Introduzione di C. L. Musatti

Il 1923 fu l’anno in cui si rivelò in Freud la forma cancerosa a una mascella, per cui dovette nell’autunno sottoporsi a un’operazione radicale, alla quale molte altre seguirono. Visse fino al 1939. Se si considera che i suoi primi studi sulle psiconevrosi risalgono al 1892, si può dire che per un terzo la sua attività in campo psicoanalitico si è svolta sotto il peso di questa lunga, grave e penosissima malattia.

Non fu un periodo sempre eguale, e neppure di progressivo uniforme peggioramento. Malgrado gli stati dolorosi, e i ripetuti interventi chirurgici, Freud ebbe anche la possibilità e la forza di continuare il lavoro scientifico, talora con un ritmo abbastanza intenso, qualche volta invece in modo più rallentato.

Nel 1923 un importante compito gli si presentava con urgenza. Le tre ultime opere maggiori – Al di là del principio di piacere (1920), Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) e L’Io e l’Es (1922), pubblicato nello stesso 1923 – avevano modificato notevolmente la precedente concezione della struttura della personalità umana. Ne discendeva la necessità di confrontare con la nuova concezione molte dottrine già sviluppate in opere precedenti.

La tesi di una pulsione di morte, agente accanto alle pulsioni libidiche, alterava la visione della vita pulsionale descritta nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). La nozione di un ideale dell’Io, e poi del Super-io, e il passaggio dalla psicologia individuale alla psicologia delle masse richiedevano un ripensamento della metapsicologia che era stata tracciata durante gli anni della guerra. Ma soprattutto L’Io e l’Es, introducendo un diverso modo di concepire la organizzazione dell’apparato psichico, imponeva un’opera generale di revisione e controllo.

Freud vi si accinse fin dal 1924, seguendo tuttavia un procedimento che gli è sempre stato caratteristico. Le modificazioni apportate alle sue dottrine non sono mai presentate quali nuovi apporti, destinati a vanificare le precedenti vedute, ma come semplici loro integrazioni.

Così, nel 1924, il saggio su Il problema economico del masochismo corregge la concezione di un masochismo quale semplice proiezione all’interno di una normale componente aggressiva della libido, e, senza che la possibilità di simili processi venga del tutto esclusa, conferisce essenzialmente al masochismo il valore di una autonoma espressione della pulsione di autodistruzione. La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi del 1924 completa il precedente articolo del 1923 su Nevrosi e psicosi, rettificando tuttavia la netta distinzione precedentemente sostenuta, da cui conseguiva che soltanto le nevrosi sarebbero state accessibili a una terapia analitica, e non le forme psicotiche.

È dello stesso 1924 il lavoro su Il tramonto del complesso edipico, che contiene un accenno polemico, ancora lieve e privo di rancore, verso Otto Rank, che era stato l’allievo prediletto, e che proprio allora, seguendo il suo concetto di trauma della nascita, stava allontanandosi dal pensiero di Freud.

Anche Inibizione, sintomo e angoscia, del 1925, una delle più importanti opere teoriche di questo periodo, contiene elementi di revisione. Revisione anzitutto del concetto di rimozione, già concepita come meccanismo specifico delle psiconevrosi. Freud risale alla prima forma di difesa dell’Io, costituita dalla inibizione. E ad essa collega tutti gli altri processi di difesa. Pure l’angoscia è concepita diversamente rispetto al passato: con una attenuazione della immagine della libido convertita in angoscia, e una accentuazione invece del concetto di segnale di allarme.

Nello stesso 1925 Freud pubblicò un breve saggio su La negazione: altro meccanismo di difesa dell’Io, che viene ad aggiungersi ai meccanismi di difesa tipici delle nevrosi ossessive illustrati in Inibizione, sintomo e angoscia: l’“isolamento” e il “rendere non avvenuto”. Così si delinea la concezione generale dei meccanismi di difesa di cui l’Io dispone, concezione che sarà più tardi illustrata e sviluppata dalla figlia di Freud, Anna, che collaborò intensamente col padre, dopo che la malattia e la protesi alla mascella impedirono a lui di parlare in pubblico.

Freud non poté partecipare al Congresso di Salisburgo dell’aprile 1924. Fu tuttavia informato, su come i lavori si erano svolti, da Jones Abraham e Ferenczi, subito dopo la sua conclusione.

Per il Congresso di Homburg (2-3 settembre 1925) Freud preparò una comunicazione su Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi, che fu letta al Congresso dalla figlia Anna. Veniva in questo lavoro ribadito il concetto dell’invidia del pene da parte della bambina come fattore dello sviluppo della sessualità femminile.

Così al Congresso di Innsbruck, che si tenne nel settembre 1927 Anna Freud lesse un breve saggio su L’umorismo, saggio che si collega al vecchio libro sul Motto di spirito del 1905. Durante quel Congresso fu deliberato di trasformare il “Comitato” in un organo puramente amministrativo, di cui fecero parte Eitingon, che era Presidente della Associazione psicoanalitica internazionale, Ferenczi, Jones, Anna Freud e van Ophuijsen. La situazione del gruppo dirigente del movimento psicoanalitico era così profondamente mutata.

Freud aveva progressivamente ridotto il numero dei pazienti presi in cura. Ne aveva ancora sei all’inizio del 1925. Si ridussero a tre nel 1926 e 1927.

Nel 1928, sperando di trovare un più valido aiuto contro il suo male, mutò chirurgo e si rivolse a Schröder di Berlino, il quale poté portare un miglioramento alla protesi. Però, mentre l’anno prima (1927) Freud aveva svolto una certa attività scientifica, scrivendo fra l’altro L’avvenire di un’illusione, di cui si dirà più avanti, nel 1928 non riuscì a scrivere nulla.

L’anno dopo (1929) – in seguito all’insorgere di disturbi cardiaci, su consigli degli amici più intimi, Freud assunse come medico personale (che lo visitava ogni giorno), il dottor Max Schur. Questi seguì Freud per dieci anni, a Vienna e poi a Londra, e, si può dire, lo mantenne in vita.

Appassionato ai viaggi, Freud dovette ovviamente rinunciare a questa sua consuetudine. Si recò in questi anni soltanto a Berlino per farsi visitare da Schröder, e passò una sola estate in Svizzera. Altrimenti trascorse i mesi caldi nel Semmering, per essere più vicino a Vienna.

Mentre scemava il lavoro professionale, aumentavano gli introiti per i diritti di autore, soprattutto per le traduzioni in lingue straniere. Freud era tuttavia poco abile in queste cose, e faceva disperare gli amici inglesi e americani che non riuscivano a fargli tutelare convenientemente i suoi interessi.

Le dottrine di Freud attiravano una crescente attenzione da parte del pubblico colto. Personalità eminenti della cultura (come Romain Rolland, Einstein, Arnold Zweig) vollero incontrarsi personalmente con lui; anche se alcuni, poco comprendendo del suo pensiero, contribuirono più a confondere le idee del pubblico, che a chiarirle.

Nell’ambito della pubblicazione del pensiero di Freud, vanno ricordati i rapporti con l’“Encyclopaedia Britannica”, opera che conservava un peso notevole negli ambienti culturali dell’epoca.

L’“Encyclopaedia”, anteriormente alla prima guerra mondiale, aveva ignorato del tutto la voce “Psicoanalisi”. Continuò a ignorarla nel 1922, quando fu ristampata, come dodicesima, la undicesima edizione risalente al 1910-11, con la sola aggiunta di tre volumi supplementari. Nel frattempo però Freud aveva scritto, per una raccolta minore in due volumi, pubblicata dagli stessi editori americani dell’Encyclopaedia, il Breve compendio di psicoanalisi (1923), che appare in questa nostra edizione italiana, nel vol. 9. Nel 1926 fu ancora ripubblicata la vecchia edizione dell’“Encyclopaedia Britannica” del 1910-11, con altri tre nuovi volumi supplementari, differenti tuttavia da quelli del 1922. Per essa Freud scrisse la voce Psicoanalisi (contenuta nel presente volume), voce che fu pubblicata col titolo: Psychoanalysis: Freudian School, in quanto gli editori non volevano privare gli indirizzi dissidenti (Adler, Jung ecc.) del diritto di fregiarsi anch’essi del nome di psicoanalisi.

Freud aveva preparata questa voce nel 1925. L’anno prima aveva scritto una Autobiografia, che fu pubblicata nel 1925. È un’opera anche letterariamente pregevole, scritta in un periodo in cui l’autore non riteneva che gli restasse molto tempo da vivere: costituiva dunque una sorta di suo testamento spirituale.

Le numerose attestazioni di stima (alcune entusiastiche) raccolte in questi anni da parte dei più diversi personaggi (nel 1926 per il suo settantesimo compleanno scrissero su di lui articoli assai lusinghieri Stefan Zweig ed Eugen Bleuler) erano bilanciate dallo sprezzante silenzio delle autorità accademiche viennesi, le quali da trent’anni avevano messo al bando Sigmund Freud, che aveva ardito ergersi come una personalità rivoluzionaria nell’invecchiato ambiente della facoltà medica di Vienna.

A tutto ciò Freud era abituato, per cui non ne soffriva assolutamente. Diverse – oltre a quelle fisiche, per le quali esistevano scarsi rimedi – erano in questi tempi le sofferenze di Freud. A uno a uno egli andò perdendo, o corse il pericolo di perdere, coloro con i quali aveva nei primi tempi collaborato e che erano stati i suoi amici più cari e fedeli.

Nel 1925, dopo varie trattative, la compagnia cinematografica UFA si accordò con Karl Abraham per girare un film (I misteri di un’anima) di argomento psicoanalitico: si trattava del caso di un ossessivo impotente, curato e guarito da uno psicoanalista. Freud non diede il proprio assenso, ma neppure oppose un rifiuto netto ad Abraham.

Comunque il film si fece, e in America, dove esso venne diffuso, si finì col ritenere che si trattasse di un’opera diretta, scena per scena, dallo stesso Freud.

Il film, naturalmente muto, rispecchia l’epoca sua. Ovviamente non dà un’idea esatta, e neppure approssimativa, di ciò che è la psicoanalisi; non è comunque peggiore di tutti i film che anche oggi vengono presentati come ispirati da questa dottrina.

Freud fu veramente indignato, anche in funzione del fatto che per le persone della sua generazione il cinema era ancora considerato qualche cosa di poco serio. Temette quindi che questa iniziativa potesse dar esca alle continue denigrazioni della scienza medica ufficiale verso la psicoanalisi.

Si minacciò una rottura tra Freud e Abraham. Abraham però era già quell’anno gravemente ammalato, senza che coloro che gli erano vicini se ne fossero resi conto. E morì, a quarantotto anni, il giorno di Natale del 1925.

La morte di Abraham addolorò profondamente Freud, che partecipò (e fu l’unica volta che presenziò a una seduta della Società dopo la propria malattia) alla cerimonia in onore del collega scomparso, organizzata appunto dalla Società psicoanalitica di Vienna.

Fra i primi aderenti al movimento psicoanalitico, i fedeli erano così rimasti assai pochi.

Lo stesso Jones ha scritto che dal 1922 al 1932, per dieci anni, vi furono incomprensioni e dissapori tra lui e Freud: Freud aveva l’impressione che egli pure dovesse abbandonarlo.

I rapporti tra Freud e Jones si erano guastati anche per effetto di quello che fu detto l’affare della analisi profana.

I primi allievi di Freud erano stati tutti medici, che alla psicoanalisi si erano avvicinati come a un’attività specialistica della loro professione: attività che presentava sì caratteri alquanto diversi da quelli di ogni altra specialità, ma che essendo pur sempre un mezzo per curare ammalati sofferenti di determinati disturbi, possedeva i requisiti di una branca della medicina.

Tuttavia le dottrine e le esperienze di Freud suscitarono maggiore interesse presso uomini di cultura (della più differente cultura) che non presso i medici praticanti. Così cominciarono a frequentare la Società di Vienna anche persone colte, ma estranee al mondo medico. Lo stesso Otto Rank, che pure raggiunse livelli culturali altissimi, era una specie di autodidatta digiuno di studi medici.

Per vari anni gli psicoanalisti non medici (profani, come venivano chiamati) si occuparono esclusivamente degli aspetti culturali della psicoanalisi (psicologia, antropologia, storia delle religioni, mitologia eccetera) astenendosi rigorosamente dal prendere in cura ammalati. Dopo la fine della prima guerra, crescendo nel pubblico l’interesse per la psicoanalisi, si produsse a Vienna qualche infrazione. In modo specifico i non medici (come la stessa Anna Freud) prendevano in trattamento bambini nevrotici, sembrando che l’analisi effettuata su questi soggetti avesse più il carattere di un’azione pedagogica che di un intervento medico. In realtà non vi è differenza fra analisi di bambini e analisi di adulti (da un punto di vista deontologico, e non tecnico, si intende); e qualcuno fra i non medici, dopo essersi assicurato presso un collega (medico questo sì) che i disturbi del paziente erano esclusivamente psicogeni, iniziò trattamenti analitici normali.

Nel 1926 Theodor Reik, privo anch’egli di laurea in medicina, fu incriminato a Vienna per esercizio abusivo della professione medica, su denuncia di un suo paziente che si riteneva danneggiato dalla analisi. La denuncia fu archiviata, perché il denunciante risultò uno squilibrato; ma soprattutto perché mancano nei procedimenti della psicoanalisi caratteri che la distinguano da una semplice conversazione. Non vi è infatti né ispezione corporea, né intervento sulla persona, e neppure prescrizione di farmaci: che sono gli elementi i quali – da un punto di vista materiale e obiettivo – caratterizzano una attività medica.

La cosa ebbe tuttavia un seguito. Freud scrisse un’operetta Il problema dell’analisi condotta da non medici. Dopo aver descritto, in un brillante dialogo sostenuto con un immaginario interlocutore, in che cosa l’analisi consista, conclude sostenendo vigorosamente la legittimità dell’attività analitica da parte di persone di cultura, anche se non munite di laurea in medicina, purché convenientemente preparate. Freud dimostra in quest’opera che la preparazione necessaria per una attività psicoanalitica è assai complessa e specializzata, ma totalmente diversa dalla preparazione che le università assicurano ai futuri medici.

Dal piano giuridico e pubblico il problema passò allora negli ambienti stessi di quegli psicoanalisti che all’analisi erano giunti attraverso normali studi medici. La maggior parte degli analisti si schierò contro la tesi di Freud e a favore del privilegio della classe medica. Specialmente gli americani si rifiutarono in modo assoluto di riconoscere come colleghi i non medici; mentre in Europa le posizioni erano meno rigide.

Ferenczi, recatosi negli Stati Uniti, cominciò a preparare allievi non medici, con l’idea di riunirli in una Società, che in un secondo tempo avrebbe potuto collegarsi con l’Associazione psicoanalitica internazionale. Ma Freud vide anche in questa iniziativa il pericolo di una spaccatura del movimento psicoanalitico. Non si fidava più di nessuno, e quantunque Jones si adoperasse per impedire scissioni fra americani ed europei, Freud diffidò per parecchio tempo anche della sua lealtà.

Né al Congresso di Innsbruck (1927), né a quello di Oxford (1929) si giunse a qualche conclusione. Soltanto al Congresso di Wiesbaden (1932) si stabilì finalmente che la selezione dei candidati analisti, compresi i non medici, doveva essere regolata da norme decise in ciascun paese dalle singole Società nazionali affiliate all’Associazione psicoanalitica internazionale.

Soltanto allora si chiarirono del tutto i rapporti fra Jones e Freud.

Rank era invece ormai completamente perduto per il movimento psicoanalitico.

Sembrava che uno strano destino pesasse su coloro che erano stati i primi compagni di Freud. Raggiunto un certo livello di notorietà, che consentiva loro di svincolarsi dalla sudditanza dalla forte personalità del Maestro, parecchi si sentirono attratti dagli Stati Uniti, dove vi erano maggiori possibilità economiche. Là giunti, come osserva Jones, si sentirono di assumere funzioni di capiscuola, con propri allievi e seguaci, e si staccarono dai lacci di soggezione che li legavano al gran vecchio di Vienna.

Questo era accaduto a Jung e ad Adler; e accadde anche a Otto Rank, e alla fine a Sándor Ferenczi.

Certamente tutti costoro erano stati analizzati per brevissimo tempo da Freud: il quale da parte sua riteneva che l’allievo psicoanalista non avesse bisogno di una lunga analisi: poche settimane, quel tanto che consentisse di comprendere su di sé il linguaggio dell’inconscio; e quindi l’apprendimento di un certo numero di regole da seguire nel comportamento con i pazienti. Ciò che veramente contava poi era soltanto la pratica che ogni allievo doveva conquistarsi da sé.

Freud tuttavia fece troppo affidamento sul proprio prestigio, sulla traslazione affettiva, che si produceva tanto nel comune paziente quanto nell’allievo. E trascurò con i suoi primi seguaci l’analisi della traslazione negativa, così come aveva fatto con Dora nel 1900. Molti allievi gli sfuggirono proprio per questo. Non tolleravano di vivere di luce riflessa. E non si rendevano conto che la luce che ritenevano di emanare autonomamente, era proprio in gran parte riflessa.

Nel 1927 Freud scrisse un libretto, L’avvenire di un’illusione. Volle con esso ritornare sul problema della religione, che aveva già trattato da un punto di vista storico in Totem e tabù (1912-13) e in altri scritti, e su cui ritornerà in L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38). Nell’opera del 1927 Freud affrontò il problema da un punto di vista teoretico.

La religione è solo una illusione, la quale nasce negli uomini per il persistere della loro condizione infantile. L’uomo maturo e razionale può considerare la religione soltanto come una fantasia consolatoria.

Malgrado la forma rispettosa e corretta con cui la tesi è sostenuta, Freud turbò molte coscienze che sarebbero state desiderose di conciliare i princìpi della ragione con una residuale conservazione della voce con cui la religione parla alla parte irrazionale del nostro spirito.

Freud rispose ad alcune lettere ricevute in proposito; compresa una lettera di Romain Rolland, che si appellava non a ragionamenti, ma a un sentimento: quello di una fondamentale appartenenza al tutto. Freud dimostra di conoscere assai bene questo sentimento, che Rolland aveva chiamato “oceanico”; ma lo riporta alla originaria formazione psicologica dell’essere umano, che sorge dal distacco dell’individuo, come essere psichico, da quel tutto confuso in cui si riassumono le impressioni del nuovo essere venuto al mondo.

Questa risposta a Romain Rolland è contenuta in un libro pubblicato nel 1929 con un titolo che mal si traduce in italiano: Das Unbehagen in der Kultur. La difficoltà sta nel fatto che Kultur non è cultura, ma piuttosto civiltà, oppure, come qui nel Disagio della civiltà, cap. 3, Freud la definisce: “somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l’umanità dalla natura e a regolare le relazioni degli uomini tra loro”. La difficoltà della traduzione riguarda però anche le particelle in der, che letteralmente darebbero l’espressione poco chiara: “Il disagio nella civiltà.” Ha così prevalso nell’uso l’espressione Il disagio della civiltà.

Freud sostiene in quest’opera che fra amore e civiltà esiste un insanabile contrasto, discute il concetto di amore per il prossimo, e negando che esso costituisca qualche cosa di naturale, propende invece per assegnare all’uomo una indomabile aggressività lupina verso i propri simili. Si discutevano in quegli anni le realizzazioni dell’unico paese che si proclamava socialista, l’Unione Sovietica, e la tesi della soppressione della proprietà privata come mezzo per eliminare la lotta fra gli uomini. Freud nega che l’aggressività reciproca sorga con la proprietà privata, e sostiene la tesi della aggressività innata, come espressione di una pulsione di morte.

Nel Disagio della civiltà viene pure ripresa l’analisi del senso di colpa, che nato come angoscia sociale, è in seguito interiorizzato e dà luogo al Super-io. Freud conclude affermando che il progresso umano, e cioè propriamente la Kultur, ha inevitabilmente un prezzo, che è costituito da una perdita di felicità.

Viviamo perciò in uno stato di conflitto fra la ricerca della felicità individuale e la aspirazione a una sempre maggiore unità fra gli uomini: conflitto che appare il riflesso di quello fra le due forze fondamentali agenti nella natura in genere e nella natura umana in ispecie: la pulsione di morte e l’Eros.

Il libro termina con questa posizione dualistica, che rimarrà definitiva e che ispirerà tutte le opere freudiane degli ultimi anni. È una posizione fondamentalmente pessimistica (che Freud vela appena con un accenno alla possibilità che l’Eros torni a trionfare), e di cui egli sembra quasi scusarsi con Romain Rolland, a cui il libro nelle prime pagine appare diretto, con il lettore e con noi tutti.

Le citazioni di scritti di Freud avvengono secondo il titolo, la datazione, la partizione interna, con rimando al volume delle Opere di Sigmund Freud (d’ora in poi OSF) in cui compaiono (vedi elenco al fondo del volume). Per gli scritti di Jung e Abraham si fa riferimento alle Opere di C. G. Jung e alle Opere di Karl Abraham presso l’editore Boringhieri.

Note e inserzioni editoriali sono tra parentesi quadre, eccetto le numerose precisazioni aggiunte ai rimandi bibliografici, i quali quasi sempre, nel testo originale, sono incompleti o imprecisi.

Opere complete
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