Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci
Quando l’indagine psichiatrica, che di solito si accontenta di un materiale umano piuttosto fragile, si accosta a uno dei sommi rappresentanti del genere umano, non obbedisce ai motivi che così spesso le vengono attribuiti dai profani. Non aspira a “offuscare il risplendente e trascinare nella polvere il sublime”;250 non prova alcuna soddisfazione a ridurre la distanza tra quella perfezione e l’inadeguatezza degli oggetti di cui si occupa abitualmente. Tuttavia non può fare a meno di ritenere degno di esser compreso tutto ciò che ravvisa in quei modelli, nella convinzione che nessuno sia così grande da doversi vergognare di sottostare alle leggi che regolano con uguale rigore il fare normale e quello patologico.
Leonardo da Vinci (1452-1519) già dai contemporanei fu ammirato come uno dei più grandi uomini del Rinascimento italiano, eppure anche ad essi parve enigmatico come appare oggi a noi. Genio universale, “le cui frontiere si possono soltanto intuire, non mai stabilire con esattezza”,251 ebbe enorme influenza sulla sua epoca come pittore, mentre soltanto a noi è toccato riconoscere la grandezza del naturalista (e dell’ingegnere)252 che in lui andava congiunto con l’artista. Sebbene i capolavori da lui lasciati siano pittorici, mentre le sue scoperte scientifiche sono rimaste inedite e inutilizzate, pure il ricercatore in lui, nel corso della sua evoluzione, non lasciò mai completamente libero l’artista, nocendogli talvolta in modo grave, e verso la fine forse reprimendolo. Il Vasari gli attribuisce nelle ultime ore di vita parole di rimprovero a sé stesso per aver offeso Dio e gli uomini non avendo fatto quanto doveva nella propria arte.253 E sebbene questa narrazione del Vasari non abbia a suo favore alcuna verosimiglianza esteriore e ben poca interiore, ma faccia parte della leggenda che cominciava a sorgere intorno al misterioso maestro mentre questi era ancora in vita, pure essa mantiene un incontestabile valore come testimonianza del giudizio di quegli uomini e di quell’epoca.
Che cosa sottraeva la personalità di Leonardo all’intelligenza dei suoi contemporanei? Certo non la molteplicità dei suoi talenti e delle sue cognizioni, che gli consentì di entrare nella corte di Ludovico Sforza detto il Moro, duca di Milano, presentandosi come suonatore di liuto su uno strumento da lui stesso foggiato, o gli fece scrivere al duca quella memorabile lettera in cui magnificava le sue capacità di ingegnere civile e militare. L’epoca rinascimentale era ben avvezza a siffatta unione di varie attitudini nella stessa persona; Leonardo ne era tuttavia uno degli esempi più splendidi. Inoltre egli non apparteneva a quel tipo di uomini geniali, mediocremente dotati dalla natura quanto ad aspetto esteriore, i quali non attribuiscono alcun pregio alle forme esteriori della vita e nell’amarezza profonda dell’animo loro fuggono il contatto degli uomini. Era anzi grande e proporzionato nella persona, di compiuta bellezza nel volto e di eccezionale forza fisica, affascinante nei modi, sommamente eloquente, sereno e affabile con tutti; amava la bellezza anche nelle cose che lo circondavano, indossava volentieri abiti sfarzosi e apprezzava ogni raffinatezza del vivere. In un punto del suo Trattato della pittura, che ben esprime la sua serena inclinazione al godimento, egli confronta la pittura con le arti sorelle e descrive gli incomodi del lavoro dello scultore:254
con la faccia impastata, e tutto infarinato di polvere di marmo che pare un fornaio, e coperto di minute scaglie che pare gli sia fioccato addosso, e l’abitazione imbrattata e piena di scaglie e di polvere di pietra. Il che tutto al contrario avviene al pittore (...) imperocché il pittore con grande agio siede dinanzi alla sua opera, ben vestito, e move il lievissimo pennello con li vaghi suoi colori, e ornato di vestimenti come a lui piace, ed è l’abitazione sua piena di vaghe pitture e pulita, ed accompagnato spesse volte di musiche o lettori di varie e belle opere, le quali, sanza strepito di martello o altro rumore misto, sono con gran piacere udite.
È di certo possibile che questa immagine di un Leonardo radiosamente sereno e gaudente sia valida solo per il primo e più lungo periodo della vita dell’artista. Successivamente, quando il tramonto della dominazione di Ludovico il Moro lo indusse ad abbandonare Milano, la sua cerchia d’attività e la sua sicura posizione, costringendolo, sino all’ultimo rifugio in Francia, a una vita malsicura e povera di successi esteriori, è probabile che lo splendore della sua indole sia andato offuscandosi e abbia acquistato maggior spicco qualche tratto singolare della sua natura. Anche la svolta dei suoi interessi, più evidente col passare degli anni, dall’arte alla scienza dovette contribuire ad allargare l’abisso tra la sua persona e i contemporanei. Tutti gli esperimenti nei quali secondo loro egli sciupava il suo tempo, invece di dipingere assiduamente su ordinazione e arricchirsi come faceva per esempio il suo antico condiscepolo Perugino, venivano giudicati stravaganti passatempi o lo ponevano addirittura in sospetto di praticare la “magia nera”. Noi lo comprendiamo meglio, poiché dai suoi appunti sappiamo quali magie praticasse. In un’epoca in cui si cominciava a sostituire all’autorità della Chiesa quella degli antichi e che ancora non conosceva una ricerca libera da pregiudizi, Leonardo, precursore e rivale per nulla indegno di Bacone e di Copernico, fu inevitabilmente isolato. Di certo egli, sezionando cadaveri di cavalli e di uomini, costruendo apparecchi per volare, studiando la nutrizione delle piante e la loro reazione ai veleni, si allontanava decisamente dai commentatori di Aristotele e si accostava agli spregiati alchimisti, nei cui laboratori la ricerca sperimentale aveva se non altro trovato rifugio in quei tempi avversi.
Nella pittura, questo lo portò a prendere in mano il pennello sempre più di mala voglia, a dipingere sempre di meno e più raramente, lasciando perlopiù incompiuta l’opera iniziata e poco curandosi del successivo destino dei suoi lavori. Anche questo gli venne rimproverato dai suoi contemporanei, per i quali il suo rapporto con l’arte rimaneva un enigma.
Parecchi dei successivi ammiratori di Leonardo hanno tentato di scagionarlo dalla taccia d’instabilità di carattere. Essi sostengono che ciò che si biasima in lui è una peculiarità comune a tutti i grandi artisti. Anche l’operoso Michelangelo, così accanito nel lavoro, lasciò molte opere incompiute, e sarebbe altrettanto assurdo farne una colpa a lui come a Leonardo. Inoltre più di un quadro di Leonardo, secondo costoro, non è rimasto così incompiuto come parrebbe dalle dichiarazioni dell’autore. Quello che al profano appare un capolavoro, è per il creatore dell’opera d’arte un’incarnazione ancora insoddisfacente di ciò che egli intendeva esprimere; gli balena in mente una perfezione di cui ogni volta dispera di riuscire a riprodurre l’immagine. Meno che mai, secondo costoro, sarebbe giusto considerare l’artista responsabile della sorte finale che tocca alle sue opere.
Per quanto pertinenti possano essere alcune di queste giustificazioni, pure esse non sono esaustive rispetto alle circostanze di fronte alle quali ci troviamo nel caso di Leonardo. La lotta sfibrante con l’opera, la fuga finale da essa e l’indifferenza per il destino che l’attende possono ripresentarsi in molti altri artisti; è certo però che in Leonardo questi atteggiamenti si manifestarono in sommo grado. Edmondo Solmi cita l’espressione di un allievo:255 “‘Pareva, dice un discepolo, che ad ogni ora tremasse, quando si poneva a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando la grandezza dell’arte, tal che egli scorgeva errori in quelle cose, che ad altri parevano miracoli.’ Gli ultimi dipinti, la Leda, la Madonna di Sant’Onofrio, il Bacco e il San Giovanni Battista giovane, erano rimasti incompiuti ‘come quasi intervenne di tutte le cose sue’.” Il Lomazzo, che eseguì una copia del Cenacolo, si richiamò in un sonetto alla notoria incapacità di Leonardo di portare a termine le sue pitture:256
Protogen che il pennel di sue
pitture
Non levava, agguagliò il Vinci Divo
Di cui opra non è finita pure.
La lentezza con cui Leonardo dipingeva era proverbiale. Al Cenacolo, nel convento di Santa Maria delle Grazie, egli lavorò, dopo aver compiuto minuziosi studi preparatori, per tre anni di seguito. Un contemporaneo, il novelliere Matteo Bandello, che era allora aggregato al convento come frate novizio, racconta che spesso Leonardo già di buon mattino saliva sull’impalcatura, non deponendo il pennello fino all’imbrunire e non pensando né a mangiare né a bere. Poi passavano giorni senza ch’egli mettesse mano al dipinto, indugiando talvolta ore e ore davanti ad esso e contentandosi di esaminarlo entro di sé. Altre volte, dal cortile del Castello di Milano dove stava lavorando al modello della statua equestre di Francesco Sforza, veniva difilato al convento, per dare a una figura un paio di pennellate, andandosene però poi immediatamente.257 Al ritratto di Monna Lisa, sposa del fiorentino Francesco del Giocondo, egli lavorò secondo quanto dice il Vasari per quattro anni, senza riuscire a portarlo al suo ultimo compimento, per cui poté accadere che il quadro non venisse consegnato al committente ma rimanesse a Leonardo, che lo portò con sé in Francia.258 Acquistato dal re Francesco I, esso costituisce oggi uno dei massimi tesori del Louvre.
Se si confrontano questi resoconti sul modo di lavorare di Leonardo con la testimonianza dei numerosissimi schizzi e studi che di lui si sono conservati in cui sono abbozzate molteplici variazioni di tutti i motivi che compaiono nei suoi dipinti, siamo costretti a respingere totalmente l’opinione secondo cui tratti di volubilità e incostanza avrebbero influito, se pur in misura minima, sul rapporto di Leonardo con la sua arte. In lui si osserva al contrario un approfondimento del tutto eccezionale, una ricchezza di alternative tra le quali egli fa cadere la sua scelta con grande cautela; le sue sono esigenze ben difficili da soddisfare, e si nota un’inibizione nell’esecuzione che neppure l’inevitabile impossibilità per l’artista di tener dietro al suo progetto ideale è sufficiente a spiegare. La lentezza che sempre contraddistinse i lavori di Leonardo si rivela come un sintomo di questa inibizione, una sorta di premonizione di quel distacco dalla pittura che subentrò più tardi.259 Essa determinò anche il non immeritato destino del Cenacolo. Leonardo non riusciva ad adattarsi alla pittura d’affresco, che richiede un lavoro rapido mentre il fondo è ancora umido; perciò scelse colori a olio la cui essiccazione gli consentiva di protrarre il compimento dell’opera secondo l’estro e il proprio agio. I colori però si staccarono dal fondo su cui erano stati disposti e che li isolava dal muro; si aggiunsero poi i difetti della parete e le vicissitudini dell’edificio, che furono decisivi per la rovina dell’opera, che a quel che sembra è inevitabile.260
Al fallimento di un tentativo tecnico analogo pare si debba la perdita del quadro della Battaglia di Anghiari, che incominciò a dipingere più tardi, in gara con Michelangelo,261 su una parete della Sala del Consiglio di Firenze e che lasciò anch’esso incompiuto. Qui è come se sopravvenisse un interesse estraneo – quello dello sperimentatore – a rinforzare in un primo tempo l’interesse artistico, per nuocere poi all’opera d’arte.
Il carattere dell’uomo Leonardo presentò parecchi altri tratti inconsueti e apparenti contraddizioni. Una certa inattività e indifferenza sembravano palesi in lui. In un’epoca in cui ciascun individuo cercava di conquistare il più ampio spazio alla propria attività, il che non poteva effettuarsi senza sviluppare un’energica aggressività contro gli altri, egli spiccava per la sua tranquilla placidità, per la sua cura a evitare qualsiasi ostilità e contrasto. Era mite e benevolo con tutti, rifiutava a quanto pare di mangiar carne perché non riteneva giusto togliere la vita agli animali, e trovava un singolare piacere nel dare la libertà agli uccelli che comperava al mercato.262 Condannava la guerra e gli spargimenti di sangue e chiamava l’uomo non tanto “re delli animali” quanto piuttosto la “prima bestia infralli animali”.263 Ma questa femminea delicatezza del sentire non gli impediva di accompagnare delinquenti condannati a morte verso il luogo dell’esecuzione, per studiare le espressioni dei loro volti stravolti dall’angoscia e ritrarle nel suo taccuino, non gli impediva di progettare le più atroci armi offensive e di porsi al servizio di Cesare Borgia in qualità di supremo ingegnere militare. Sembrava spesso indifferente al bene e al male, o esigeva di essere misurato con un metro particolare. Partecipò in posizione decisiva alla campagna militare del Borgia, che portò costui, il più spietato e sleale dei contendenti, al possesso della Romagna. Non una riga nei suoi appunti tradisce una critica o una partecipazione agli avvenimenti di quei giorni. Il paragone con Goethe durante la campagna di Francia viene qui spontaneo.
Se un tentativo biografico intende realmente spingersi a fondo nella comprensione della vita psichica del proprio eroe, non può passar sotto silenzio, come succede per discrezione o falso pudore nella maggior parte delle biografie, l’attività e le caratteristiche sessuali specifiche del soggetto. Ciò che sappiamo di Leonardo a questo proposito è poco, ma questo poco è significativo. In un periodo che vedeva in lotta tra loro una sensualità sfrenata e una cupa ascesi, Leonardo fu un esempio di freddo rifiuto della sessualità, quale non ci si aspetterebbe in un artista e in un interprete della bellezza femminile. Solmi cita di lui la seguente espressione, che ne caratterizza la frigidità: “L’atto del coito e le membra a quello adoprate son di tanta bruttura che, se non fusse la bellezza de’ volti e li ornamenti delli opranti e la sfrenata disposizione, la natura perderebbe la spezie umana.”264 Gli scritti postumi, i quali non trattano unicamente dei più alti problemi scientifici ma contengono anche contributi di poco conto che anzi sembrano indegni di uno spirito così grande (una storia naturale allegorica, favole di animali, facezie, profezie),265 sono di un tale grado di castità – si sarebbe tentati di definirli astinenti – che desterebbe anche oggi meraviglia in un’opera letteraria. Essi evitano risolutamente qualsiasi accenno alla sessualità, come se Eros soltanto, che conserva ogni cosa vivente, non fosse argomento degno della brama di sapere del ricercatore.266 È ben noto quanto spesso i grandi artisti si compiacciano di sfogare le loro fantasie in raffigurazioni erotiche e addirittura grossolanamente oscene; di Leonardo per contro possediamo soltanto alcuni disegni anatomici che si riferiscono ai genitali interni della donna, alla posizione del bambino nel corpo materno, e così via.267
È incerto se Leonardo abbia mai stretto una donna in amplesso amoroso; né si sa se abbia avuto mai una profonda relazione spirituale, come quella di Michelangelo con Vittoria Colonna. Quando ancora viveva come apprendista in casa del suo maestro, il Verrocchio, fu accusato con altri giovani di pratiche omosessuali illecite, ma l’accusa si concluse con la sua assoluzione. Pare che incorresse in tale sospetto perché si serviva come modello di un ragazzo di cattiva fama.268 Divenuto maestro, si circondò di bei ragazzi e giovanetti, che accoglieva come discepoli. L’ultimo di questi, Francesco Melzi, lo accompagnò in Francia, rimase con lui sino alla sua morte e fu da lui nominato suo erede. Senza condividere la sicurezza dei suoi moderni biografi, che naturalmente respingono la possibilità di un rapporto sessuale tra lui e i suoi allievi come un oltraggio infondato al grand’uomo, si può ritenere molto più probabile che i rapporti affettuosi tra Leonardo e quei giovani – che secondo la consuetudine del tempo condividevano la vita del maestro – non sfociassero in una attività sessuale. Inoltre non deve essergli attribuito un alto grado di attività sessuale.
La singolarità di questa vita sentimentale e sessuale si può comprendere, in connessione con la duplice natura di Leonardo, artista e ricercatore, soltanto in un modo. Tra i biografi, che spesso sono restii ad adottare punti di vista psicologici, soltanto uno, Edmondo Solmi, si è accostato per quel che so alla soluzione dell’enigma; per contro uno scrittore, Dmitrij Sergeevič Merežkovskij – che ha scelto Leonardo come protagonista di un grande romanzo storico – ha fondato il suo ritratto su una interpretazione analoga di quell’uomo eccezionale, esprimendo chiaramente la sua concezione, se pur non in parole piane ma, alla maniera dei poeti, in termini plastici.269 Il giudizio di Solmi su Leonardo è il seguente: “Ma la sete inestinguibile di conoscere il mondo circostante e trovare col freddo esame il segreto della perfezione aveva condannata l’opera di Leonardo a rimanere imperfetta.”270 In un saggio delle Conferenze fiorentine271 viene citata un’espressione di Leonardo che costituisce la sua professione di fede e fornisce la chiave della sua natura:272
... nessuna cosa si può amare né odiare, se prima non si ha cognition di quella.
E questo egli ripete in un punto del Trattato della pittura, in cui sembra volersi difendere dal rimprovero di irreligiosità:273
Ma tacciano tali riprensori, ché questo è il modo di conoscere l’operatore di tante mirabili cose e questo è il modo di amare un tanto inventore, perché invero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama, e se tu non la conoscessi, poco o nulla la potrai amare.
Il valore di queste frasi di Leonardo non va cercato nella comunicazione di un’importante verità psicologica, poiché ciò che esse affermano è palesemente falso e Leonardo lo sapeva certo altrettanto bene quanto noi. Non è vero che gli uomini aspettino di amare o di odiare finché non abbiano studiato e conosciuto nella sua essenza ciò che forma l’oggetto di questi affetti; piuttosto essi amano impulsivamente, secondo motivi sentimentali che nulla hanno a che fare con la conoscenza e il cui effetto è se mai fiaccato dalla ponderazione e dalla riflessione. Leonardo poteva dunque voler dire soltanto che l’amore praticato dagli uomini non è l’amore vero, ineccepibile; che si dovrebbe amare in modo da trattenere l’affetto, da sottometterlo al travaglio del pensiero e da lasciarlo libero solo dopo che avesse superato l’esame della riflessione. E allo stesso tempo noi comprendiamo che egli vuol farci intendere che in lui è così: sarebbe desiderabile che tutti gli altri trattassero l’amore e l’odio nello stesso suo modo.
E in lui sembra realmente che le cose stessero così. I suoi affetti erano controllati, sottomessi alla pulsione di ricerca; egli non amava né odiava, ma si chiedeva donde venisse ciò che doveva amare o odiare, e che cosa significasse, e così doveva apparire a prima vista indifferente verso il bene e il male, verso il bello e il brutto. Durante questo sforzo di ricerca, amore e odio perdevano i loro connotati e si trasformavano regolarmente in interesse intellettuale. In realtà Leonardo non era privo di passione, non gli mancava la scintilla divina che direttamente o indirettamente è la forza motrice – “il primo motore”274 – di ogni fare umano. Egli aveva semplicemente convertito la passione in sete di sapere; si dedicava alla ricerca con quella continuità, perseveranza e profondità che derivano dalla passione, e al culmine dell’attività intellettuale, raggiunta la conoscenza, lasciava prorompere l’affetto lungamente trattenuto, come un corso d’acqua deviato è lasciato scorrere liberamente dopo che ha compiuto il suo lavoro. Al culmine di una scoperta, quando il suo sguardo è in grado di abbracciare un vasto settore di quel tutto di cui è parte, egli è afferrato dal pathos e celebra con parole esaltate la magnificenza di quel frammento di creazione che ha indagato oppure – in termini religiosi – la grandezza del suo Creatore. Solmi ha esattamente compreso questo processo di trasmutazione che si verifica in Leonardo. Dopo aver citato uno di quei punti in cui Leonardo celebra la sublime costrizione cui la natura soggiace (“O mirabile Necessità...”),275 egli scrive:276 “Tale trasfigurazione della scienza della natura in emozione, quasi direi, religiosa, è uno dei tratti caratteristici de’ manoscritti vinciani, e si trova cento e cento volte espressa...”
Per la sua insaziabile e inesausta sete di ricerca Leonardo è stato chiamato il Faust italiano. Ma a parte ogni dubbio che sia possibile riconvertire la pulsione di ricerca in gioia di vivere – riconversione che dobbiamo considerare la premessa della tragedia di Faust – si potrebbe azzardare l’osservazione che lo sviluppo di Leonardo avviene piuttosto secondo la linea del pensiero spinoziano.
La conversione della forza pulsionale psichica in forme diverse di attività è forse altrettanto poco effettuabile senza perdita quanto la conversione delle forze fisiche. L’esempio di Leonardo mostra di quante cose diverse si debba tener conto in questi processi. Il differimento – per cui si ama solo dopo aver conosciuto – diventa una sostituzione. Non si ama né si odia più veramente, quando si è pervenuti alla conoscenza; si rimane al di là del bene e del male. Si è indagato anziché amare. E forse per questo la vita di Leonardo è stata tanto più povera d’amore di quella di altri grandi uomini e di altri artisti. Le passioni tempestose di natura esaltante e struggente, che sono state per altri uomini le esperienze più ricche, non sembrano averlo toccato.
Ma ci sono altre conseguenze. Si è indagato anche anziché agire e creare. Chi ha cominciato a intravedere la grandiosità della correlazione cosmica e la sua necessità, smarrisce facilmente il proprio piccolo io. Rapiti nell’ammirazione, pervasi di umiltà vera, si dimentica troppo facilmente che noi stessi siamo una parte di quelle forze operanti e che ci è consentito tentare, in proporzione alle nostre forze, di intervenire su un piccolo frammento del corso necessario del mondo per modificarlo: di quel mondo in cui il piccolo non è meno meraviglioso e significativo del grande.
Leonardo aveva forse cominciato a indagare, come pensa Solmi,277 in funzione della propria arte. Si affaticò intorno alle proprietà e alle leggi della luce, dei colori, delle ombre, della prospettiva, allo scopo di assicurarsi la padronanza dell’imitazione della natura e mostrare ad altri la stessa via. Verosimilmente già allora esagerava il valore di queste conoscenze per l’artista. Poi, sempre più stretto dalla necessità pittorica, egli fu spinto a esplorare gli oggetti della pittura: animali e piante, e le proporzioni del corpo umano; e dalle loro forme esteriori passò a ricercare la conoscenza della loro intima struttura e delle loro funzioni vitali, che si manifestano anch’esse nell’aspetto e richiedono di essere rappresentate dall’arte. E infine la pulsione, divenuta predominante, lo trascinò a rompere ogni nesso con le esigenze della sua arte, così che scoprì le leggi generali della meccanica, intuì la storia dei sedimenti e dei fossili in Valdarno e poté annotare a caratteri cubitali nel suo quaderno la scoperta: “Il sole non si move.”278 Le sue indagini si estesero a quasi tutti i campi della scienza naturale, e in ciascuno di essi egli si dimostrò uno scopritore o quantomeno un precursore e un pioniere.279 Eppure la sua sete di sapere restò rivolta al mondo esterno, qualcosa lo allontanava dall’esplorare la vita interiore dell’uomo; nella “Accademia Vinciana”, per la quale disegnò emblemi artisticamente intrecciati, poco spazio era lasciato alla psicologia.
Quando poi tentò di tornare dalla ricerca all’esercizio dell’arte, da cui era partito, esperimentò su di sé l’impedimento provocato dalla nuova impostazione dei suoi interessi e dalla mutata natura della sua attività mentale. Nel quadro lo interessava principalmente un problema, e dietro questo ne vedeva affiorare innumerevoli altri, come gli succedeva di consueto nella sua interminabile e inesauribile investigazione della natura. Non riusciva più a porre un limite alle sue pretese, a isolare l’opera d’arte, a strapparla dall’ampio contesto di cui la sapeva parte. Dopo i più sfibranti tentativi di esprimere in essa tutto ciò che nel suo pensiero vi si riallacciava, era costretto a lasciarla a mezzo o a dichiararla incompiuta.
Un tempo l’artista aveva assunto al suo servizio, perché lo assistesse, il ricercatore; ora il servitore era diventato il più forte e dominava il suo signore.
Quando nell’immagine di una persona così come ci è data dal suo carattere troviamo che una singola pulsione si è sviluppata in modo straordinariamente intenso, come avviene per l’ardente desiderio di sapere in Leonardo, ci rifacciamo per spiegarla a una particolare disposizione, sulla cui determinazione, probabilmente organica, ancora non conosciamo, nella maggioranza dei casi, altri particolari. I nostri studi psicoanalitici su soggetti nervosi ci portano però a crearci due altre aspettative, che saremmo lieti di veder confermate in ogni singolo caso. Riteniamo probabile che ogni pulsione particolarmente intensa sia già stata attiva nella prima infanzia del soggetto e che la sua supremazia sia stata stabilita da impressioni della vita infantile; inoltre presumiamo che essa abbia attirato a sé, per rafforzarsi, forze pulsionali originariamente sessuali, così che più tardi essa può sostituire una parte della vita sessuale. Un uomo così fatto si dedicherebbe alla ricerca, per esempio, con la stessa passione che un altro riserba ai suoi amori, per cui egli potrebbe indagare anziché amare. Non soltanto per la pulsione di ricerca, ma anche per la maggior parte degli altri casi di pulsioni particolarmente intense, azzarderemmo l’ipotesi che vi sia stato un rafforzamento sessuale.
L’osservazione della vita quotidiana degli uomini ci dimostra che ai più riesce di deviare parti molto considerevoli delle loro forze pulsionali sessuali verso l’attività professionale. La pulsione sessuale è particolarmente idonea a fornire contributi di questa natura, perché è dotata della capacità di sublimazione, vale a dire è in grado di scambiare la sua meta immediata con altre mete, che possono essere considerate più elevate e non sessuali. Secondo noi questo processo è provato quando la storia infantile di un individuo, vale a dire la storia del suo sviluppo psichico, ci dimostra che nell’infanzia la pulsione predominante era al servizio di interessi sessuali. Ne abbiamo un’ulteriore conferma quando nella vita sessuale degli anni maturi si presenta un sorprendente deperimento, quasi che una parte dell’attività sessuale fosse ora sostituita dall’attività della pulsione predominante.
L’applicazione di queste ipotesi al caso di una predominante pulsione di ricerca sembra andare incontro a particolari difficoltà, perché proprio ai bambini non si è soliti attribuire né questa pulsione così seria né interessi sessuali degni di nota. Ciò nonostante queste difficoltà sono facilmente eliminabili. Testimonianza della brama di sapere dei bambini piccoli è il loro instancabile piacere di far domande, che l’adulto trova enigmatico finché non si rende conto che tutte queste domande sono soltanto giri di parole e che non possono aver fine perché il bambino sta solo cercando di sostituire con esse un’unica domanda che tuttavia non pone. Diventato più grande e giudizioso, questa manifestazione della voglia di sapere spesso ha termine improvvisamente. Una spiegazione completa ci è però data dall’osservazione psicoanalitica, la quale c’insegna che molti, forse la maggior parte dei bambini, e in ogni caso quelli più dotati, attraversano sin dal terz’anno circa di vita un periodo che si potrebbe designare il periodo dell’esplorazione sessuale infantile. La voglia di sapere nei bambini di questa età, per quel che ne sappiamo, non nasce in modo spontaneo ma è destata dall’impressione di un evento importante: dalla nascita, avvenuta o paventata per esperienza esterna, di un fratellino o di una sorellina, in cui il bambino vede una minaccia per i suoi interessi egoistici. L’indagine si concentra sul problema di dove vengano i bambini, proprio come se il bambino cercasse mezzi e vie per impedire un evento così indesiderato. Abbiamo sperimentato con stupore che il bambino non dà credito alle informazioni che gli sono date, ricusa per esempio, energicamente, la favola della cicogna, così ricca di significato mitologico; che fa risalire da questo atto di incredulità la propria autonomia intellettuale e si sente spesso in seria opposizione all’adulto, cui non perdona mai più di averlo defraudato, in questa circostanza, della verità. Egli indaga per proprio conto, indovina che il bambino si trova nel ventre materno e, guidato dagli impulsi della propria sessualità, costruisce ipotesi sulla provenienza del bambino dall’atto del mangiare, sulla sua nascita dall’intestino, sulla parte avuta dal padre, così difficile da comprendere, e sospetta già allora l’esistenza dell’atto sessuale, che gli sembra alcunché di ostile e brutale. Ma dato che la sua costituzione sessuale non è ancora all’altezza del compito generativo, la sua indagine sulla provenienza dei bambini deve anch’essa arenarsi ed essere abbandonata perché insolubile. L’impressione di questo scacco nella prima prova di autonomia intellettuale sembra essere durevole e profondamente deprimente.280
Se il periodo di esplorazione sessuale infantile si chiude sotto la spinta di un’energica rimozione sessuale, si aprono al destino futuro della pulsione di ricerca tre diverse possibilità, in base al suo nesso precoce con interessi sessuali.
Può accadere che l’esplorazione condivida il destino della sessualità, che la brama di sapere risulti d’ora in poi inibita e la libera attività dell’intelligenza circoscritta, fors’anche per tutta la vita, soprattutto perché poco tempo dopo si fa valere attraverso l’educazione la potente inibizione intellettuale della religione. Questo è il tipo della inibizione nevrotica. Noi sappiamo che l’indebolimento mentale così acquisito favorisce lo scoppio di un’affezione nevrotica.
In un secondo tipo lo sviluppo intellettuale è abbastanza robusto da resistere alla rimozione sessuale che lo intacca. Qualche tempo dopo il declino dell’esplorazione sessuale infantile, l’intelligenza irrobustita, memore dell’antico legame, offre il suo aiuto per eludere la rimozione sessuale, e l’esplorazione sessuale repressa fa ritorno dall’inconscio come rimuginare ossessivo, certamente deformata e non libera, ma abbastanza forte da sessualizzare il pensiero stesso e da colorire le operazioni intellettuali con il piacere e con l’angoscia propri degli autentici processi sessuali. L’indagare diventa allora un’attività sessuale, spesso esclusiva, e il sentire che si è raggiunta una soluzione intellettuale, una chiarificazione, si sostituisce al soddisfacimento sessuale; ma l’inconcludenza tipica dell’esplorazione infantile si riproduce anche qui, giacché questo rimuginare non ha mai fine e la sensazione intellettuale di aver trovato la soluzione agognata si sposta sempre più lontano.
Il terzo tipo, il più raro e perfetto, sfugge in forza di una particolare disposizione sia alla inibizione intellettuale che alla coazione nevrotica a pensare. La rimozione sessuale interviene per la verità anche in questo caso; ma non riesce a respingere nell’inconscio una pulsione parziale del piacere sessuale; la libido invece si sottrae al destino della rimozione nella misura in cui sin dall’inizio si sublima in brama di sapere e si aggiunge, rafforzandola, alla vigorosa pulsione di ricerca. Anche qui [come nel secondo tipo] l’indagare diventa in certa misura una coazione e un sostituto dell’attività sessuale, ma in virtù della totale diversità dei processi psichici che ne sono il fondamento (sublimazione in luogo dell’irruzione dall’inconscio) manca il carattere della nevrosi; viene a cadere il collegamento con i complessi originari che accompagnano l’esplorazione sessuale infantile, e la pulsione può liberamente operare al servizio dell’interesse intellettuale. La pulsione tiene ancora conto della rimozione sessuale – che l’ha resa così forte attraverso un apporto di libido sublimata – evitando di occuparsi di temi sessuali.
Esaminando la coincidenza che si nota in Leonardo tra la predominante pulsione di ricerca e l’atrofia della vita sessuale, ridotta alla cosiddetta omosessualità ideale [sublimata], saremmo propensi a fare di lui un caso esemplare del nostro terzo tipo. Dopo un periodo infantile di curiosità al servizio di interessi sessuali, egli sarebbe riuscito a sublimare la maggior parte della sua libido in una spinta alla ricerca: ciò costituirebbe il nucleo e il segreto del suo essere. È vero però che non è facile provarlo. Occorrerebbe conoscere l’evoluzione psichica dei primi anni della sua infanzia, e sembra stolto sperare in documenti al riguardo, dal momento che le notizie sulla sua vita sono così scarse e incerte e che per di più si tratta di ragguagli intorno a circostanze che si sottraggono all’attenzione degli osservatori, soprattutto se si tratta di persone della nostra stessa generazione.
Sappiamo ben poco della giovinezza di Leonardo. Nacque nel 1452 nella piccola cittadina di Vinci, tra Firenze ed Empoli; era figlio naturale, cosa che in quel tempo non era affatto considerata una grave onta borghese; suo padre era Ser Piero da Vinci, notaio, discendente da una famiglia di notai e agricoltori, che derivavano il loro nome dal luogo d’origine; sua madre una certa Caterina, verosimilmente una contadinella, che più tardi sposò un altro abitante di Vinci. La madre non compare più nella vita di Leonardo, e solo il romanziere Merežkovskij ritiene di poterne seguire la traccia. L’unica notizia certa sull’infanzia di Leonardo ci viene da un documento ufficiale dell’anno 1457, un catasto fiorentino in cui Leonardo compare tra i familiari di Ser Piero come suo figlio illegittimo di cinque anni.281 Il matrimonio di Ser Piero con una certa Donna Albiera era rimasto senza figli, e perciò il piccolo Leonardo poté essere allevato in casa del padre. Egli abbandonò la casa paterna quando entrò come apprendista, non sappiamo a quanti anni, nella bottega di Andrea del Verrocchio. Nell’anno 1472 il nome di Leonardo si trova già nell’elenco dei membri della “Compagnia dei Pittori”.282 Questo è tutto.