Avvertenza editoriale

I cinque saggi qui di seguito presentati sono quanto ci è rimasto di un piano originariamente più vasto di dodici saggi destinati a fornire l’impalcatura concettuale della teoria psicoanalitica. Riuniti in un volume che avrebbe dovuto recare il titolo Preparazione a una metapsicologia (vedi nota 142, in OSF, vol. 8), i dodici studi metapsicologici avrebbero dovuto proseguire e ristrutturare sistematicamente il discorso teoretico che, sulla base delle concezioni del Progetto di una psicologia (1895), Freud aveva affrontato pubblicamente per la prima volta nel capitolo 7 dell’Interpretazione dei sogni (1899) e continuato in alcuni scritti teorici successivi: soprattutto nelle Precisazioni sui due princìpi dell’accadere psichico (1911), nella Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912) (compresa nel volume 5 delle Gesammelte Schriften (1924) sotto il titolo generale Metapsychologie insieme ai saggi qui presentati) e nell’Introduzione al narcisismo (1914).

Rifacendosi ai propri personali ricordi e in base alla ricognizione della corrispondenza di Freud, Ernest Jones (Vita e opere di Freud, Il Saggiatore, Milano 1962, vol. 2, pp. 231 sg.) ci informa che l’intera serie fu effettivamente scritta in un impeto prodigioso di creatività fra il 15 marzo e l’inizio di agosto del 1915. E, sia in base alle informazioni di Jones, sia rifacendosi alle allusioni più o meno esplicite dello stesso Freud negli scritti pubblicati, è possibile indicare con certezza i temi su cui vertevano cinque dei sette saggi che purtroppo – o perché andati perduti o perché Freud li sottrasse volontariamente alla pubblicazione – non hanno mai visto la luce: la coscienza, l’angoscia, l’isteria di conversione, la nevrosi ossessiva e le nevrosi di traslazione; mentre è da presumere – sia pure in base a indizi meno sicuri – che gli altri due riguardassero la proiezione e la sublimazione. Sulla “tragedia” che tale perdita rappresenta vedi l’Introduzione a questo volume e quella del volume 6 di questa edizione.

La stesura di Pulsioni e loro destini, iniziata il 15 marzo 1915, risulta già completata, insieme a quella della Rimozione, il 4 aprile successivo. Lo scritto fu pubblicato per la prima volta nella “Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse”, vol. 3 (2), 84-100 (1915) col titolo Triebe und Triebschicksale e riprodotto poi in Sammlung kleiner Schriften zur Neurosenlehre, vol. 4 (Vienna 1918), pp. 252-78 (2a ed. 1922), in Gesammelte Schriften, vol. 5 (1924), pp. 443-65, in Zur Technik der Psychoanalyse und zur Metapsychologie (Vienna 1924), pp. 165-87, in Theorethische Schriften (1911-1925) (Vienna 1931), pp. 58-82 e in Gesammelte Werke, vol. 10 (1946), pp. 210-32. La presente traduzione italiana è di Renata Colorni.

Il concetto di pulsione (Trieb) è definito da Freud in questo saggio come concetto limite tra lo psichico e il somatico e la pulsione stessa è considerata il rappresentante psichico di forze organiche; in seguito Freud sembra tracciare invece una distinzione tra la pulsione e il suo rappresentante psichico, ad esempio nello scritto L’inconscio e nella Rimozione, dove la pulsione non è più vista come rappresentante psichico di impulsi somatici, ma piuttosto come qualcosa di non psichico essa stessa. Tuttavia la contraddizione tra queste due vedute è forse più apparente che reale e la sua soluzione sta nell’ambiguità del concetto in sé: al limite, appunto, tra psichico e somatico.

In vari passaggi della sua opera Freud espresse la sua insoddisfazione per lo stato della conoscenza psicologica circa le pulsioni. Il presente scritto è un tentativo relativamente iniziale di trattare estesamente questo argomento, e costituisce il resoconto più chiaro di ciò che Freud intese per pulsioni e del modo in cui pensava che operassero e si trasformassero nel corso della vita umana. La riflessione successiva lo indusse certo a modificare le sue vedute sia riguardo alla classificazione delle pulsioni sia riguardo alle loro determinanti più profonde; ma questo scritto resta la base indispensabile per comprendere gli sviluppi che seguiranno.

Può sembrare sorprendente che le pulsioni compaiano in modo esplicito in un punto abbastanza tardo nella successione degli scritti di Freud. Il termine non si trova quasi mai nelle opere del periodo della collaborazione con Breuer o nella corrispondenza con Fliess e neanche nell’Interpretazione dei sogni (1899). Fino ai Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), la “pulsione sessuale” non è menzionata apertamente come tale; i “moti pulsionali”, che sarebbero divenuti uno dei termini più comuni di Freud, non appaiono fino al saggio sulle Azioni ossessive e pratiche religiose del 1907. Ma, al di là della questione verbale, le pulsioni erano evidentemente presenti sotto altre denominazioni quali “eccitamenti”, “idee affettive”, “impulsi di desiderio”, “stimoli endogeni” ecc. Ad esempio, la distinzione qui tracciata fra lo “stimolo” che agisce in un colpo solo e la “pulsione” che opera invece come forza costante era già stata formulata da Freud vent’anni prima nel paragrafo 3 dell’articolo sulle nevrosi d’angoscia (1894); se non che al posto di “stimolo” e “pulsione” egli aveva parlato di “eccitamento esogeno” ed “eccitamento endogeno”. Similmente, l’idea che l’organismo primitivo non può intraprendere un’azione di fuga dai bisogni pulsionali come può fare dagli stimoli esterni era stata anticipata vent’anni prima, nel Progetto di una psicologia (1895, cap. 1, par. 1), benché ancora una volta il termine là usato fosse “stimoli endogeni”, si dicesse che questi stimoli endogeni “hanno origine nelle cellule del corpo e determinano i bisogni fondamentali: fame, respirazione, sessualità”, ma in nessun punto comparisse il termine “pulsione”.

Il conflitto che sta alla base delle psiconevrosi era stato talvolta descritto, negli anni precedenti, come conflitto tra l’“Io” e la “sessualità”, e benché il termine “libido” fosse usato spesso, il concetto era quello di una manifestazione della “tensione sessuale somatica”, vista a sua volta come un evento chimico. Solo nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) la libido fu esplicitamente definita come un’espressione della pulsione sessuale. L’altra parte del conflitto, l’“Io”, restò indefinita per molto più tempo, e fu trattata principalmente in connessione con le sue funzioni: in particolare la “rimozione”, la “resistenza” e l’“esame di realtà”; poco era detto invece della sua struttura e della sua dinamica. Quasi mai era stato fatto riferimento alle pulsioni di “autoconservazione”, se non indirettamente, in connessione con la teoria che la libido si “appoggia” ad esse nelle prime fasi del suo sviluppo; e non sembrava esserci una ragione ovvia per collegarle con la parte svolta dall’Io come agente rimovente nei conflitti nevrotici. Poi, come all’improvviso, in un breve scritto sui Disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica (1910), Freud introdusse il termine “pulsioni dell’Io” identificandole da un lato con le pulsioni di autoconservazione e dall’altro con la funzione rimovente. Da questo momento in poi il conflitto fu regolarmente descritto come conflitto tra due serie o gruppi di pulsioni: le pulsioni libidiche o sessuali e le pulsioni dell’Io.

L’introduzione del concetto di “narcisismo” sollevò una complicazione. Nell’Introduzione al narcisismo (1914) Freud non contrappose più le pulsioni sessuali alle pulsioni dell’Io, ma la “libido dell’Io” o libido narcisistica alla “libido oggettuale”. In quello scritto, come in questo del resto, si rileva dunque il suo disagio circa la validità della precedente classificazione “dualistica” delle pulsioni. Una svolta nella classificazione delle pulsioni sarà operata da Freud in Al di là del principio di piacere (1920) dove egli dichiarerà esplicitamente che la libido narcisistica è anch’essa una manifestazione della forza della pulsione sessuale e va identificata con le pulsioni di autoconservazione; e qui Freud introdurrà, aderendo ancora una volta a una veduta dualistica, l’ipotesi di un nuovo gruppo di pulsioni, che si contrappongono alle pulsioni di vita o Eros, e le chiamerà pulsioni di morte. Troviamo un sommario dello sviluppo delle vedute freudiane sulla classificazione delle pulsioni in una lunga nota alla fine del paragrafo 6 di Al di là del principio di piacere (1920), e un’ulteriore disamina dell’argomento nel paragrafo 4 di L’Io e l’Es (1922). L’intera situazione sarà riesaminata minutamente nel paragrafo 6 del Disagio della civiltà (1929), dove per la prima volta Freud prenderà in particolare considerazione le pulsioni aggressive e distruttive alle quali aveva prestato in precedenza scarsa attenzione (a meno che non fossero commiste con elementi libidici, come nel sadismo e nel masochismo). Una panoramica ancora successiva dell’argomento si troverà nella seconda metà della lezione 32 dell’Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932) e infine nel capitolo 2 del Compendio di psicoanalisi (1938) pubblicato postumo.

Il titolo Pulsioni e loro destini richiede qualche precisazione. Il termine “pulsione” rende il tedesco Trieb e sottolinea che si è in presenza di un processo dinamico per il quale l’organismo è sottoposto a una spinta che lo fa tendere verso una meta (treiben significa spingere). Rendiamo invece con “istinto” il termine tedesco Instinkt che Freud usa, peraltro assai raramente, per designare un comportamento istintuale fissato ereditariamente in forme pressoché identiche in tutti gli individui della stessa specie. Rendiamo Schicksale con “destini” e non con “vicissitudini” (come molti autori italiani che si rifanno alla scelta dei traduttori inglesi) perché Freud, parlando delle possibili trasformazioni e traversie cui vanno soggette le pulsioni intende perlopiù riferirsi a soluzioni specifiche a cui le pulsioni sono necessariamente costrette.

Il saggio su La rimozione fu composto, contemporaneamente al precedente Pulsioni e loro destini, fra il 15 marzo e il 4 aprile 1915 e pubblicato con il titolo Die Verdrängung nella “Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse”, vol. 3 (3), 129-38 (1915); fu poi riprodotto nella Sammlung kleiner Schriften zur Neurosenlehre, vol. 4 (Vienna 1918), pp. 279-93 (2a ed. 1922), in Gesammelte Schriften, vol. 5 (1924), pp. 466-79, in Zur Technik der Psychoanalyse und zur Metapsychologie (Vienna 1924), pp. 188-201, in Theoretische Schriften (1911-1925) (Vienna 1931), pp. 83-97 e in Gesammelte Werke, vol. 10 (1946), pp. 248-61. La presente traduzione italiana è di Renata Colorni.

Il termine Verdrängung appare fin dalla Comunicazione preliminare (1892), paragrafo 2, col significato di atto mediante il quale una rappresentazione o un contenuto mentale viene mantenuto fuori dalla coscienza. Poiché il termine si ritrova in Herbart, si è supposto che Freud l’abbia desunto da Meynert, che di Herbart era ammiratore (vedi Jones, Vita e opere di Freud cit., vol. 1, pp. 445 sgg.). Ma Freud, mentre nel primo capitolo di Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) afferma che “la teoria della rimozione è il pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi”, dichiara pure di non essere debitore ad alcuno dell’elaborazione di questa teoria.

Negli Studi sull’isteria (1892-95), e negli scritti dello stesso periodo, Freud usa indifferentemente i termini rimozione e difesa (Abwehr). “Neuropsicosi da difesa” egli chiama infatti le nevrosi dovute a un processo di rimozione (vedi lo scritto del 1894 Le neuropsicosi da difesa). Successivamente usò prevalentemente rimozione in luogo di difesa. Nel caso clinico dell’uomo dei topi del 1909 (par. 1, sottopar. f), trattando dei meccanismi che agiscono rispettivamente nell’isteria e nella nevrosi ossessiva, Freud afferma che bisogna ammettere l’esistenza di due specie di rimozione. Nel presente scritto la rimozione – quantunque concepita come processo che vieta l’accesso alla coscienza alle rappresentanze pulsionali in grado di provocare indirettamente uno stato di dispiacere – è ancora intesa nel senso più ampio di processo di difesa, comune a tutte le psiconevrosi. Solo in Inibizione, sintomo e angoscia del 1925 (cap. 11, par. A) Freud restringerà il concetto di rimozione riferendolo al meccanismo specifico che agisce nell’isteria, e ripristinerà il termine “difesa” per designare i diversi processi e le diverse tecniche con cui l’apparato psichico reagisce alle situazioni conflittuali. La rimozione, nell’ultimo Freud, diventa dunque un caso particolare della “difesa”.

Freud non sviluppò però la teoria generale dei meccanismi di difesa, lasciando alla figlia Anna (L’Io e i meccanismi di difesa, 1936) un tale compito. In Analisi terminabile e interminabile del 1937 egli accoglierà tuttavia con soddisfazione le conclusioni dell’opera di Anna, e ribadirà la distinzione fra la generica difesa dell’Io e il caso particolare costituito dalla rimozione.

Va notata, nel presente saggio, la distinzione introdotta da Freud fra una Urverdrängung (rimozione originaria), consistente nella primitiva preclusione alla coscienza della rappresentanza psichica della pulsione, e la eigentliche Verdrängung (la rimozione propriamente detta), che è un Nachdrängen (un post-rimuovere o rimuovere differito) dovuto, nel successivo corso della vita, a un rinnovarsi del processo di rimozione verso i derivati della originaria rappresentanza rimossa. La post-rimozione si produrrebbe in parte per il ripetersi del primo processo, ma in parte anche per una attrazione esercitata dall’elemento già rimosso e divenuto inconscio. Anche questo argomento verrà ripreso in Analisi terminabile e interminabile (1937).

Freud nel presente saggio si chiede pure che cosa accada, in seguito alla rimozione, dell’investimento libidico connesso alla rappresentazione rimossa, e accenna a una sua possibile trasformazione in angoscia. Su questo punto ritornerà nel saggio successivo sull’Inconscio, e poi ancora in Inibizione, sintomo e angoscia (1925).

L’inconscio fu composto fra il 4 e il 23 aprile 1915 e pubblicato col titolo Das Unbewusste nella “Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse”, vol. 3 (4), pp. 189-203 e (5), pp. 257-69 (1915). Fu poi riprodotto in Sammlung kleiner Schriften zur Neurosenlehre, vol. 4 (Vienna 1918), pp. 294-338 (2a ed. 1922), in Gesammelte Schriften, vol. 5 (1924), pp. 480-519, in Zur Technik der Psychoanalyse und zur Metapsychologie (Vienna 1924), pp. 202-41, in Theoretische Schriften (1911-1925) (Vienna 1931), pp. 98-140 e in Gesammelte Werke, vol. 10 (1946), pp. 264-303. La presente traduzione italiana è di Renata Colorni.

Questo, che tra i saggi di metapsicologia è il più lungo rimastoci, sta certamente al culmine della serie e Freud stesso ne era molto soddisfatto. Nelle edizioni precedenti al 1924 il saggio non era diviso in paragrafi: i titoli attuali di paragrafo erano posti a margine. Nell’edizione del 1924 furono apportati al testo anche alcuni altri piccoli cambiamenti.

L’ipotesi dell’esistenza di processi psichici inconsci è naturalmente fondamentale per la teoria psicoanalitica. Freud non si stancò mai di insistere sugli argomenti a sostegno di essa e di combattere le obiezioni avanzate da più parti. Ancora l’ultimo frammento teorico da lui scritto nel 1938, Alcune lezioni elementari di psicoanalisi, è una nuova rivendicazione e affermazione di questa ipotesi. Va tuttavia detto subito che Freud non ebbe mai per questo assunto un interesse filosofico, benché indubbiamente i problemi filosofici siano inevitabilmente dietro l’angolo. Il suo era un interesse pratico. Senza tale assunto sarebbe stato incapace di spiegare o anche solo di descrivere un’ampia varietà di fenomeni che gli si presentavano, sia nella sfera del “normale” sia in quella del “patologico”.

Agli inizi del suo lavoro, e nel suo ambiente più prossimo, non può esserci stata una grossa resistenza all’idea. I suoi maestri più immediati – tra cui Meynert – in quanto interessati alla psicologia, erano guidati principalmente dalle vedute di Herbart, e, secondo quanto dice Jones (Vita e opere di Freud cit., vol. 1, p. 447), Freud ebbe, sui banchi di scuola, un libro di testo contenente i princìpi di Herbart. Nel sistema di Herbart aveva una parte essenziale il riconoscimento dell’esistenza di processi mentali inconsci. Nonostante questo, Freud non adottò immediatamente questa ipotesi nelle prime fasi delle sue ricerche psicopatologiche. È vero che fin dall’inizio egli sembra aver avvertito la forza dell’argomento (sul quale pone l’accento nelle prime pagine del presente saggio) che restringere gli eventi psichici a quelli consci, identificare cioè lo psichico con il cosciente, e inframmezzarli con avvenimenti puramente fisici, neurali, “lacera le continuità psichiche” e introduce lacune inintelligibili nella catena dei fenomeni osservati. Ma la difficoltà poteva essere superata in due modi. Da una parte si possono trascurare gli eventi fisici supponendo che le lacune siano colmate da eventi psichici inconsci; d’altra parte, però, si possono trascurare gli eventi psichici consci e si può tentare la costruzione di una catena puramente fisica, senza alcuna interruzione, che copra tutti i fenomeni osservabili.

Freud, che all’inizio della sua carriera scientifica aveva un interesse predominante per la neurofisiologia, fu dapprima attratto in modo irresistibile da questa seconda possibilità. Questa attrazione fu indubbiamente rafforzata dalle vedute di Hughlings-Jackson per la cui opera egli espresse la propria ammirazione nella monografia sulle afasie (Zur Auffassung der Aphasien, Vienna 1891) di cui nel saggio sull’Inconscio si avverte in più punti una precisa eco. Per conseguenza il metodo neurologico di descrizione dei fenomeni psicopatologici fu quello che Freud incominciò ad adottare, e tutti i suoi scritti del periodo di collaborazione con Breuer sono esplicitamente basati su tale metodo. Freud fu intellettualmente affascinato dalla possibilità di costruire una “psicologia” interamente basata sulla neurologia, e dedicò molti mesi, nel corso del 1895, al compimento di tale impresa. Il 27 aprile di quell’anno Freud scrisse a Fliess: “Immerso nella Psicologia per i neurologi fino alla stanchezza, così che di tanto in tanto sono costretto a interrompermi per esaurimento. Non sono mai stato tanto intensamente preoccupato. Ne uscirà qualcosa? Spero, ma la cosa va avanti lenta e con difficoltà.” Qualcosa ne uscì alcuni mesi dopo: ciò che noi conosciamo come il Progetto di una psicologia, spedito a Fliess nell’ottobre del 1895. Si tratta del tentativo di descrivere e spiegare l’intera gamma del comportamento umano, normale e patologico, per mezzo di una complicata manipolazione di due entità materiali: il neurone e la “quantità in movimento”, un’energia fisica o chimica non specificata. Il bisogno di postulare processi mentali inconsci era in questo modo del tutto evitato: la catena di eventi fisici era ininterrotta e completa.

Senza dubbio molte furono le ragioni per cui il Progetto non fu mai finito e per cui tutta la linea di pensiero retrostante fu accantonata, seppure mai del tutto. Tuttavia la ragione principale fu che il Freud neurologo veniva superato e sostituito dal Freud psicologo: divenne sempre più evidente che l’elaborata macchina dei sistemi neuronici era di gran lunga troppo rozza e ingombrante rispetto alle sottigliezze poste in luce dall’“analisi psicologica”; sottigliezze spiegabili solo nel linguaggio dei processi psichici. Di fatto si era andato gradualmente verificando uno spostamento dell’interesse di Freud. Già al tempo della pubblicazione del saggio sulle afasie (1891) erano passati due o tre anni dall’epoca del trattamento del caso della signora Emmy von N., e il caso clinico era stato scritto più di un anno prima del Progetto.

Proprio nella descrizione di questo caso (Studi sull’isteria, 1892-95, nota 151) si trova per la prima volta il termine “inconscio”, usato da Freud nella sua accezione psicoanalitica; e benché la teoria ostentata continui ad essere neurologica, la psicologia si insinua continuamente, e con essa la necessità di ammettere l’esistenza di processi psichici inconsci. Invero, la teoria della rimozione, adottata per spiegare i meccanismi dell’isteria, nonché l’efficacia terapeutica del metodo catartico di trattamento reclamavano una spiegazione psicologica, e solo con sforzi molto contorti erano stati spiegati da un punto di vista neurologico nel secondo capitolo del Progetto. Qualche anno dopo, nell’Interpretazione dei sogni (1899) si riscontra una singolare trasformazione: non solo è completamente scomparsa la spiegazione neurologica della psicologia, ma gran parte di ciò che Freud aveva scritto nel Progetto in termini di sistema nervoso si traduce ora perfettamente, e in modo molto più intelligibile, in termini psichici. L’inconscio è riconosciuto e stabilito una volta per tutte.

Occorre ripetere, tuttavia, che Freud non stabilì un mera entità metafisica. Nel capitolo 7 dell’Interpretazione dei sogni egli dette corpo, in un certo senso, all’entità metafisica. Per la prima volta dimostrò che cos’era l’inconscio, come operava, come si differenziava dalle altre parti o sistemi dell’apparato psichico e quali erano le sue relazioni con questi. Su tali scoperte egli ritorna, allargandole e approfondendole, nello scritto qui presentato.

Si era tuttavia reso evidente già qualche anno prima che il termine “inconscio” era ambiguo. Nella Nota sull’inconscio in psicoanalisi, scritta nel 1912, che per molti aspetti costituisce un preliminare al presente saggio, Freud aveva indagato accuratamente queste ambiguità distinguendo l’uso “descrittivo”, “dinamico” e “sistematico” del termine inconscio. Tali distinzioni sono riprese nel secondo paragrafo di questo lavoro sebbene in forma lievemente diversa; da esse prenderà le mosse L’Io e l’Es (1922). Ed è con l’elaborazione della dottrina delle istanze psichiche, ivi elaborata, che i problemi posti nel presente saggio troveranno pieno sviluppo e definitiva formulazione.

Il Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno fu scritto dal 23 aprile al 4 maggio 1915, contemporaneamente al saggio successivo Lutto e melanconia. Col titolo Metapsychologische Ergänzung zur Traumlehre fu pubblicato solo due anni dopo nella “Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse”, vol. 4 (6), 277-87 (1917). Fu poi riprodotto in Sammlung kleiner Schriften zur Neurosenlehre, vol. 4 (Vienna 1918), pp. 339-55 (2a ed. 1922), in Gesammelte Schriften, vol. 5 (1924), pp. 520-34, in Zur Technik der Psychoanalyse und zur Metapsychologie (Vienna 1924), pp. 242-56, in Theoretische Schriften (1911-1925) (Vienna 1931), pp. 141-56 e in Gesammelte Werke, vol. 10 (1946), pp. 412-26. La presente traduzione italiana è di Renata Colorni.

Il saggio viene in genere considerato un aggiornamento, in base alle nuove cognizioni teoretiche acquisite da Freud, del capitolo 7 dell’Interpretazione dei sogni (1899). Certamente è così. Tuttavia si deve osservare che L’interpretazione dei sogni è stata concepita da Freud, come egli stesso afferma nel capitolo 2 dell’opera, con l’intento di costruire una teoria e un metodo che consentissero di conferire un “senso” ai sogni, di trarre cioè da essi una conoscenza dei contenuti ideativi rimossi. Anche il capitolo 7, che sviluppa tutta la parte più propriamente teorica, risente di tale impostazione generale.

Il Supplemento metapsicologico è invece rivolto allo studio del meccanismo del sogno, indipendentemente da una qualsiasi sua utilizzazione. Diventa in questo lavoro particolarmente importante la relazione fra lo stato di sonno e il sogno. E Freud, che aveva appena scritto l’Introduzione al narcisismo (1914), vi si collega per descrivere il sonno come uno stato che ripristina le condizioni del narcisismo primitivo.

Con riferimento alla dottrina sviluppata nell’Interpretazione dei sogni, Freud analizza la formazione – per regressione – della scena onirica, la quale assume il carattere di un’allucinazione. Si pone quindi il problema della impressione di realtà nel sogno in funzione della sospensione onirica dell’esame di realtà.

Circa il problema della realtà, sono importanti due accenni contenuti nel saggio: l’affermazione che in qualche modo l’impressione di realtà, nella percezione, deve essere collegata all’attività sensoriale (affermazione che sembra in contrasto con la teoria sull’“esame di realtà”, per cui l’impressione di realtà dovrebbe scaturire da un tale esame); e quella (nota 170) secondo cui il problema dell’allucinazione va affrontato partendo dall’allucinazione negativa, anziché da quella positiva.

Molti dei problemi affrontati in questo saggio saranno ripresi nei lavori teorici successivi: soprattutto in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in L’Io e l’Es (1922), in Nota sul “notes magico” (1924) e nel capitolo 8 del Compendio di psicoanalisi (1938).

Composto contemporaneamente al saggio precedente, anche Lutto e melanconia fu pubblicato, col titolo Trauer und Melancholie, solo due anni dopo nella “Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse”, vol. 4 (6), 288-301 (1917); fu riportato in seguito in Sammlung kleiner Schriften zur Neurosenlehre, vol. 4 (Vienna 1918), pp. 356-77 (2a ed. 1922), in Gesammelte Schriften, vol. 5 (1924), pp. 535-53, in Zur Technik der Psychoanalyse und zur Metapsychologie (Vienna 1924), pp. 257-75, in Theoretische Schriften (1911-1925) (Vienna 1931), pp. 157-77 e in Gesammelte Werke, vol. 10 (1946), pp. 428-46. La presente traduzione italiana è di Renata Colorni.

Freud aveva trattato alcuni degli argomenti qui sviluppati nella seduta del 30 dicembre 1914 della Società psicoanalitica di Vienna, durante la discussione di un lavoro di Viktor Tausk sugli stati melanconici; ma, a quanto riferisce Jones (Vita e opere di Freud cit., vol. 2, pp. 399 sg.), fin dal gennaio di quell’anno aveva esposto privatamente allo stesso Jones il proprio punto di vista sul meccanismo psicologico della melanconia.

Come dice nel presente scritto (vedi nota 179), Freud si collega a uno studio pubblicato da Abraham nel 1912 sulla follia maniaco-depressiva e stati affini, per impostare l’analisi della depressione melanconica su un confronto con il normale fenomeno del lutto.

Il lutto è uno stato psichico determinato dalla perdita di una persona cara (o di un altro elemento, anche di natura astratta) su cui era concentrata la libido. La realtà attesta che l’oggetto non c’è più, ma l’Io stenta a ritirare la libido che vi era investita. Il lavoro del lutto consiste nel doloroso e spesso lunghissimo sforzo in cui l’Io è impegnato per effettuare questo ritiro. Quando il ritiro della libido si è compiuto, e la realtà della perdita subita è stata accettata, l’Io si trova in possesso di una quantità di libido che può essere investita in altri oggetti. Anche nel caso della melanconia, si deve supporre che ci sia stato un forte investimento libidico, e un successivo turbamento in questo investimento, per una qualche circostanza. Ma la libido liberata, anziché essere reinvestita in altri oggetti, è riportata sull’Io mediante un’identificazione dell’Io stesso con l’oggetto perduto. La perdita dell’oggetto si trasforma perciò in una perdita dell’Io. Il conflitto tra l’Io e la persona amata (nei cui confronti ci deve essere stata anche una componente aggressiva) si trasforma in un conflitto fra l’attività critica dell’Io e l’Io modificato dall’identificazione.

Questa concezione è densa di spunti che verranno sviluppati nelle opere successive di Freud. Intanto l’attività critica dell’Io, in conflitto con lo stesso Io, appare una anticipazione del concetto di “istanza critica” e poi di Super-io, quale sarà elaborato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) e poi in L’Io e l’Es (1922). Freud accoglie un’osservazione di Otto Rank secondo cui in tanto la sostituzione, nella melanconia, dell’oggetto perduto con lo stesso Io può realizzarsi in quanto la stessa scelta dell’oggetto sia stata a suo tempo effettuata su basi narcisistiche. In altri termini l’identificazione dell’Io con l’oggetto si attua in quanto l’Io aveva scelto l’oggetto ritrovando in esso sé stesso.

Il processo di identificazione, che verrà analizzato specificamente nella Psicologia delle masse, rinvia a una situazione molto primitiva dello sviluppo individuale, quella della fase orale della libido: come Abraham aveva osservato, attribuendo a ciò le manifestazioni di rifiuto del cibo, tipiche delle forme melanconiche.

L’esito di uno stato depressivo acuto può essere il suicidio: l’aggressività che l’Io esplica contro sé stesso è in realtà rivolta verso l’oggetto con cui l’Io si è identificato. Perciò tanto nel suicidio quanto nell’innamoramento – sia pure in modi diversi – si verifica una sopraffazione dell’Io da parte dell’oggetto. Su questo problema Freud ritornerà in L’Io e l’Es (1922) e nel Problema economico del masochismo (1924).

Freud in questo saggio cerca inoltre di affrontare il problema dell’attenuazione serale degli stati di depressione melanconica, nonché del carattere spesso ciclico che la melanconia presenta, con improvvisa insorgenza di stati euforici maniacali, i quali si alternano alle fasi depressive. Pur non escludendo l’intervento di fattori somatici, Freud tenta tuttavia anche qui un’interpretazione psicologica, che riprenderà in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921).

Ciò che Freud stesso ha considerato in seguito il più importante esito di questo lavoro è comunque la descrizione del processo in virtù del quale, nella melanconia, un investimento oggettuale è sostituito da un’identificazione. Nel paragrafo 3 de L’Io e l’Es (1922) egli dirà che tale processo non è caratteristico della melanconia soltanto, ma che proprio identificazioni regressive di questo genere costituiscono il fondamento del “carattere” degli uomini. Non solo: ma che le primissime identificazioni regressive che derivano dal tramonto del complesso edipico costituiscono il nucleo del Super-io.

Opere complete
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