“Vorrei ora che Lei mi facesse vedere come in base alle teorie della psicoanalisi ci si può rappresentare lo sviluppo di una malattia nervosa.”
Cercherò di farlo. Ma per ciò dobbiamo studiare il nostro Io e il nostro Es da un nuovo punto di vista, da quello dinamico, con riferimento cioè alle forze che agiscono in essi e fra essi. Fino ad ora ci eravamo soltanto limitati a descrivere l’apparato psichico.
“Basta che le cose non tornino a divenire tanto incomprensibili!”
Spero di no. Lei farà presto a orizzontarsi. Noi dunque ammettiamo che le forze le quali mettono in azione l’apparato psichico, si generino negli organi del corpo quali espressioni dei grandi bisogni organici. Ricorda il motto del nostro grande poeta filosofo? Fame e amore.387 Una coppia di forze formidabili del resto. Designamo questi bisogni organici, in quanto stimoli all’attività psichica, Triebe [pulsioni], parola che molte lingue moderne ci invidiano.388 Queste pulsioni riempiono ora l’Es: si può dire in breve che ogni energia dell’Es deriva da esse. Anche le forze dell’Io non hanno altra origine, esse provengono da quelle dell’Es. Ma che cosa vogliono le pulsioni? Soddisfazione, cioè la produzione di situazioni nelle quali i bisogni organici vengano appagati. L’abbassamento di tensione dei bisogni viene avvertito dalla coscienza come piacere, l’accentuazione di quella tensione viene invece tosto sentita come dispiacere. Le oscillazioni della tensione determinano dunque tutta quella gamma di sensazioni, di piacere e dispiacere, sulla quale l’intero apparato regola la propria attività. Noi parliamo quindi di un “dominio del principio di piacere”.
Si giunge a stati insopportabili quando le esigenze pulsionali dell’Es non trovano modo di appagarsi. L’esperienza mostra rapidamente che l’appagamento può essere ottenuto soltanto con l’aiuto del mondo esterno. In questo modo entra in azione quella parte dell’Es che è appunto rivolta al mondo esterno, e cioè l’Io. Se tutta la forza pulsionale che mette in moto il vascello è fornita dall’Es, l’Io regge il timone senza il quale nessuna meta potrebbe esser raggiunta. Le pulsioni dell’Es sospingono verso un appagamento immediato, senza dilazioni; ma in tal modo o non raggiungono nulla od ottengono addirittura un danno sensibile. È ora compito dell’Io evitare questo insuccesso, collocandosi come intermediario fra le esigenze dell’Es e le difficoltà a quelle opposte dal mondo esterno reale, L’Io svolge allora la sua attività in due direzioni. Da un lato, con l’aiuto del suo organo sensoriale, e cioè il sistema della coscienza, osserva il mondo esterno per cogliere il momento opportuno per una soddisfazione esente da pericoli; dall’altro influenza l’Es, tiene imbrigliate le sue “passioni”, induce le pulsioni ad aggiornare i loro soddisfacimenti, e, se necessario, a modificare le loro mete o ad abbandonarle dietro compenso. Imbrigliando in tal modo gli impulsi dell’Es, l’Io sostituisce il principio di piacere, che era inizialmente l’unico principio normativo, col principio di realtà, che persegue anch’esso le stesse mete finali, ma che tien conto delle condizioni poste dalla realtà esterna. Più tardi l’Io impara che vi è anche un altro mezzo per assicurare il soddisfacimento pulsionale, oltre all’adattamento al mondo esterno che ora abbiamo descritto. Si può anche agire sulla realtà esterna, modificandola e producendo in essa quelle condizioni che rendono l’appagamento possibile. Una tale attività diviene allora la più alta prestazione dell’Io. Il decidere quando sia più utile dominare le proprie passioni e inchinarsi di fronte alla realtà, e quando invece convenga prender partito per queste e contrapporsi al mondo esterno, costituisce l’essenza del saper vivere.
“E come va che l’Es si lascia così dominare dall’Io, posto che esso, se ho ben capito, rappresenta la parte più forte?”
Sì, tutto va bene quando l’Io possiede la sua completa organizzazione e capacità di funzionamento, quando ha accesso a tutte le parti dell’Es e può esercitarvi la propria influenza. Difatti non vi è un’ostilità naturale fra Io ed Es: essi costituiscono un tutto, e nello stato di salute non occorre distinguerli.
“Capisco. Ma non vedo bene dove in queste condizioni ideali si inserisca la minima possibilità per un’alterazione morbosa.”
Lei ha ragione; fin tanto che l’Io e i suoi rapporti con l’Es rispondono a queste esigenze ideali, non vi son disturbi nervosi. La via d’ingresso alla malattia si trova altrove, là dove non ce la aspetteremmo: quantunque chi conosce la patologia generale non possa meravigliarsi di trovar qui confermato il principio che proprio le evoluzioni e differenziazioni più significative contengono in sé il germe della malattia, e cioè della alterazione funzionale.
“Il Suo linguaggio si fa troppo scientifico e io non La seguo più.”
Debbo rifarmi un po’ da lontano. Il piccolo essere appena venuto alla luce è una ben povera e fragile cosa di fronte al mondo potente e ricco di attività distruttive. Un essere primitivo che non ha ancora sviluppato sufficientemente un Io organizzato è esposto a tutti questi “traumi”. Vive soltanto per la “cieca” soddisfazione dei suoi desideri pulsionali e spesso ne è travolto. La differenziazione di un Io rappresenta soprattutto un progresso per la sopravvivenza individuale. Quando l’essere viene travolto totalmente, non ne trae naturalmente insegnamento alcuno; ma quando invece supera felicemente un trauma, farà attenzione all’approssimarsi di situazioni simili, e segnalerà il pericolo con una riproduzione abbreviata dell’impressione vissuta in occasione del trauma, e cioè con un sentimento d’angoscia. Questa reazione alla percezione del pericolo conduce ora a un tentativo di fuga, che rappresenta la via della salvezza fino a tanto che l’essere sia divenuto sufficientemente forte per affrontare in forma attiva, ed eventualmente addirittura aggressiva, le fonti di pericolo contenute nel mondo esterno.
“Tutto questo ci porta assai lontano da ciò che Lei mi aveva promesso di dire.”
Lei non ha idea di quanto io sia prossimo a mantenere la mia promessa.
Anche negli esseri che più tardi presentano un’organizzazione dell’Io pienamente efficiente, l’Io è all’inizio, nell’infanzia, assai debole e poco differenziato dall’Es. Consideri ora quello che deve accadere quando questo Io privo di forza avverte una esigenza pulsionale proveniente dall’Es, a cui egli vorrebbe resistere, perché sa che la sua soddisfazione è pericolosa potendo arrecare una situazione traumatica, un conflitto con la realtà, che egli però è incapace di dominare non possedendo ancora una forza sufficiente. L’Io tratta in tal caso il pericolo costituito dalla pulsione al modo stesso di un pericolo esterno; tenta cioè di prendere la fuga di fronte ad esso, si ritira da questa regione dell’Es e l’abbandona alla sua sorte, dopo averle negati quegli apporti che normalmente pone a disposizione dei moti pulsionali. Noi diciamo in tal caso che l’Io intraprende una rimozione di quegli impulsi. Per il momento lo scopo di evitare il pericolo è raggiunto; ma non si può scambiare impunemente quanto è interno con quanto è esterno. Non si può scappar via da sé medesimi. Con la rimozione l’Io segue il principio di piacere, quel principio di piacere che è suo compito di modificare: e deve perciò portarne la pena. Questa consiste nel fatto che l’Io ha con ciò limitato stabilmente il campo della propria efficienza. Il moto pulsionale rimosso è ora isolato, abbandonato a sé stesso; è divenuto inaccessibile, ma ha anche cessato di essere influenzabile: segue ormai da sé la propria strada. Così l’Io, anche più tardi, quando si sarà rinforzato, non potrà più eliminare la rimozione; la sua sintesi è turbata, e una parte dell’Es rimane per l’Io territorio proibito. Il moto pulsionale non rimane però per questo inattivo, trova modo di rifarsi di quell’appagamento normale che gli è stato rifiutato, genera come propri rappresentanti determinati prodotti psichici, si allea ad altri processi che con la propria influenza sottrae pure all’Io; e alla fine irrompe nell’Io e nella coscienza con una formazione sostitutiva, deformata e irriconoscibile: genera cioè quello che si dice un sintomo.
Vediamo ora in sintesi la situazione costituita da una malattia nervosa: un Io inibito nella sua funzione sintetica, che è privo di influenza su determinate parti dell’Es, che deve rinunciare ad alcune delle sue attività per impedire un nuovo urto col rimosso, che si esaurisce in reazioni difensive perlopiù vane contro quei sintomi che sono i derivati degli impulsi rimossi e contro un Es in cui singole pulsioni si son rese indipendenti, perseguono i loro fini senza alcun riguardo per gli interessi generali della persona, e obbediscono soltanto alle leggi di quella psicologia primitiva che domina appunto le profondità dell’Es.
Tirando le somme, possiamo enunciare, per la produzione di una nevrosi, questa semplice formula: l’Io ha tentato di reprimere in un modo improprio determinati elementi dell’Es, il tentativo è fallito, e l’Es ha preso le proprie vendette.
La nevrosi costituisce quindi l’esito di un conflitto fra l’Io e l’Es, conflitto in cui l’Io s’è impegnato perché – come risulta quando si approfondisca l’analisi – non può rinunciare alla propria subordinazione al mondo esterno reale. L’opposizione si produce fra il mondo esterno e l’Es, e perché l’Io, fedele in ciò alla propria intima essenza, prendendo partito per il mondo esterno, entra in conflitto col proprio Es. Facciamo però attenzione: non il fatto di un tale conflitto genera di per sé le condizioni della malattia, giacché simili opposizioni fra la realtà e l’Es sono come tali inevitabili, ed è proprio uno dei compiti permanenti dell’Io quello di mediare fra esse; ma piuttosto il fatto che l’Io, per risolvere il conflitto, si è servito di un mezzo insufficiente, e cioè della rimozione. A sua volta questo dipende dal fatto che l’Io, al tempo in cui si è posto un tale compito, era ancora debole e troppo poco sviluppato. Le rimozioni veramente decisive si producono infatti tutte nell’infanzia.
“Una faccenda complicata! Io mi attengo al Suo invito e non faccio critiche. Lei mi sta mostrando quel che la psicoanalisi pensa sulla genesi delle nevrosi, per giungere alla esposizione di quello che essa fa per combatterle. Avrei parecchie cose da chiederLe, e Le porrò più tardi alcune domande. Ma mi vien ora voglia di tentare, in base a ciò che Lei mi ha esposto, di andare avanti da me, e di abbozzare io stesso una teoria. Lei ha considerato nei loro sviluppi le relazioni fra mondo esterno, Io ed Es, e ha posto come condizione della nevrosi il fatto che l’Io, nella sua dipendenza dal mondo esterno, combatta l’Es. Ma non si può anche pensare a un altro caso? E che cioè l’Io si lasci trascinare dall’Es, rinunciando alla propria considerazione della realtà esterna? Che cosa accadrà allora? Per quello che so, come profano s’intende, della natura delle malattie mentali, un atteggiamento di questo genere da parte dell’Io potrebbe essere la condizione di queste malattie. L’essenza di una malattia mentale sembra effettivamente data da un simile distacco dalla realtà.”
Si, anch’io ho pensato a questo389 e credo che sia giusto; benché la dimostrazione di una simile ipotesi implichi una discussione molto complessa. Le nevrosi e le psicosi sono evidentemente assai collegate fra loro, e debbono pur tuttavia distinguersi per qualche punto essenziale. Un tale punto potrebbe benissimo consistere nella posizione assunta dall’Io in un simile conflitto.
In tal modo l’Es conserverebbe in entrambi i casi il suo carattere di cieca inflessibilità.
“Adesso andiamo avanti. Quali indicazioni fornisce la Sua teoria per il trattamento delle malattie nervose?”
È facile ora precisare il nostro compito terapeutico. Noi vogliamo ricostruire l’Io, liberarlo dalle sue limitazioni, restituirgli quel suo dominio sull’Es, che egli ha perduto in seguito alle sue rimozioni precoci. L’analisi ha questo scopo e tutta la nostra tecnica è rivolta a ciò. Dobbiamo ricercare le antiche rimozioni e indurre l’Io a correggerle col nostro aiuto, risolvendo il conflitto meglio che con un tentativo di fuga. Poiché le rimozioni appartengono ai primi anni dell’infanzia, anche il lavoro analitico ci conduce a questa prima età. La via che ci porta a quelle situazioni di conflitto, perlopiù dimenticate e che noi vogliamo risuscitare nel ricordo dell’ammalato, ci è indicata dai sintomi, dai sogni e dalle libere associazioni del paziente. Questo materiale noi lo dobbiamo dapprima interpretare, tradurre, dato che, sotto la influenza della psicologia dell’Es, ha assunto forme espressive che appaiono estranee al nostro intelletto. Le idee improvvise, i pensieri e i ricordi che il paziente, non senza una lotta interiore, ci vien comunicando, sono in qualche modo connessi col materiale rimosso o ne rappresentano dei derivati. Incitando l’ammalato a superare le sue resistenze alla comunicazione, noi educhiamo il suo Io a vincere la propria tendenza alla fuga e a sopportare l’avvicinamento del rimosso. Quando alla fine si riesce a riprodurre nel ricordo la situazione della rimozione, la docilità del paziente viene ricompensata. L’intervallo di tempo intercorso è tutto a suo favore, e le cose di fronte alle quali il suo Io infantile era fuggito spaventato, spesso appaiono ora all’Io adulto e fortificato un semplice gioco di bambini.