Lezione 25
L’angoscia
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Signore e signori, in ciò che vi ho detto nell’ultima lezione sul nervosismo generale665 avrete certamente ravvisato la più incompleta e insufficiente delle mie esposizioni. So che questo è vero e penso che niente vi avrà meravigliato di più del fatto che in essa non si facesse menzione dell’angoscia di cui pure si lamenta la maggior parte dei nervosi, i quali la definiscono come la loro più terribile sofferenza; tale angoscia realmente può raggiungere in essi la massima intensità e indurli a fare le cose più folli. Ma su questo punto almeno non volevo apparirvi troppo stringato, dato che il mio proposito era, al contrario, di mettere a fuoco con particolare cura il problema dell’angoscia nei nervosi e di illustrarvelo esaurientemente.

Non occorre che vi rappresenti l’angoscia in quanto tale; a ognuno di noi è successo di provare personalmente questa sensazione o, per meglio dire, questo stato affettivo. Ma penso che non ci si sia mai posti abbastanza sul serio la domanda perché proprio i nervosi provino angoscia tanto più sovente e tanto più fortemente degli altri. Forse lo si riteneva cosa ovvia; comunemente infatti le parole “nervoso” e “ansioso” vengono usate l’una per l’altra, come se significassero la stessa cosa;666 ma ciò non è giusto: vi sono persone angosciate che per il resto non sono affatto nervose, e nervosi che soffrono di molti sintomi, tra i quali però non si riscontra la tendenza all’angoscia.

Comunque stiano le cose, resta fermo che il problema dell’angoscia è un punto nodale, nel quale convergono tutti i più svariati e importanti interrogativi, un enigma la cui soluzione è destinata a gettare un fascio di luce su tutta la nostra vita psichica. Io non sostengo di essere in grado di darvi questa soluzione completa; ma vi aspetterete certamente che la psicoanalisi affronti anche questo tema in modo del tutto diverso dalla medicina scolastica. Là sembra che ci si interessi soprattutto delle vie anatomiche per le quali s’instaura lo stato d’angoscia. Si dice che è stimolato il midollo allungato, e l’ammalato apprende di soffrire di una nevrosi del nervo vago. Il midollo allungato è un argomento molto serio e affascinante. Mi ricordo benissimo quanto tempo e fatica ho dedicato anni fa al suo studio. Oggi però devo dire che per me non vi è nulla di più indifferente, per la comprensione della psicologia dell’angoscia, della conoscenza della via nervosa lungo la quale corrono i suoi eccitamenti.667

Si può dapprima trattare per un bel pezzo dell’angoscia senza pensare affatto al nervosismo. Capite senz’altro che cosa voglio dire se designo questa angoscia come angoscia “reale”, in contrapposizione all’angoscia “nevrotica”. L’angoscia reale ci appare dunque come qualcosa di assai razionale e comprensibile. Di essa affermeremo che è la reazione alla percezione di un pericolo esterno, cioè di un danno atteso, previsto; che è collegata al riflesso della “fuga”, e che può essere considerata un’espressione della pulsione di autoconservazione. In quali occasioni compaia l’angoscia, ossia di fronte a quali oggetti e in quali situazioni, dipenderà naturalmente in gran parte dalla quantità di cose che il soggetto conosce e dal senso che egli ha del proprio potere nei confronti del mondo esterno. Troviamo del tutto comprensibile che il selvaggio abbia paura di un cannone e sia terrorizzato da un’eclissi solare, mentre il bianco, che sa maneggiare quello strumento e prevedere quell’evento, in tali circostanze, non si angoscia affatto. Altre volte è proprio il maggior sapere a favorire l’angoscia, perché permette di riconoscere tempestivamente il pericolo. Così il selvaggio si spaventerà davanti a una traccia, nella foresta, che non dice nulla all’inesperto ma che a lui rivela la vicinanza di una bestia feroce; e l’esperto navigante osserverà con terrore una nuvoletta in cielo, che al passeggero pare insignificante mentre a lui annuncia l’approssimarsi dell’uragano.

Dopo ulteriore riflessione, si deve dire che il giudizio secondo cui l’angoscia reale è razionale e appropriata ha bisogno di essere radicalmente rivisto. In caso di pericolo incombente l’unico comportamento appropriato sarebbe infatti la fredda valutazione delle proprie forze rapportata all’entità della minaccia, e in base a ciò la decisione se offra maggiori prospettive di buon esito la fuga o la difesa, o eventualmente anche l’attacco. In questo contesto non vi è però posto per l’angoscia: tutto ciò che vien fatto sarebbe fatto altrettanto bene, e forse meglio, se non sopravvenisse alcuno sviluppo d’angoscia. È anche chiarissimo che, se l’angoscia raggiunge un’intensità eccessiva, si dimostra assai inappropriata, paralizza ogni azione, compresa quella della fuga. Abitualmente la reazione al pericolo consiste in un miscuglio di affetto d’angoscia e di azione di difesa. L’animale spaventato ha paura e fugge; ma ciò che è qui appropriato è la “fuga”, non l’“aver paura”.

Ci sentiamo dunque tentati di affermare che lo sviluppo d’angoscia non è mai confacente allo scopo. A meglio comprendere, forse ci sarà d’aiuto scomporre più accuratamente la situazione d’angoscia. Il primo dato in essa è la preparazione di fronte al pericolo, che si esprime in un aumento dell’attenzione sensoriale e della tensione motoria. Questa attesa preparatoria va riconosciuta senza esitazione come vantaggiosa; anzi, la sua mancanza comporterebbe serie conseguenze. Da essa hanno origine, da una parte, l’azione motoria – in primo luogo la fuga, e a uno stadio più elevato la difesa attiva – e, dall’altra, ciò che percepiamo come stato d’angoscia. Quanto più lo sviluppo d’angoscia si limita a un puro accenno, a un segnale,668 tanto più indisturbata si compie la conversione in azione di questa preparazione all’angoscia, e tanto più appropriatamente si struttura l’intero processo. In ciò che noi chiamiamo angoscia, la preparazione all’angoscia mi sembra dunque essere l’elemento appropriato, e lo sviluppo d’angoscia quello non appropriato.

Evito di addentrarmi più a fondo nel quesito se il nostro uso linguistico intenda designare con “angoscia”, “paura”, “spavento”669 la stessa cosa o cose chiaramente differenti. Penso solo che “angoscia” si riferisce allo stato e prescinde dall’oggetto, mentre “paura” richiama l’attenzione proprio sull’oggetto. “Spavento” sembra invece avere un senso particolare, ossia mettere in risalto l’effetto di un pericolo che non viene accolto in uno stato di preparazione all’angoscia. Cosicché si potrebbe dire che l’uomo si protegge dallo spavento con l’angoscia.670

Non vi sarà sfuggita una certa ambiguità e indeterminatezza nell’uso della parola “angoscia”. Perlopiù con “angoscia” intendiamo lo stato soggettivo in cui ci si viene a trovare con la percezione dello “sviluppo d’angoscia”, e chiamiamo questo stato un affetto. E che cos’è in senso dinamico un affetto? In ogni caso, qualcosa di molto composito. Un affetto comprende in primo luogo certe innervazioni, o scariche motorie, e in secondo luogo certe sensazioni; queste ultime sono di natura duplice: le percezioni delle azioni motorie che si sono verificate e le sensazioni dirette di piacere e dispiacere, che danno all’affetto, come si dice, la nota fondamentale. Non credo però che con questa enumerazione si sia colta l’essenza dell’affetto. Nel caso di alcuni affetti crediamo di vedere più in profondità e di riconoscere che il nucleo che tiene unito l’insieme sovradescritto sia la ripetizione di una determinata esperienza significativa. Questa esperienza potrebbe essere solo un’impressione assai primordiale, di natura generalissima, da situarsi nella preistoria non dell’individuo, bensì della specie. Per farmi comprendere meglio, lo stato affettivo sarebbe costruito allo stesso modo di un attacco isterico, sarebbe come questo il sedimento di una reminiscenza. L’attacco isterico sarebbe dunque paragonabile a un affetto individuale di nuova formazione, l’affetto normale all’espressione di un’isteria generale divenuta retaggio.671

Non dovete supporre che ciò che vi ho detto qui sugli affetti sia patrimonio riconosciuto della psicologia normale. Si tratta, al contrario, di concezioni che sono nate sul terreno della psicoanalisi e che solo lì sono di casa. Ciò che nella psicologia potete apprendere intorno agli affetti, per esempio la teoria di James-Lange, per noi psicoanalisti è addirittura incomprensibile e tale da non poter essere discussa. Non riteniamo però molto sicura nemmeno la nostra conoscenza in materia di affetti; il nostro è un primo tentativo di orientarci in questo territorio oscuro. Andiamo avanti. Per quanto riguarda l’affetto d’angoscia, crediamo di sapere di quale impressione primordiale sia la ripetizione: riproduce l’atto della nascita, nel quale ha luogo quel misto di sentimenti spiacevoli, di impulsi di scarica e di sensazioni corporee che è divenuto il prototipo dell’effetto prodotto da un pericolo mortale e che da allora viene da noi ripetuto come stato d’angoscia. L’enorme incremento di stimoli, dovuto all’interruzione del ricambio del sangue (ossia della respirazione interna), fu allora la causa dell’esperienza d’angoscia: la prima angoscia fu dunque un’angoscia tossica. Il termine “angoscia” – angustiae, Enge672 – sottolinea il carattere del restringimento del respiro, che allora fu presente come conseguenza della situazione reale e che oggi viene quasi sempre riprodotto nell’affetto. Riconosciamo anche come ricco di implicazioni il fatto che quel primo stato d’angoscia ebbe origine dalla separazione dalla madre [vedi lez. 25, in OSF, vol. 8]. Naturalmente siamo persuasi che la disposizione a ripetere il primo stato d’angoscia si sia incorporata così profondamente, attraverso una serie incalcolabile di generazioni, nell’organismo, che un singolo individuo non può sfuggire all’affetto d’angoscia anche se, come il leggendario Macduff, “fu tratto innanzi tempo, con un taglio, dal grembo di sua madre”673 e quindi non sperimentò egli stesso l’atto della nascita. Quale sia stato per gli animali non mammiferi il prototipo dello stato d’angoscia, non possiamo dirlo. D’altro canto, non sappiamo nemmeno quale sia il complesso di sensazioni che in queste creature equivale alla nostra angoscia.

Vi interesserà forse sapere come si possa giungere a un’idea come quella che l’atto della nascita sia la fonte e il prototipo dell’affetto dell’angoscia. Qui la speculazione quasi non c’entra; mi sono avvalso piuttosto dell’ingenuo pensiero del popolo. Molti anni fa, mentre noi giovani medici ospedalieri eravamo a pranzo in una trattoria, un assistente della clinica ostetrica ci raccontò un divertente episodio occorso nell’ultimo esame per levatrici. A una candidata venne chiesto che cosa significa, al momento della nascita, la presenza di meconio (escrementi del feto) nell’acqua che esce, ed essa rispose prontamente: “Che il bambino ha paura.” Venne derisa e bocciata. Io però presi in silenzio le sue parti e cominciai a sospettare che quella povera donna del popolo avesse candidamente messo il dito su un’importante correlazione.674

Se passiamo ora all’angoscia nevrotica, quali nuove forme e situazioni l’angoscia manifesta nei nervosi? Qui occorre una lunga descrizione. Troviamo in primo luogo un generale stato di ansietà, un’angoscia per così dire liberamente fluttuante, che è pronta ad agganciarsi a ogni contenuto rappresentativo in qualche modo adatto, che influisce sul giudizio, seleziona le aspettative, spia ogni opportunità per trovare una giustificazione. Noi chiamiamo questo stato “angoscia d’attesa” o “attesa angosciosa”. Le persone che sono tormentate da questo genere di angoscia prevedono fra tutte le possibilità sempre la più terribile, interpretano ogni avvenimento casuale come un segno premonitore di sventura, sfruttano ogni incertezza nel senso peggiore. L’inclinazione a tale attesa di sventura si riscontra come tratto di carattere in molti uomini che quanto al resto non possono essere definiti malati, ma sono chiamati iperansiosi o pessimisti; per altro verso, l’angoscia d’attesa entra regolarmente in misura considerevole in un’affezione nervosa che ho denominato “nevrosi d’angoscia” e che annovero tra le nevrosi attuali.675

Una seconda forma di angoscia, al contrario di quella or ora descritta, è psichicamente legata676 e connessa a certi oggetti o situazioni. È l’angoscia delle “fobie”, estremamente varie e spesso singolarissime. Stanley Hall, lo stimato psicologo americano, si è dato recentemente la pena di presentarci l’intera gamma di queste fobie con sfarzosa nomenclatura greca: sembrerebbe l’enumerazione delle dieci piaghe d’Egitto, se non fosse che il loro numero è di gran lunga superiore a dieci.677 Sentite quante cose possono diventare oggetto o contenuto di una fobia: oscurità, aria libera, spiazzi aperti, gatti, ragni, bruchi, serpenti, topi, temporali, punte acuminate, sangue, ambienti chiusi, ressa umana, solitudine, traversata di ponti, viaggi per mare e ferrovia ecc. A un primo tentativo di orientarsi in questo brulichio viene spontaneo distinguere tre gruppi. Alcuni degli oggetti e delle situazioni temute hanno anche per noi persone normali qualcosa di inquietante, hanno un nesso con un pericolo; e queste fobie, per conseguenza, non ci sembrano incomprensibili, benché siano esagerate quanto a intensità. Così la maggior parte di noi prova una sensazione di ripugnanza imbattendosi in un serpente. Si può dire che quella dei serpenti è una fobia universalmente umana, e Charles Darwin ha descritto in modo molto suggestivo come non poté sottrarsi alla paura davanti a un serpente che gli si stava avventando contro, benché si sapesse protetto da una spessa lastra di vetro.678 In un secondo gruppo collochiamo i casi in cui sussiste ancora la relazione con un pericolo, quantunque siamo abituati a non tenerlo in gran conto e a non metterlo in rilievo. Rientra in questa categoria la maggior parte delle fobie di situazione. Sappiamo che in un viaggio per ferrovia vi è una probabilità in più di avere un incidente che non restando a casa, e cioè quella dello scontro ferroviario; sappiamo anche che una nave può andare a fondo, nel qual caso di regola si affoga; ma non pensiamo a questi pericoli e viaggiamo senza timore per ferrovia e per nave. Non possiamo nemmeno negare che, se il ponte crollasse nel momento in cui lo attraversiamo, precipiteremmo nel fiume, ma si tratta di un’eventualità talmente rara che non la prendiamo affatto in considerazione come un pericolo. Anche la solitudine ha i suoi pericoli, e noi li evitiamo in determinate circostanze; ma ciò non vuol dire che non possiamo mai sopportarla a nessuna condizione, neanche per un momento. Lo stesso vale per la ressa umana, per l’ambiente chiuso, per il temporale, e via dicendo. Ciò che ci sconcerta in queste fobie dei nevrotici non è tanto, in genere, il loro contenuto quanto la loro intensità. L’angoscia delle fobie è senza appello! E talvolta abbiamo l’impressione che i nevrotici non si angoscino affatto per le stesse cose e situazioni che in certe circostanze possono provocare angoscia anche in noi e che pure essi definiscono con gli stessi nomi.

Ci rimane un terzo gruppo di fobie, che la nostra intelligenza non riesce più a seguire affatto. Quando un uomo adulto, forte, è incapace per via dell’angoscia di attraversare una strada o una piazza della città natale, a lui ben nota; quando una donna sana, ben sviluppata, cade in preda a un’irragionevole angoscia perché un gatto le ha sfiorato l’orlo del vestito o un topolino è sgusciato attraverso la stanza, come possiamo stabilire un collegamento col pericolo che tuttavia, evidentemente, esiste per questi soggetti fobici? Nel caso delle zoofobie che appartengono a questo gruppo non può trattarsi di un’accentuazione di universali antipatie umane, poiché, come a dimostrare il contrario, numerose sono le persone che non possono passare accanto a un gatto senza chiamarlo a sé o accarezzarlo. Il “topolino”, tanto temuto dalle donne, è contemporaneamente un vezzeggiativo affettuoso di prim’ordine; eppure più di una ragazza, che è molto contenta di sentirsi chiamare così dal suo innamorato, si mette a strillare atterrita quando scorge la graziosa bestiola che ha questo nome. Nel caso dell’uomo che ha terrore delle strade o delle piazze, l’unica spiegazione che ci si impone è che egli si comporta come un bambino piccolo: l’educazione prescrive ai bambini di evitare situazioni del genere in quanto pericolose; e in effetti il nostro agorafobo è protetto dall’angoscia se qualcuno lo accompagna mentre attraversa la piazza.

Le due forme di angoscia qui descritte, l’angoscia d’attesa liberamente fluttuante e quella legata a fobie, sono indipendenti l’una dall’altra. L’una non è, ad esempio, un grado superiore dell’altra; e compaiono insieme solo eccezionalmente, e in tal caso come per accidente. Uno stato di generale ansietà, per intenso che sia, non necessariamente si esprime in fobie. Individui, la cui intera vita è limitata a causa di un’agorafobia, possono essere completamente esenti dalla pessimistica angoscia d’attesa. È dimostrabile che alcune fobie, per esempio la fobia delle piazze e della ferrovia, vengono acquisite solo in età abbastanza matura; altre, come la paura dell’oscurità, del temporale, degli animali, sembrano essere esistite sin dall’inizio. Quelle del primo tipo hanno il significato di gravi malattie; le seconde appaiono piuttosto come stranezze, capricci. In chi esibisce una di queste ultime di regola si può supporre anche l’esistenza di altre fobie simili. Devo aggiungere che raggruppiamo complessivamente queste fobie nell’isteria d’angoscia; le consideriamo cioè un’affezione strettamente imparentata alla nota isteria di conversione679 [vedi lez. 24, in OSF, vol. 8].

La terza delle forme di angoscia nevrotica ci pone dinanzi al fatto misterioso che perdiamo totalmente di vista la connessione tra angoscia e pericolo incombente. Questa angoscia, per esempio, compare nell’isteria in concomitanza coi sintomi isterici o in qualsivoglia stato di eccitazione in cui ci aspetteremmo sì una manifestazione affettiva, ma men che mai quella d’angoscia; oppure, in forma svincolata da ogni condizione e ugualmente incomprensibile a noi e all’ammalato, come libero attacco d’angoscia. In questi casi è assolutamente da escludersi la presenza di un pericolo o di un frangente occasionale che, esagerato, possa essere fatto assurgere a tale. Da questi attacchi spontanei apprendiamo inoltre che il complesso da noi designato come stato d’angoscia è passibile di una frammentazione. L’intero attacco può essere rappresentato da un unico sintomo, intensamente sviluppato, da un tremito, una vertigine, una palpitazione cardiaca, un affanno; e la sensazione generale dalla quale riconosciamo l’angoscia può mancare o essere diventata indistinta. Eppure questi stati, che noi descriviamo come “equivalenti d’angoscia”, vanno equiparati all’angoscia sotto tutti i riguardi clinici ed etiologici.

Sorgono ora due quesiti. È possibile mettere l’angoscia nevrotica, nella quale il pericolo non ha parte alcuna, o quasi, in connessione con l’angoscia reale, la quale è invariabilmente una reazione al pericolo? E come va intesa l’angoscia nevrotica? Ci verrà naturale attenerci inizialmente all’aspettativa che, dove c’è angoscia, debba anche esser presente qualcosa per cui ci si angoscia.

Per la comprensione dell’angoscia nevrotica, si possono ricavare dall’osservazione clinica parecchie indicazioni di cui intendo illustrarvi il senso:

a) Non è difficile costatare che l’angoscia d’attesa o lo stato di ansietà generale si pone in stretta dipendenza da determinati processi della vita sessuale o, per meglio dire, da determinati impieghi della libido. Il caso più semplice e istruttivo di questo genere si ha in persone che si espongono al cosiddetto eccitamento “frustraneo”, nelle quali, cioè, violenti eccitamenti sessuali non trovano una scarica sufficiente, non vengono condotti a un esito soddisfacente. Quindi, per esempio, in uomini durante il periodo del fidanzamento e in donne i cui mariti sono insufficientemente potenti o che, per precauzione, eseguono l’atto sessuale in modo abbreviato o incompiuto. In queste circostanze l’eccitamento libidico si dilegua e al suo posto compare l’angoscia, tanto in forma di angoscia d’attesa quanto in forma di attacchi ed equivalenti d’angoscia. L’interruzione precauzionale dell’atto sessuale, se esercitata come regime sessuale, diviene normalmente causa di nevrosi d’angoscia negli uomini, ma in particolare nelle donne, al punto che nella prassi medica, in casi di questo genere, è raccomandabile cominciare la ricerca in direzione di questa etiologia. Si potranno ottenere con ciò numerosissime verifiche del fatto che la nevrosi d’angoscia vien meno non appena ci si astiene da tale abuso sessuale.

L’esistenza di un nesso tra restrizioni sessuali e stati d’angoscia non viene più contestata, che io sappia, nemmeno dai medici più lontani dalla psicoanalisi. Tuttavia, posso facilmente immaginare che permanga il tentativo di invertire il rapporto, sostenendo che le persone di cui si tratta sono sin dall’inizio inclini all’ansietà e perciò si sottopongono a restrizioni anche nelle faccende sessuali. Questo è però decisamente contraddetto dal comportamento delle donne, la cui attività sessuale è essenzialmente passiva, ossia viene determinata dal modo in cui sono trattate dagli uomini. Quanto più una donna è passionale, quindi quanto più è propensa ai rapporti sessuali e suscettibile di essere soddisfatta, tanto più sicuramente reagirà all’impotenza dell’uomo o al coitus interruptus con manifestazioni di angoscia, mentre su donne anestetiche o scarsamente dotate di libido tale sopruso ha un peso di gran lunga minore.

La stessa importanza per l’insorgere di stati d’angoscia spetta all’astinenza sessuale (ora tanto caldamente raccomandata dai medici) naturalmente solo quando la libido cui non viene concessa una scarica soddisfacente è relativamente intensa e non è stata per la maggior parte liquidata grazie alla sublimazione. Certo sono sempre i fattori quantitativi a decidere se l’esito sarà patologico o meno. Anche quando non è questione di malattia, bensì di conformazione del carattere, si riconosce facilmente che la limitazione sessuale va a braccetto con una certa ansietà e titubanza, mentre l’intrepidezza e l’audacia impudente implicano che si dia libero sfogo alle proprie esigenze sessuali. Per quanto queste relazioni possano essere modificate e complicate da molti e svariati influssi culturali, resta tuttavia il fatto che per la media degli uomini l’angoscia è intimamente connessa con la limitazione sessuale.

Sono ben lungi dall’avervi comunicato tutte le osservazioni che depongono a favore dell’asserita relazione genetica tra libido e angoscia. Fra esse, ad esempio, vi è l’influsso sulle affezioni d’angoscia di certe fasi della vita, alle quali, come alla pubertà e al periodo della menopausa, si può attribuire un rilevante incremento della produzione di libido. In taluni stati di eccitazione si può anche osservare direttamente la commistione di libido e di angoscia e la sostituzione finale della libido da parte dell’angoscia. L’impressione che si riceve da tutti questi fatti è duplice: in primo luogo, che si tratta di un accumulo di libido, la quale viene trattenuta dal suo normale impiego; in secondo luogo, che ci troviamo qui totalmente nel campo dei processi somatici. Non è possibile discernere a tutta prima come dalla libido sorga l’angoscia; sappiamo solo che la libido è assente e che al suo posto si osserva l’angoscia.680

b) Dall’analisi delle psiconevrosi, specialmente dell’isteria, attingiamo un secondo indizio. Abbiamo visto che in questa affezione compare spesso angoscia in concomitanza coi sintomi, ma anche angoscia slegata, che si manifesta in forma di attacco o come stato permanente. I pazienti non sanno dire da che cosa sono angosciati e, attraverso una inconfondibile elaborazione secondaria [vedi lez. 11, in OSF, vol. 8], collegano quest’angoscia alle fobie più ovvie e più prossime, come quella di morire, di impazzire, di avere un colpo. Se sottoponiamo ad analisi la situazione dalla quale è scaturita l’angoscia o i sintomi accompagnati da angoscia, possiamo quasi sempre indicare quale sia il decorso psichico normale che non ha avuto luogo ed è stato sostituito dal fenomeno dell’angoscia. Esprimendoci in altri termini: ricostruiamo il processo inconscio così come se non avesse subito alcuna rimozione e avesse proseguito indisturbato fino alla coscienza [vedi lez. 19, in OSF, vol. 8]. Questo processo sarebbe stato, in tal caso, accompagnato da un determinato affetto, e ora noi apprendiamo con nostra sorpresa che, in seguito alla rimozione, questo affetto congiunto al normale decorso viene sempre sostituito dall’angoscia, indipendentemente dalla qualità che gli era propria. Quando dunque abbiamo davanti a noi uno stato isterico d’angoscia, il suo correlato inconscio può essere tanto un impulso avente carattere simile – quindi di angoscia, di vergogna, di smarrimento – quanto un’eccitazione libidica positiva o un’eccitazione ostilmente aggressiva, come furore e rabbia. L’angoscia è dunque la moneta valida universalmente con la quale vengono o possono venire scambiati tutti i moti affettivi, quando il contenuto rappresentativo ad essi legato è stato assoggettato alla rimozione.681

c) Una terza esperienza la facciamo coi malati che compiono azioni ossessive, ai quali stranamente l’angoscia sembra essere risparmiata. Se tentiamo di impedire l’esecuzione della loro azione ossessiva – dei loro lavaggi, del loro cerimoniale – o se essi stessi s’arrischiano ad abbandonare una delle loro costrizioni, una terribile angoscia li obbliga a rinunciare al tentativo. Comprendiamo che l’angoscia era coperta dall’azione ossessiva e che questa veniva eseguita solo per risparmiarsi l’angoscia. Dunque, nella nevrosi ossessiva l’angoscia, destinata altrimenti a insediarsi, viene sostituita dalla formazione dei sintomi; e se ci volgiamo all’isteria troviamo una relazione simile: come risultato del processo di rimozione si ha o puro sviluppo d’angoscia, o angoscia con formazione di sintomi, oppure più compiuta formazione di sintomi senza angoscia. In senso astratto, non parrebbe inesatto affermare che i sintomi in genere vengono formati solo per sottrarsi allo sviluppo d’angoscia, altrimenti inevitabile. Questa concezione pone, per così dire, l’angoscia al centro del nostro interesse per i problemi delle nevrosi.

Dalle nostre osservazioni sulla nevrosi d’angoscia avevamo concluso che la deviazione della libido dal suo impiego normale, la quale fa sorgere l’angoscia, avviene sul terreno dei processi somatici [vedi lez. 25, in OSF, vol. 8]. Dalle analisi dell’isteria e della nevrosi ossessiva deriva l’aggiunta che la medesima deviazione, con lo stesso risultato, può essere anche l’effetto di un rifiuto a opera delle istanze psichiche. Questo è dunque quanto sappiamo sulla genesi dell’angoscia nevrotica; è ancora abbastanza indefinito, ma per il momento non vedo come potremmo andar oltre. Il secondo problema che ci siamo posti, quello di stabilire un collegamento tra l’angoscia nevrotica, che è libido impiegata in modo abnorme, e l’angoscia reale, che corrisponde a una reazione al pericolo, sembra ancora più difficile da risolvere. Vorremmo credere che si tratti di cose del tutto disparate, e tuttavia non abbiamo alcun mezzo per distinguere, nella sensazione, l’angoscia reale dall’angoscia nevrotica.

Riusciamo a stabilire il collegamento cercato se assumiamo come punto di partenza l’antitesi, di cui così frequentemente abbiamo affermato l’esistenza, tra l’Io e la libido. Come sappiamo, lo sviluppo d’angoscia è la reazione dell’Io al pericolo e il segnale di inizio della fuga [ibid.]; ci viene allora spontaneo pensare che nell’angoscia nevrotica l’Io intraprenda un analogo tentativo di fuga davanti alle pretese della sua libido, cioè che tratti questo pericolo interno come se fosse esterno. Ciò risponderebbe all’aspettativa [ibid.] che, dove si manifesta l’angoscia, è presente anche qualcosa da cui ci si sente angosciati. Ma l’analogia potrebbe essere condotta oltre. Come il tentativo di fuga davanti al pericolo esterno viene sostituito dall’affrontarlo e da opportuni provvedimenti difensivi, così anche lo sviluppo d’angoscia nevrotica cede il posto alla formazione di sintomi, col risultato che l’angoscia viene legata.

La difficoltà si sposta ora in un’altra direzione. L’angoscia, che significa la fuga dell’Io di fronte alla sua libido, deve pur essere scaturita da questa stessa libido. È un fatto oscuro, che ci ammonisce a non dimenticare che la libido di una persona, in fondo, appartiene a questa e non può ad essa contrapporsi come qualcosa di esterno. È la dinamica topica dello sviluppo d’angoscia che ci è ancora oscura: che specie di energie psichiche vengano prodotte in quel processo e da quale sistema psichico esse provengano. Non posso assumermi l’impegno di rispondere anche a questa domanda; tuttavia non tralasceremo di seguire altre due tracce, servendoci ancora una volta, per venire in aiuto alla nostra speculazione, dell’osservazione diretta e dell’indagine analitica. Rivolgeremo la nostra attenzione alla genesi dell’angoscia nel bambino e all’origine di quell’angoscia nevrotica che è legata alle fobie.

L’ansietà dei bambini è qualcosa di molto comune, e sembra davvero difficile distinguere se si tratti di angoscia nevrotica o reale, tanto più che il valore stesso di questa distinzione viene messo in dubbio dal comportamento dei bambini. Infatti, da una parte noi non ci meravigliamo se il bambino ha paura di tutte le persone estranee, le nuove situazioni e i nuovi oggetti, e ci spieghiamo molto facilmente la sua reazione ascrivendola a debolezza e insipienza. Attribuiamo quindi al bambino una forte inclinazione all’angoscia reale e ci parrebbe perfettamente logico che in lui questa pavidità fosse un innato retaggio. In ciò il bambino non farebbe che ripetere il comportamento dell’uomo preistorico e dell’odierno primitivo che, vittima della propria ignoranza e impotenza, ha paura di ogni novità e di tante cose familiari, che a noi oggi non incutono più paura. Corrisponderebbe anche perfettamente alla nostra attesa se le fobie del bambino, almeno in parte, fossero ancora le stesse che possiamo attribuire ai tempi più remoti dell’evoluzione umana.

D’altro canto non possiamo trascurare il fatto che non tutti i bambini sono paurosi in ugual misura e che proprio i bambini che manifestano un particolare timore per ogni sorta di oggetti e situazioni si rivelano più tardi dei nevrotici. La disposizione alla nevrosi si tradisce, dunque, anche attraverso una pronunciata inclinazione all’angoscia reale; l’ansietà appare come il fatto primario, e giungiamo alla conclusione che il bambino, e più tardi l’adolescente, hanno paura dell’intensità della loro libido appunto perché hanno paura di tutto. Sarebbe così confutata la genesi dell’angoscia dalla libido, e se si andasse a cercare quali sono le condizioni dell’angoscia reale, si giungerebbe in modo conseguente alla concezione che la consapevolezza della propria debolezza e impotenza – inferiorità, nella terminologia di Alfred Adler – è anche la ragione ultima della nevrosi, sempre che tale consapevolezza possa protrarsi dall’infanzia fino all’età matura.

Ciò sembra talmente semplice e seducente che ha diritto alla nostra attenzione. Per la verità implicherebbe che l’enigma del nervosismo si spostasse. Il permanere del senso d’inferiorità – e quindi della condizione che determina l’angoscia e la formazione dei sintomi – ci sembra così bene accertato, che sarebbe piuttosto necessaria una spiegazione nel caso in cui, eccezionalmente, dovesse verificarsi ciò che ci è noto come salute. Ma che cosa emerge da un’accurata osservazione dell’ansietà dei bambini? Il bambino piccolo ha paura anzitutto delle persone estranee; le situazioni diventano importanti solo nella misura in cui contengono persone; gli oggetti entrano in considerazione comunque solo più tardi. Di questi estranei il bambino, però, non ha paura perché attribuisce loro cattive intenzioni e perché rapporta la propria debolezza alla loro forza, decidendo insomma che costituiscono un pericolo per la sua esistenza, sicurezza e libertà dal dolore. Un bambino così diffidente, spaventato dalla pulsione aggressiva che domina il mondo, è una costruzione teorica, per di più mal riuscita. La verità è che il bambino si spaventa davanti alla figura dell’estraneo perché è abituato soltanto alla vista della persona familiare e amata, alla vista, in ultima istanza, della madre. La sua delusione e nostalgia si trasformano in angoscia; si tratta della sua libido che è divenuta inutilizzabile e che, non potendo più esser tenuta in sospeso, si scarica infine sotto forma di angoscia. Né può essere un caso che in questa situazione, esemplare dell’angoscia infantile, si riproduca la condizione del primo stato d’angoscia, durante l’atto della nascita, ossia la separazione dalla madre.682

Le prime fobie dei bambini connesse con determinate situazioni sono quelle dell’oscurità e della solitudine. La prima sussiste spesso per tutta la vita; a entrambe è comune il fatto che viene sentita la mancanza della persona amata che si cura del bambino, quindi della madre. Udii un bambino, che aveva paura al buio, gridare dalla stanza vicina: “Zia, parlami, ho paura.” “Ma a che ti serve? Non mi vedi mica”; e il bambino: “Se qualcuno parla, diventa più chiaro.”683 La nostalgia provata nell’oscurità viene quindi trasformata in paura dell’oscurità. L’angoscia nevrotica è ben lungi dall’essere meramente secondaria, né è un caso particolare dell’angoscia reale; al contrario, noi vediamo che nel bambino piccolo si atteggia ad angoscia reale qualcosa che ha in comune con l’angoscia nevrotica il tratto essenziale di sorgere da libido inutilizzata. Di angoscia reale vera e propria il bambino sembra portarne in sé ben poca. In tutte le situazioni che più tardi possono diventare condizioni di fobie (luoghi alti, ponticelli sull’acqua, ferrovia e nave) il bambino non mostra alcun timore; anzi quanto più ignora la situazione tanto meno la teme. Sarebbe oltremodo desiderabile che avesse ricevuto in eredità un maggior numero di tali istinti684 miranti a proteggere la vita; il compito della sorveglianza, che deve impedirgli di esporsi a un pericolo dopo l’altro, ne sarebbe molto alleggerito. In realtà, il bambino inizialmente sopravvaluta le sue forze e si comporta senza paura perché non conosce i pericoli. Corre sull’orlo dell’acqua, sale sul davanzale della finestra, gioca con oggetti acuminati e con il fuoco, insomma fa tutto ciò che è destinato ad arrecargli danno e a procurare preoccupazioni a chi lo accudisce. Se alla fine l’angoscia reale si risveglia in lui, ciò è interamente opera dell’educazione, poiché non gli si può permettere di fare da sé quelle esperienze che potrebbero istruirlo.

Orbene, se vi sono bambini che in certa misura facilitano questa educazione all’angoscia, e che trovano perfino da soli i pericoli dai quali non sono stati messi in guardia, ciò significa che essi hanno insita nella loro costituzione una maggior quantità di bisogni libidici, o che sono stati viziati precocemente dal soddisfacimento libidico. Nessuna meraviglia se fra questi bambini si trovano anche i futuri nervosi; sappiamo bene che la maggiore facilitazione all’insorgere di una nevrosi è costituita dall’incapacità di sopportare un ingorgo considerevole di libido per un periodo di tempo piuttosto lungo. Noterete che qui si fa valere anche il fattore costituzionale, il quale ha diritti che non abbiamo mai inteso contestare. Ci guardiamo solo da chi, in favore di tali pretese, trascura tutte le altre e introduce il fattore costituzionale anche là dove, secondo i risultati congiunti dell’osservazione e dell’analisi, esso non c’entra affatto o va collocato all’ultimo posto.

Permetteteci di tirare le somme dalle osservazioni sull’ansietà dei bambini. L’angoscia infantile ha ben poco a che fare con l’angoscia reale, ed è al contrario strettamente imparentata all’angoscia nevrotica degli adulti. Come questa, essa sorge da libido inutilizzata e rimpiazza l’oggetto amoroso venuto a mancare con un oggetto esterno o con una situazione.

Apprenderete con soddisfazione che l’analisi delle fobie non ci riserva più molte novità. In esse si verifica infatti lo stesso processo che nell’angoscia infantile: la libido inutilizzabile viene trasformata ininterrottamente in un’angoscia apparentemente reale, introducendo così, al posto delle esigenze della libido, un trascurabile pericolo esterno. Non vi è nulla di strano che fobie e angoscia infantile concordino, poiché le fobie dei bambini non sono soltanto il modello di quelle successive – che noi classifichiamo nell’“isteria d’angoscia” – bensì la loro diretta condizione preliminare e il loro preludio. Ogni fobia isterica risale a un’angoscia infantile e ne è la continuazione, anche quando ha un altro contenuto e deve quindi essere diversamente denominata. La differenza fra le due affezioni sta nel meccanismo. Nel caso dell’adulto non è più sufficiente, per la trasformazione della libido in angoscia, che la libido, assunta la forma di nostalgia, sia divenuta momentaneamente inutilizzabile. Egli ha imparato da molto tempo a tenere in sospeso tale libido o a impiegarla altrimenti. Ma se la libido appartiene a un impulso psichico che è incorso nella rimozione, si ristabiliscono condizioni simili a quelle in cui si trova il bambino, ove non c’è ancora separazione tra coscienza e inconscio, e tale regressione alla fobia infantile permette, diremo così, che si apra il passaggio attraverso il quale la trasformazione della libido in angoscia si effettua senza difficoltà.

Come ricorderete, abbiamo trattato a lungo della rimozione,685 ma seguendo esclusivamente le vicissitudini della rappresentazione da rimuovere, ovviamente perché erano più facili da riconoscere e da illustrare. Abbiamo sempre lasciato da parte la questione di che cosa accada all’affetto che era stato congiunto alla rappresentazione rimossa; ebbene, soltanto ora apprendiamo che la sua sorte immediata è di essere trasformato in angoscia [vedi lez. 25, in OSF, vol. 8], indipendentemente dalla qualità che può averlo caratterizzato nel suo decorso normale. Questa trasformazione dell’affetto è tuttavia la parte di gran lunga più importante del processo di rimozione. Non è tanto facile parlarne, perché non possiamo asserire che esistano affetti inconsci nello stesso senso in cui esistono rappresentazioni inconsce.686 Una rappresentazione resta la stessa, tranne che per un’unica differenza, quella che c’è tra essere cosciente ed essere inconscia; siamo in grado di indicare che cosa corrisponde a una rappresentazione inconscia. Un affetto, invece, è un processo di scarica che va valutato in tutt’altro modo da una rappresentazione; non si può dire, senza una più approfondita riflessione e senza aver chiarito le nostre premesse relative ai processi psichici, che cosa gli corrisponda nell’inconscio. E non possiamo procedere qui a tale riflessione e chiarimento. Teniamo però bene a mente l’impressione che abbiamo ora ricavato, e cioè che lo sviluppo d’angoscia è intimamente legato col sistema dell’inconscio.

Dicevo che la trasformazione in angoscia – o, meglio, la scarica sotto forma di angoscia – è la sorte immediata che spetta alla libido colpita da rimozione. Devo aggiungere: non l’unica né quella definitiva. Nelle nevrosi sono in atto processi che si sforzano di vincolare questo sviluppo d’angoscia e che qualche volta ci riescono in diversi modi. Nelle fobie, per esempio, si possono distinguere chiaramente due fasi del processo nevrotico. La prima provvede alla rimozione e alla conversione della libido in angoscia, la quale viene legata a un pericolo esterno. La seconda consiste nella strutturazione delle misure cautelative e di sicurezza mediante le quali dev’essere evitato ogni contatto con questo pericolo, trattato come un fatto esterno. La rimozione corrisponde a un tentativo di fuga dell’Io di fronte alla libido percepita come pericolo. La fobia può paragonarsi a un trinceramento contro il pericolo esterno, che ora fa le veci della temuta libido. La debolezza del sistema difensivo delle fobie sta, naturalmente, nel fatto che la fortezza, che si è così ben premunita verso l’esterno, è rimasta attaccabile dall’interno. La proiezione verso l’esterno del pericolo libidico non può mai riuscir bene.687 Nelle altre nevrosi sono perciò in uso altri sistemi di difesa contro l’eventualità che si generi angoscia. È questo un capitolo molto interessante della psicologia delle nevrosi; ma sfortunatamente ci conduce troppo lontano e presuppone conoscenze specifiche più approfondite. Aggiungerò ancora una sola cosa. Vi ho già parlato [vedi lez. 23, in OSF, vol. 8] del “controinvestimento” che, in caso di rimozione, l’Io impiega e deve continuamente sostenere affinché la rimozione perduri. A questo “controinvestimento” spetta il compito di attuare le diverse forme di difesa contro l’eventualità che si sviluppi angoscia in seguito alla rimozione.

Ritorniamo alle fobie. Non sbaglierò dicendo che a questo punto vi renderete conto dell’insufficienza di una spiegazione che si occupi soltanto del loro contenuto, che non si interessi ad altro se non a come avvenga che questa o quella cosa o una qualsivoglia situazione possa diventare oggetto di una fobia. Il contenuto di una fobia ha per quest’ultima pressappoco la medesima importanza della facciata onirica manifesta per il sogno. Si deve ammettere, con le necessarie restrizioni, che tra questi contenuti delle fobie se ne trovano alcuni i quali, come rileva Stanley Hall,688 sono idonei a diventare oggetti d’angoscia per eredità filogenetica. Con ciò concorda d’altronde il fatto che molti di questi oggetti d’angoscia possono stabilire il loro collegamento con il pericolo solo attraverso una relazione simbolica.

Siamo così giunti alla convinzione che il problema dell’angoscia assume fra le questioni della psicologia delle nevrosi una posizione che dobbiamo propriamente definire centrale. Siamo stati fortemente impressionati dal modo in cui lo sviluppo d’angoscia è legato alle sorti della libido e al sistema dell’inconscio. Un solo punto è rimasto a sé stante, quasi una lacuna nella nostra concezione: il fatto, unico ma difficilmente contestabile, che l’angoscia reale deve essere considerata come una manifestazione delle pulsioni di autoconservazione dell’Io.689

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