importante, ma non
ero assolutamente in grado di decifrarlo.
«La prossima volta porta
anche Gloria», ha detto Austin, prendendo la bottiglia di tequila.
Poi ha aggiunto: «L’ultimo prima di andare?»
Mendoza ha guardato il
grosso orologio bianco che portava al polso e ha fatto cenno di
no.
«Non esiste, bello. Devo
tornare a casa. I bambini hanno sempre fame e Gloria è stanca. Il
piccolo la tiene sveglia tutta la notte.»
«Non dicevo per te.»
Austin ha toccato le chiavi dell’auto di Mendoza appese al passante
della sua cintura. «Per me.»
Mendoza ha versato una
generosa quantità di tequila nel bicchiere di Austin. Non era mia
responsabilità preoccuparmi per mio fratello. Quella era una festa
e non avrei assunto io il ruolo di madre della casa. Non quella
sera.
«È stato bello
conoscerti», ho detto a Mendoza, quando mi ha
salutata.
«Prenditi cura del mio
ragazzo», mi ha sussurrato. Poi ha abbracciato Kael ed è uscito
dalla porta sul retro, lasciandomi lì a domandarmi che diamine
volesse dire.