Lezione 31
La scomposizione della personalità psichica
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Signore e signori, so che conoscete l’importanza che ha il punto di partenza nei vostri personali rapporti, siano essi con persone o con cose. Così è stato anche per la psicoanalisi: per lo sviluppo che essa ha avuto e per l’accoglienza che ha trovato, non è stato indifferente che abbia iniziato il suo lavoro ciò che nella vita psichica è più estraneo all’Io, il sintomo. Il sintomo deriva dal rimosso, ne è, per così dire, il rappresentante al cospetto dell’Io; ma il rimosso è per l’Io territorio straniero, territorio straniero interno, così come la realtà – consentite l’espressione insolita – è territorio straniero esterno. Dal sintomo la nostra strada ci condusse all’inconscio, alla vita pulsionale, alla sessualità, e fu allora che alla psicoanalisi toccò udire la geniale obiezione che l’uomo non è semplicemente un essere sessuale, ma conosce anche impulsi più nobili ed elevati. Si sarebbe dovuto aggiungere che, esaltato dalla consapevolezza di questi impulsi più elevati, spesso egli si arroga il diritto di sragionare e di trascurare i fatti.

Sapete anche di più. Noi abbiamo detto fin dal principio che l’uomo si ammala per il conflitto fra le pretese della sua vita pulsionale e la resistenza che contro di esse si erge in lui, e mai un istante abbiamo dimenticato questa istanza che si oppone, respinge, rimuove, istanza che pensavamo dotata di sue particolari forze, le pulsioni dell’Io e tale da coincidere appunto con l’Io della psicologia popolare. Per altro verso, poiché è proprio del lavoro scientifico progredire faticosamente, anche alla psicoanalisi non fu possibile studiare simultaneamente tutti i campi e pronunciarsi d’un sol colpo su tutti i problemi. Alla fine il progresso fu tale che l’attenzione poté convergere dal rimosso al rimovente, e ci si trovò di fronte a questo Io (il quale sembrava essere così ovvio) con l’aspettativa certa di trovare anche qui cose alle quali non si poteva essere preparati; ma non fu facile dapprima trovare il modo di avvicinarlo. È di questo che voglio parlarvi oggi.

Non posso tuttavia nascondere il mio sospetto che questa esposizione della psicologia dell’Io vi farà un effetto diverso dall’introduzione nel mondo psichico sotterraneo che l’ha preceduta. Perché debba essere così, non so dirlo con certezza. Dapprima credevo che avreste rilevato che, mentre in precedenza vi avevo riferito principalmente fatti – seppure insoliti e strani –, questa volta vi sarebbe toccato sentire prevalentemente concetti teorici, ossia speculazioni. Ma la ragione non può esser questa. Riflettendoci meglio, bisogna pur affermare che nella nostra psicologia dell’Io la parte di rielaborazione intellettuale dei dati di fatto non è molto più grande di quanto fosse nella psicologia delle nevrosi. E parimenti sono da respingere altre motivazioni di questa mia attesa. Ora ritengo che la cosa dipenda in qualche modo dal carattere della materia stessa e dal fatto che non siamo abituati a trattarla. In ogni caso, non sarò sorpreso se vi mostrerete ancora più riservati e prudenti nel vostro giudizio di quanto lo siate stati finora.

A indicarci il cammino sarà la situazione in cui ci troviamo all’inizio della nostra indagine. Nostro desiderio è fare oggetto di questa indagine l’Io, il nostro Io più intimo; ma è possibile? L’Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile: l’Io può prendere come oggetto se medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora. Così facendo, una parte dell’Io si contrappone alla parte restante. L’Io dunque è scindibile; e in effetti si scinde nel corso di parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente.126 Le parti possono successivamente riunirsi. Questa non è esattamente una novità, forse è un’accentuazione insolita di cose universalmente note. D’altro canto siamo avvezzi all’idea che la patologia possa rendere evidenti, ingrandendole e rendendole più vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero sfuggite. Dove essa ci mostra una frattura o uno strappo, normalmente può esistere un’articolazione. Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e fenditure, sono anche i malati di mente. Un po’ del reverenziale timore che gli antichi popoli dimostravano per i pazzi dobbiamo concederglielo anche noi. Si sono staccati dalla realtà esterna ma, appunto per questo, sanno moltissimo della realtà interna, psichica, e possono rivelarci parecchie cose che altrimenti ci sarebbero inaccessibili.

Di un gruppo di questi malati noi diciamo che soffrono del delirio di essere osservati.127 Essi si lamentano di essere molestati incessantemente, e fin nelle loro più intime azioni, da forze ignote, probabilmente persone, che li osservano, e odono in forma allucinatoria queste persone proclamare i risultati della loro osservazione, “adesso sta per dire questo, adesso si veste per uscire” ecc. Questa attenzione non è ancora una persecuzione, ma poco ci manca; essa presuppone che la gente diffidi di loro, che aspetti di sorprenderli mentre compiono azioni proibite, per le quali dovrebbero essere puniti. E se questi pazzi avessero ragione, se nell’Io di tutti noi vi fosse una istanza simile che osserva e minaccia castighi, istanza che in loro si è soltanto separata nettamente dall’Io ed è stata erroneamente spostata nella realtà esterna?

Non so se anche a voi accadrà lo stesso che a me. Da quando, sotto il forte influsso di questo quadro morboso, ho concepito l’idea che la separazione di un’istanza osservatrice dal resto dell’Io potrebbe essere un tratto regolare nella struttura dell’Io, quest’idea non mi ha più abbandonato e mi ha spinto a indagare gli ulteriori caratteri e relazioni di questa istanza in tal modo separatasi. Il passo successivo è stato immediato. Già il contenuto del delirio di essere osservati suggerisce che l’osservare è solo una preparazione al giudicare e al punire, e noi indoviniamo così che un’altra funzione di questa istanza dev’essere ciò che chiamiamo la nostra coscienza morale. Non vi è forse null’altro in noi che separiamo tanto regolarmente dal nostro Io e gli contrapponiamo con tanta facilità come, appunto, la coscienza morale. Io avverto l’inclinazione a fare una cosa da cui mi riprometto piacere, ma non la faccio perché la mia coscienza non me lo permette. Oppure, mi sono lasciato indurre da un’eccessiva aspettativa di piacere a fare una cosa contro cui la voce della coscienza sollevava obiezioni e, dopo averla fatta, la mia coscienza mi punisce con tormentosi rimproveri, facendomi provare rimorso per l’azione compiuta. Potremmo dire semplicemente che la particolare istanza che comincia a distinguersi nell’Io è la coscienza morale, ma è più prudente mantenere a questa istanza la sua autonomia e supporre che la coscienza morale sia una delle sue funzioni e che l’autoosservazione preliminare, indispensabile all’attività giudicatrice della coscienza, ne sia un’altra. E poiché il riconoscimento di un’esistenza separata implica che si dia alla cosa un nome, d’ora in poi designerò questa istanza presente nell’Io come il “Super-io”.

Mi pare di sentire già la vostra domanda ironica, se la nostra psicologia dell’Io non miri ad altro che a prendere alla lettera e rendere più grossolane certe astrazioni usuali, a trasformarle da concetti in cose, con il che avremmo fatto un bel guadagno! Vi rispondo che non è facile evitare nella psicologia dell’Io ciò che è universalmente noto: più che di nuove scoperte si tratterà di nuovi modi di concepire e di raggruppare. Per intanto, attenetevi pure alle vostre critiche e aspettate gli ulteriori sviluppi. I dati della patologia creano ai nostri sforzi uno sfondo che voi cerchereste invano nella psicologia popolare. Pertanto proseguo.

Non appena ci siamo familiarizzati con l’idea di un Super-io che gode di una certa autonomia, che persegue i propri intenti ed è indipendente dall’Io per quanto riguarda il suo patrimonio energetico, la nostra attenzione è particolarmente attirata da un quadro clinico che illustra con evidenza la severità e persino la crudeltà di questa istanza, nonché le sue mutevoli relazioni con l’Io. Mi riferisco allo stato di melanconia128 o, più precisamente, dell’accesso melanconico, di cui anche voi, pur non essendo psichiatri, avrete certo avuto modo di sentir parlare. La caratteristica più appariscente in questo male, sulle cui cause e sul cui meccanismo sappiamo ben poco, è il modo in cui il Super-io – ditevi tra voi: la coscienza morale – tratta l’Io. Mentre in periodi sani il melanconico può essere più o meno severo con se stesso, come chiunque altro, durante l’accesso melanconico il Super-io diventa esageratamente rigoroso, insulta, umilia, maltratta il povero Io, gli prospetta i più severi castighi, gli muove rimproveri per azioni da molto tempo trascorse e prese, allora, alla leggera, come se durante l’intero intervallo non avesse fatto altro che raccogliere accuse in attesa del suo presente rafforzamento per farsi avanti e per pronunciare, forte di quelle accuse, la sua condanna. Il Super-io impone all’Io inerme, che è in sua balìa, criteri morali rigorosissimi; è in generale il rappresentante delle esigenze della moralità, e d’un tratto ci rendiamo conto che il nostro senso morale di colpa esprime la tensione fra l’Io e il Super-io. È un’esperienza assai curiosa vedere la moralità, che si presume ci sia stata conferita da Dio e sia radicata in noi tanto profondamente, manifestarsi come un fenomeno stagionale. Infatti, dopo un certo numero di mesi, tutto il trambusto morale passa, la critica del Super-io tace, l’Io viene riabilitato e gode nuovamente di tutti i diritti degli umani fino al prossimo accesso. Anzi, in talune forme della malattia, ha luogo nell’intervallo tutto l’opposto: l’Io si trova in uno stato di beata ebbrezza, di trionfo, quasi che il Super-io avesse perso ogni forza o si fosse fuso con l’Io; e questo Io maniaco, divenuto libero, si permette realmente senza inibizioni il soddisfacimento di tutti i suoi appetiti. Sono processi densi di insoluti enigmi!

All’annuncio che abbiamo appreso le cose più impensate sulla formazione del Super-io, e quindi sull’origine della coscienza morale, voi non vi accontenterete di certo di parole vaghe. Seguendo il noto detto di Kant,129 che accosta la coscienza morale dentro di noi al cielo stellato, un essere pio potrebbe volgersi a venerare queste due cose come i capolavori della creazione. Le stelle sono magnifiche, ma, per quanto riguarda la coscienza morale, Dio ha compiuto un lavoro disuguale e mal fatto, poiché la grande maggioranza degli uomini ne ha ricevuta soltanto una quantità modesta o addirittura talmente esigua che non vale la pena di parlarne. Noi non disconosciamo affatto la parte di verità psicologica che è contenuta nell’affermazione che la coscienza morale è di origine divina, ma la tesi ha bisogno di un’interpretazione. Se pure tale coscienza è qualcosa “in noi”, non lo è fin dall’inizio. Essa si pone in diretto contrasto con la vita sessuale, la quale esiste realmente fin dall’inizio della vita e non sopravviene solo più tardi. Per contro il bambino piccolo è notoriamente amorale, non ha alcuna inibizione interiore contro i propri impulsi che anelano al piacere. La funzione che più tardi assume il Super-io viene dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei genitori. I genitori esercitano il loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d’amore e la minaccia di castighi; questi ultimi dimostrano al bambino la perdita dell’amore e sono quindi temuti per se stessi. Questa angoscia reale precorre la futura angoscia morale;130 finché essa domina, non c’è bisogno di parlare di Super-io e di coscienza morale. Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria – che noi siamo troppo disposti a ritenere quella normale – in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-io, il quale ora osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino.

Il Super-io, che in tal modo assume il potere, la funzione e persino i metodi dell’istanza parentale, non ne è però soltanto il successore legale, ma realmente il legittimo erede naturale. Il Super-io deriva direttamente dall’istanza parentale, e apprenderemo presto attraverso quale processo. Dapprima, tuttavia, dobbiamo soffermarci su una discordanza fra i due. Il Super-io sembra aver preso, con una scelta unilaterale, solo il rigore e la severità dei genitori, la loro funzione proibitrice e punitiva, mentre la loro sollecitudine e il loro amore non vengono ripresi e continuati. Se i genitori hanno applicato realmente un regime di severità, diventa facilmente comprensibile che anche nel bambino si sviluppi un Super-io severo; tuttavia l’esperienza mostra, contrariamente alle nostre aspettative, che il Super-io può acquistare lo stesso un carattere di inesorabile rigore anche se l’educazione era stata indulgente e benevola e aveva evitato il più possibile minacce e castighi. Ritorneremo più avanti [alla fine della lezione 32] su questa contraddizione, quando ci occuperemo delle trasformazioni pulsionali durante la formazione del Super-io.

Sulla metamorfosi della relazione parentale in Super-io non posso dirvi tutto quello che vorrei, in parte perché questo processo è talmente intricato che la sua esposizione non rientra nell’ambito di un’introduzione come questa vuol essere, in parte perché noi stessi non siamo sicuri di averlo pienamente compreso. Accontentatevi dunque dei seguenti accenni.

Fondamento di tale processo è la cosiddetta “identificazione”, cioè l’assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé. Non inopportunamente l’identificazione è stata paragonata all’incorporazione orale, cannibalesca, della persona estranea. L’identificazione è una forma molto importante di legame con un’altra persona, verosimilmente la più primitiva, e non è la stessa cosa di una scelta oggettuale. La differenza può essere espressa all’incirca così: se il fanciullo si identifica col padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa oggetto della sua scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso il suo Io viene modificato secondo il modello del padre, nel secondo caso ciò non è necessario. Identificazione e scelta oggettuale sono in larga misura indipendenti; ci si può tuttavia identificare anche con una persona che, ad esempio, è stata assunta come oggetto sessuale, e modificare secondo essa il proprio Io. È opinione comune che l’oggetto sessuale eserciti un potente influsso sull’Io con particolare frequenza nelle donne e che questo sia un tratto caratteristico della femminilità. Di tutte le relazioni fra identificazione e scelta oggettuale, ve n’è una che è di gran lunga la più istruttiva e di cui devo avervi già parlato una volta nelle precedenti lezioni. Può essere osservata facilmente nei bambini e negli adulti, nelle persone normali e nei malati. Quando si è perso l’oggetto o si è dovuto abbandonarlo, si trova abbastanza spesso una compensazione identificandosi con lui, erigendolo nuovamente nel proprio Io, così che in questo caso la scelta oggettuale regredisce, per così dire, all’identificazione.131

Io stesso non sono completamente soddisfatto di questi accenni al problema dell’identificazione, ma essi non saranno stati vani se siete disposti a concedermi che l’insediamento del Super-io può essere descritto come un caso ben riuscito di identificazione con l’istanza parentale. Ciò che decide in favore di tale interpretazione è il fatto seguente: questa neocreazione di un’istanza superiore nell’Io è strettamente vincolata alla sorte del complesso edipico, talché il Super-io appare come l’erede di questo legame emotivo così importante per l’infanzia. Col venir meno del complesso edipico, il bambino ha dovuto ovviamente rinunciare agli intensi investimenti oggettuali che aveva concentrato sui genitori, e come risarcimento per questa perdita oggettuale vengono ora oltremodo rafforzate le identificazioni con i genitori probabilmente già presenti da molto tempo nel suo Io. Tali identificazioni, in quanto sedimenti di investimenti oggettuali abbandonati, si riprodurranno più tardi abbastanza spesso nella vita del bambino; comunque è pienamente conforme al significato emotivo del primo verificarsi di tale trasformazione che al suo prodotto venga riservata nell’Io una posizione speciale. L’indagine approfondita ci mostra anche che il Super-io langue e si atrofizza se il superamento del complesso edipico riesce solo in parte. Nel corso dello sviluppo, il Super-io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono subentrate al posto dei genitori, ossia educatori, insegnanti e modelli ideali. Normalmente esso si allontana sempre più dalle individualità originarie dei genitori, diventa per così dire più impersonale. Non bisogna neanche dimenticare che il bambino stima diversamente i suoi genitori in periodi diversi della vita. All’epoca in cui il complesso edipico cede il posto al Super-io, essi gli appaiono una cosa meravigliosa; più tardi scadono molto. I bambini si identificano anche con questi genitori più tardi e queste identificazioni forniscono persino, di norma, importanti contributi alla formazione del carattere, che in tal caso riguardano solo l’Io [vedi lezione 32], non influiscono più sul Super-io, il quale è stato determinato dalle primissime imagines parentali.132

Spero che sin d’ora vi siate fatti l’idea che il concetto da noi introdotto di Super-io descrive realmente un rapporto strutturale e non incarna semplicemente un’astrazione come quella della coscienza morale. Ci resta da menzionare ancora un’importante funzione che attribuiamo a questo Super-io. Esso è anche l’esponente dell’ideale dell’Io, al quale l’Io si commisura, che emula, e la cui esigenza di una sempre più ampia perfezione si sforza di adempiere. Non vi è dubbio che questo ideale dell’Io è il sedimento dell’antica immagine dei genitori, l’espressione dell’ammirazione del bambino che li considerava allora creature perfette.133

So che avete udito molto parlare del senso d’inferiorità che contraddistinguerebbe i nevrotici. Esso imperversa particolarmente nelle pagine dei letterati di grido. Uno scrittore che adopera il termine “complesso d’inferiorità” crede con ciò di dimostrare la sua dimestichezza con la psicoanalisi e di mantenere la sua descrizione su un piano psicologico assai elevato. In realtà, il termine tecnico “complesso d’inferiorità” non viene quasi impiegato in psicoanalisi. Non è un termine che abbia per noi un significato semplice, e tantomeno quindi indica qualcosa di elementare. Ricondurlo all’autopercezione di eventuali minorazioni organiche, come ama fare la scuola della cosiddetta “psicologia individuale”,134 ci sembra un errore di miopia. Il senso d’inferiorità ha forti radici erotiche. Il bambino si sente inferiore se nota che non è amato, e la stessa cosa accade all’adulto. L’unico organo davvero considerato inferiore è quel pene atrofizzato che è la clitoride della bambina.135 In verità, la parte principale del complesso d’inferiorità proviene dalla relazione dell’Io con il suo Super-io; al pari del senso di colpa, è un’espressione della tensione tra i due. Senso d’inferiorità e senso di colpa sono in genere difficilmente separabili. Forse sarebbe opportuno vedere nel primo il complemento erotico del “senso morale d’inferiorità”. La psicoanalisi ha prestato poca attenzione a questo problema della delimitazione dei concetti.

Proprio perché il complesso d’inferiorità è diventato così popolare, consentitemi di fare una piccola digressione. C’è una personalità storica del nostro tempo (che vive ancora, anche se attualmente si è ritirata fra le quinte) che, in seguito a una lesione patita al momento della nascita, soffre di una menomazione a un arto. Un notissimo scrittore dei nostri giorni, specialista in biografie di persone eminenti, si è occupato tra l’altro della vita di quest’uomo.136 Ora, per chi scrive una biografia, non è facile rinunciare al desiderio di approfondimento psicologico. Il nostro autore si è perciò buttato nel tentativo di costruire l’intero sviluppo del carattere del suo protagonista basandosi sul senso d’inferiorità che quel difetto fisico aveva dovuto suscitargli. Nel far ciò, ha trascurato un piccolo particolare, che ha la sua importanza. Accade normalmente che le madri cui è toccato in sorte un figlio malato, o altrimenti svantaggiato, cerchino di risarcirlo di questa ingiustizia con un eccesso di amore. Nel caso in questione, la madre, donna orgogliosa, si comportò diversamente, privando il figlio del proprio amore a causa di quella imperfezione. Quando questi divenne un uomo potente, dimostrò con le sue azioni in modo inequivocabile di non aver mai perdonato alla madre. Basta che riflettiate sull’importanza dell’amor materno per la vita psichica infantile, perché correggiate entro di voi la teoria dell’inferiorità avanzata dal biografo.

Torniamo al Super-io. Gli abbiamo attribuito l’autoosservazione, la coscienza morale e la funzione di ideale.137 Da quanto abbiamo esposto sulla sua origine deriva che esso ha, come premesse, un fatto biologico di importanza indicibile e un fatto psicologico denso di conseguenze, cioè la lunga dipendenza della creatura umana dai suoi genitori e il complesso edipico, fatti che a loro volta sono fra loro intimamente connessi. Il Super-io è per noi il rappresentante di tutte le restrizioni morali, l’avvocato dell’anelito alla perfezione; è, in breve, ciò che siamo riusciti a comprendere in termini psicologici degli aspetti più “elevati” della vita umana. Poiché risale essenzialmente all’influsso dei genitori, degli educatori e così via, il suo significato risulterà ancora più chiaro se ci rivolgiamo a queste sue radici. Di solito i genitori e le autorità analoghe seguono, nell’educazione del bambino, i precetti del proprio Super-io. Quale che sia l’accomodamento a cui il loro Io è giunto nei confronti del loro Super-io, essi sono severi ed esigenti nell’educazione del bambino. Hanno dimenticato le difficoltà della propria infanzia e sono contenti di potersi ora identificare pienamente con i propri genitori, che a suo tempo hanno imposto loro tante gravi limitazioni. Così, in realtà, il Super-io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione. È facile indovinare di quanto aiuto possa essere la considerazione del Super-io per comprendere il comportamento sociale degli uomini – quello della delinquenza ad esempio – e forse anche per trarne suggerimenti pratici per l’educazione. L’errore delle cosiddette concezioni materialistiche della storia consiste probabilmente proprio nella sottovalutazione di questo fattore. I fautori di queste concezioni lo ignorano, sostenendo che le “ideologie” degli uomini non sono altro che il risultato e la sovrastruttura delle condizioni economiche esistenti. In questo c’è una parte di verità, ma molto probabilmente non tutta la verità. L’umanità non vive interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e quella del popolo, che solo lentamente cedono alle influenze del presente, a nuovi cambiamenti, sopravvivono nelle ideologie del Super-io e, finché agiscono per mezzo di esso, hanno nella vita umana una parte possente che non dipende dalle condizioni economiche. [Vedi oltre, la lezione 35.]

Nel 1921 ho tentato di applicare la differenziazione tra Io e Super-io in uno studio sulla psicologia delle masse. Giunsi a una formula del genere: dal punto di vista psicologico, la massa è un’unione di singoli che hanno assunto nel loro Super-io la medesima persona e si sono identificati fra loro nel proprio Io in base a questo elemento comune.138 Naturalmente, essa vale solo per le masse che hanno un capo. Se possedessimo più esempi pratici di questo tipo, l’ipotesi del Super-io cesserebbe di apparirci sorprendente e ci libereremmo interamente di quell’imbarazzo che pure ci assale ancora quando, abituati all’atmosfera del mondo sotterraneo, ci muoviamo negli strati più superficiali, più elevati dell’apparato psichico. Ovviamente, separando il Super-io non crediamo di aver detto l’ultima parola sulla psicologia dell’Io. Si tratta piuttosto di un primo inizio, ma, in questo caso, difficile non è solo l’inizio.

Ora ci aspetta un altro problema, all’estremità opposta, per così dire, dell’Io. Esso viene posto da un’osservazione fatta durante il lavoro analitico. È un’osservazione in realtà antichissima, ma, come accade sovente, c’è voluto molto tempo prima che ci si decidesse a riconoscerne il valore. Come sapete, l’intera teoria psicoanalitica è fondata in effetti sulla percezione della resistenza che il paziente ci oppone quando tentiamo di rendergli cosciente il suo inconscio. Segno obiettivo della resistenza è che le associazioni vengono a mancare o si allontanano decisamente dal tema trattato. Il malato può anche riconoscere soggettivamente la resistenza per il fatto che prova sentimenti penosi quando si avvicina al tema. Ma quest’ultimo segno può anche non esserci. Se allora diciamo al paziente che il suo comportamento prova che è in stato di resistenza, risponde di non saperne nulla, di notare soltanto una maggior difficoltà nelle associazioni. Risulta che avevamo ragione; ma risulta anche che la sua resistenza era inconscia, altrettanto inconscia quanto il rimosso, al cui recupero noi lavoriamo. Avremmo dovuto da tempo domandarci da quale parte della sua vita psichica scaturisca una simile resistenza inconscia. Un principiante in psicoanalisi si affretterebbe a rispondere che è appunto la resistenza dell’inconscio. Risposta ambigua e inservibile! Se con ciò si intende che la resistenza scaturisce dal rimosso, replicheremo a nostra volta: certamente no! Al rimosso dobbiamo attribuire piuttosto una forte spinta ascensionale, un’urgenza di farsi strada fino alla coscienza. La resistenza può essere solo una manifestazione dell’Io, il quale a suo tempo ha eseguito la rimozione e adesso vuole mantenerla. Questa è stata sempre la nostra opinione, anche prima; ma da quando supponiamo che vi sia nell’Io una particolare istanza, il Super-io, volta a limitare e respingere, possiamo dire che la rimozione è opera di questo Super-io, che l’effettua esso stesso oppure mediante l’Io che sta ai suoi ordini. Se dunque si verifica che nell’analisi la resistenza non diviene cosciente al paziente, ciò significa o che il Super-io e l’Io in situazioni molto importanti possono operare in maniera inconscia, o – ciò che sarebbe ancor più rilevante – che l’Io e il Super-io stessi sono in qualche loro parte inconsci. In entrambi i casi non resta che prendere atto della spiacevole scoperta che (Super-)io e conscio da un lato, rimosso e inconscio dall’altro, non sono affatto coincidenti.

A questo punto, signore e signori, ho bisogno di tirare il fiato – anche voi vi sentirete sollevati – e di scusarmi prima di continuare. Mio intendimento è fornirvi alcune nozioni supplementari a un’introduzione alla psicoanalisi che ho iniziato quindici anni fa, ma sono costretto a comportarmi come se nel frattempo anche voi non vi foste occupati d’altro che di psicoanalisi. So che questa è una pretesa fuori luogo; ma non ho altra scelta, non posso far diversamente. Ciò dipende dal fatto che è molto difficile, in genere, far capire la psicoanalisi a chi non è psicoanalista. Credetemi, non ci fa affatto piacere suscitare l’impressione di essere membri di un’associazione segreta e di esercitare una scienza occulta. Eppure abbiamo dovuto convincerci, e proclamare ben alto, che nessuno ha il diritto di interloquire a proposito della psicoanalisi se non ha fatto determinate esperienze che si possono acquisire solo mediante un’analisi condotta sulla propria persona. Allorché, quindici anni fa, vi tenni le mie lezioni, cercai di risparmiarvi certi lati speculativi della nostra dottrina, ma è appunto a questi lati che si riallacciano le nuove acquisizioni teoriche di cui intendo parlarvi oggi.

Ritorno al nostro argomento. Nel dubbio se l’Io e il Super-io possano essere essi stessi inconsci o soltanto esplicare effetti inconsci, ci siamo decisi per buoni motivi a favore della prima possibilità. Sì, grandi zone dell’Io e del Super-io possono rimanere inconsce, e normalmente sono inconsce. Ciò significa che la persona non sa nulla dei loro contenuti e bisogna fare un certo sforzo per renderglieli coscienti. È un fatto che Io e conscio, rimosso e inconscio non coincidono. Sentiamo il bisogno di rivedere radicalmente la nostra posizione riguardo al problema conscio-inconscio. A tutta prima saremmo inclini a ridurre di molto il valore del criterio di consapevolezza, essendosi esso dimostrato così poco affidabile. Ma avremmo torto. È come la nostra vita: non vale molto, ma è tutto ciò che abbiamo. Senza il faro della qualità dell’esser cosciente noi saremmo perduti nella tenebra della psicologia del profondo;139 ma possiamo cercare di trovare un nuovo orientamento.

Su ciò che si deve chiamare conscio non abbiamo bisogno di discutere, poiché non v’è motivo di dubbio. Il più antico e il migliore significato del termine “inconscio” è quello descrittivo; chiamiamo inconscio un processo psichico di cui dobbiamo supporre l’esistenza – per esempio perché la deduciamo dai suoi effetti – ma del quale non sappiamo nulla. La nostra relazione con questo processo è la stessa che abbiamo con un processo psichico che ha luogo in un altro uomo, salvo che è, appunto, nostro. Volendo esprimerci ancora più correttamente, modificheremo la proposizione nel senso che chiameremo inconscio un processo quando dobbiamo supporre che al momento sia in atto, benché, al momento, non ne sappiamo nulla. Questa precisazione ci fa pensare che la maggior parte dei processi consci siano consci solo per breve tempo; ben presto diventano latenti, ma possono facilmente ridiventare coscienti. Potremmo anche dire che sono diventati inconsci, se fosse del tutto certo che allo stato di latenza essi sono ancora alcunché di psichico.

Fin qui non avremmo appreso nulla di nuovo, né avremmo acquistato il diritto di introdurre nella psicologia il concetto di inconscio. Ma poi sopraggiunge la nuova esperienza, di cui un primo esempio sono gli atti mancati. Per spiegare, ad esempio, un lapsus verbale, ci vediamo costretti a supporre che quella data persona avesse avuto l’intenzione di dire una certa cosa. Lo indoviniamo con certezza dall’avvenuta perturbazione nel discorso; ma l’intenzione non si era fatta valere, dunque era inconscia. Se in seguito la dimostriamo all’autore del lapsus, egli può riconoscerla come cosa familiare (nel qual caso essa era inconscia solo temporaneamente), oppure rinnegarla come estranea (nel qual caso essa era permanentemente inconscia).140 Rifacendoci a questa esperienza, ci arroghiamo il diritto di dichiarare inconscio anche ciò che abbiamo designato come latente.

La considerazione di questi rapporti dinamici ci permette adesso di distinguere due specie di inconscio: uno, che si trasforma facilmente in conscio, in condizioni spesso ricorrenti, e un altro, per il quale questa conversione avviene difficilmente, solo in seguito a un notevole sforzo, e forse non avviene mai. Per sfuggire all’ambiguità – se intendiamo, cioè, riferirci all’uno o all’altro inconscio, se usiamo il termine nel senso descrittivo o in quello dinamico – noi adottiamo un espediente che è insieme semplice e lecito. Chiamiamo “preconscio” quell’inconscio che è solo latente, e quindi diventa facilmente conscio, e riserviamo all’altro la designazione di “inconscio”. Abbiamo ora tre termini: “conscio”, “preconscio” e “inconscio”, con i quali possiamo destreggiarci nella descrizione dei fenomeni psichici. Ripetiamolo ancora una volta: in senso puramente descrittivo anche il preconscio è inconscio, ma noi non lo designiamo così, tranne che in un’esposizione non rigorosa o quando dobbiamo difendere l’esistenza dei processi inconsci in genere nella vita psichica.

Mi concederete, spero, che finora tutto fila liscio e ci dà il modo di muoverci comodamente. Sì, ma purtroppo il lavoro psicoanalitico ci costrinse in passato a impiegare la parola “inconscio” in un altro senso ancora, che era il terzo, e senza dubbio questo può aver creato confusione. Quando in noi era nuova e forte l’impressione che un ampio e importante campo della vita psichica è normalmente sottratto alla conoscenza dell’Io, così che i processi ivi svolgentisi devono essere considerati inconsci nel vero senso dinamico, intendemmo il termine “inconscio” anche in un senso topico o sistematico; parlammo di un “sistema” del preconscio e di un “sistema” dell’inconscio, di un conflitto dell’Io con il sistema Inc; facemmo sì che la parola denotasse sempre più una provincia psichica piuttosto che una qualità dello psichico. A questo punto la scoperta, in effetti scomoda, che anche zone dell’Io e del Super-io sono inconsce nel senso dinamico costituisce per noi un’agevolazione, ci permette di eliminare una complicazione. Ci accorgiamo che non abbiamo il diritto di chiamare “sistema Inc” il territorio psichico estraneo all’Io, poiché il carattere di essere inconscio non è esclusivo ad esso. Sta bene, allora non useremo più il termine “inconscio” nel senso sistematico, ma daremo a quanto finora abbiamo così designato un nome migliore, che non si presti più a malintesi. Adeguandoci all’uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Groddeck,141 lo chiameremo d’ora in poi “Es”. Questo pronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all’Io. Super-io, Io ed Es sono dunque i tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l’apparato psichico della persona, e delle cui reciproche relazioni ci occuperemo in quanto segue.

Prima, soltanto una breve parentesi. Suppongo che siate scontenti del fatto che le tre qualità della consapevolezza e le tre province dell’apparato psichico non si siano combinate in tre pacifiche coppie e che vediate in ciò qualcosa che offusca in certo modo i nostri risultati. A mio parere, però, non dovremmo rammaricarcene, ma dirci che non avevamo allora diritto a procedere a una ripartizione così netta. Consentitemi di addurre un paragone (è vero che i paragoni non risolvono nulla, ma possono far sì che ci si senta più a proprio agio). Immagino un paese con una conformazione del suolo varia – terreno collinoso, pianura e una catena di laghi – e con popolazione mista: vi abitano tedeschi magiari e slovacchi, i quali per di più svolgono attività diverse. Ora, la ripartizione potrebbe essere tale per cui i tedeschi, che sono allevatori di bestiame, abitino nel territorio collinoso, i magiari, che coltivano i cereali e la vite, in quello pianeggiante, e gli slovacchi, che praticano la pesca e intrecciano vimini, sui laghi. Se questa ripartizione corrispondesse a un taglio netto, un Wilson142 ne sarebbe deliziato, e pensate come sarebbe comodo a scuola per l’ora di geografia. È verosimile invece che, se vi mettete in viaggio per la regione, troviate meno ordine e più mescolanza. Tedeschi magiari e slovacchi vivono sparsi ovunque; nel territorio collinoso vi sono pure campi coltivati e anche in pianura viene allevato bestiame. Alcune cose, naturalmente, sono tali e quali ve le siete aspettate, giacché sui monti non si trovano pesci e nell’acqua non cresce vino. In conclusione, l’immagine del paese che vi siete portata appresso può corrispondere nell’insieme; nei dettagli dovrete tollerare alcune discordanze.

A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia da comunicarvi molto di nuovo sull’Es. È la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il poco che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e della formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere solo per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali,143 i quali trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica, non sappiamo però in quale substrato. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt’al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare energia, convergono in formazioni di compromesso. Non vi è nulla nell’Es che si possa paragonare alla negazione, e si osserva pure con sorpresa un’eccezione all’assioma dei filosofi che spazio e tempo sono forme necessarie dei nostri atti mentali.144 Nulla si trova nell’Es che corrisponda all’idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e – cosa notevolissima e che attende un’esatta valutazione filosofica – nessun’alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere del tempo.145 Impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state sprofondate nell’Es dalla rimozione, sono virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti mediante il lavoro analitico, essi possono esser riconosciuti come passato, esser svalutati e privati del loro investimento energetico; anzi su ciò si fonda, e non in minima parte, l’effetto terapeutico del trattamento analitico.

Ho costantemente l’impressione che da questo fatto accertato al di là di ogni dubbio dell’inalterabilità del rimosso ad opera del tempo, noi abbiamo tratto troppo poco profitto per la nostra teoria. Eppure qui sembra aprirsi un varco capace di farci accedere alle massime profondità. Purtroppo nemmeno io sono andato oltre su questo punto.

Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro. Sembra persino che l’energia di questi moti pulsionali si trovi in uno stato diverso che nelle altre sfere psichiche, che sia assai più mobile e idonea alla scarica;146 altrimenti, infatti, non avrebbero luogo quegli spostamenti e quelle condensazioni che sono caratteristici dell’Es e che prescindono così totalmente dalla qualità di ciò che è investito (di ciò che nell’Io chiameremmo una rappresentazione). Cosa daremmo per poter comprendere meglio queste cose! Vedete, comunque, che siamo in grado di indicare anche altre proprietà dell’Es oltre a quella di essere inconscio, e che è possibile che parti dell’Io e del Super-io siano inconsce senza condividere i caratteri primitivi e irrazionali dell’Es.147

Giungiamo più rapidamente a una caratterizzazione dell’Io vero e proprio – per quanto esso si lascia distinguere dall’Es e dal Super-io – esaminando la sua relazione con la parte più esterna, superficiale, dell’apparato psichico, che noi designiamo come sistema P-C [percettivo-cosciente]. Questo sistema è rivolto verso il mondo esterno, fa da intermediario alle percezioni che ne provengono, e in esso sorge, nel corso del suo funzionamento, il fenomeno della coscienza. È l’organo sensorio dell’intero apparato, ricettivo del resto non solo agli eccitamenti provenienti dall’esterno, ma anche a quelli che provengono dall’interno della vita psichica. La concezione secondo cui l’Io è quella parte dell’Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall’influsso del mondo esterno non ha quasi bisogno di essere giustificata: è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione dagli stessi, paragonabile allo strato corticale di cui si circonda il grumo di materia vivente. Il rapporto con il mondo esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l’Es; fortunatamente per l’Es, il quale, incurante di questa preponderante forza esterna, e anelando ciecamente al soddisfacimento pulsionale, non sfuggirebbe all’annientamento. Nell’adempiere tale funzione, l’Io deve osservare il mondo esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante l’esercizio dell’“esame di realtà”,148 ciò che in questa immagine del mondo esterno è un’aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento. Per incarico dell’Es, l’Io domina gli accessi alla motilità, ma ha inserito tra bisogno e azione la dilazione dell’attività di pensiero,149 durante la quale utilizza i residui mnestici dell’esperienza. In tal modo ha detronizzato il principio di piacere da cui il decorso dei processi dell’Es è integralmente dominato e l’ha sostituito con il principio di realtà, che promette più sicurezza e maggior successo.

Anche il rapporto con il tempo, così difficile da descrivere, è reso possibile all’Io tramite il sistema percettivo; è quasi fuori dubbio che il modo di operare di questo sistema sta all’origine della rappresentazione del tempo.150 Ciò che però caratterizza l’Io in modo del tutto particolare, differenziandolo dall’Es, è una tendenza a sintetizzare i propri contenuti, a riassumere e unificare i propri processi psichici, tendenza che manca completamente all’Es. Quando prossimamente tratteremo delle pulsioni nella vita psichica, riusciremo, almeno spero, a ricondurre alla sua fonte questo carattere essenziale dell’Io.151 Questo carattere soltanto produce quell’alto grado di organizzazione di cui l’Io ha bisogno nelle sue prestazioni più alte. L’Io evolve dalla percezione delle pulsioni alla loro padronanza, ma quest’ultima viene raggiunta soltanto se la rappresentanza [psichica] delle pulsioni152 è inquadrata in un’unità più ampia, inclusa in un contesto coerente. Per dirla alla buona, l’Io è il paladino, nella vita psichica, della ragione e dell’avvedutezza, l’Es rappresenta invece le passioni sfrenate.

Finora ci siamo lasciati impressionare dai molti meriti e dalle facoltà dell’Io, ma è tempo di guardare anche al rovescio della medaglia. L’Io, in fin dei conti, è soltanto una parte dell’Es, una parte opportunamente modificata dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno. Sotto l’aspetto dinamico è debole, avendo preso a prestito le sue energie dall’Es, e non ci sfuggono i metodi – i “trucchi”, si potrebbe dire – con i quali l’Io sottrae all’Es ulteriori importi di energia. Uno di tali metodi è, per esempio, l’identificazione con oggetti, siano essi ancora presenti o abbandonati da tempo. Gli investimenti oggettuali derivano dalle pretese pulsionali dell’Es. L’Io deve in primo luogo registrarle. Ma, nell’identificarsi con l’oggetto, si raccomanda all’Es al posto di quello, mirando ad attirare su di sé la libido dell’Es. Abbiamo già visto che nel corso della vita l’Io accoglie in sé un gran numero di tali sedimenti di passati investimenti oggettuali. Insomma l’Io deve eseguire le intenzioni dell’Es, e assolve il suo compito andando alla ricerca delle circostanze che gli permettono di meglio eseguire tali intenzioni. Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là dove quello ha scelto di andare.

C’è una parte dell’Es da cui l’Io si è separato per le resistenze della rimozione. Ma la rimozione non penetra ulteriormente nell’Es: il rimosso confluisce con la parte rimanente dell’Es.

Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: è costretto a servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di mettere d’accordo le loro esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre fra loro discordanti e appaiono spesso del tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce così frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es. Se si seguono gli sforzi cui è costretto l’Io per soddisfarli contemporaneamente, o meglio, per ubbidire ad essi contemporaneamente, non ci parrà fuori luogo avere personificato questo Io, averlo presentato come un essere a sé stante. Il poveretto si sente stretto da tre parti, minacciato da tre specie di pericoli, ai quali reagisce, in caso estremo, sviluppando angoscia. L’Io, data la sua origine dalle esperienze del sistema percettivo, è destinato a rappresentare le richieste del mondo esterno, ma al tempo stesso vuole essere il fedele servitore dell’Es, rimanere con l’Es in buona armonia, raccomandarglisi quale oggetto e attirarne su di sé la libido. Nel suo sforzo di fare da intermediario fra l’Es e la realtà, l’Io è spesso costretto a rivestire i comandi inc dell’Es con le proprie razionalizzazioni prec, a occultare i conflitti dell’Es con la realtà, a far credere, con diplomatica ipocrisia, di aver preso in considerazione la realtà anche quando l’Es è rimasto rigido e inflessibile. Dall’altro canto, viene osservato passo per passo dal severo Super-io, che, senza tener conto delle difficoltà provenienti dall’Es e dal mondo esterno, esige l’ottemperanza a determinate norme di comportamento, e punisce l’Io, in caso di inadempienza, con spasmodici sentimenti di inferiorità e di colpa. Aizzato così dall’Es, limitato dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e si comprende perché tanto spesso non riusciamo a reprimere l’esclamazione: “La vita non è facile!” Se è costretto ad ammettere le sue debolezze, l’Io prorompe in angoscia: angoscia reale dinanzi al mondo esterno, angoscia morale dinanzi al Super-io, angoscia nevrotica dinanzi alla forza delle passioni dell’Es.

Desidero illustrarvi i rapporti strutturali della personalità psichica che ho testé esposto in uno schizzo senza pretese che vi sottopongo.153

Schema

Come vedete, il Super-io affonda nell’Es; quale erede del complesso edipico ha infatti intime connessioni con lui; è più distante dal sistema percettivo di quanto lo sia l’Io. L’Es ha contatti con il mondo esterno solo attraverso l’Io, perlomeno in questo schema. Oggi è certamente difficile dire fino a che punto il disegno sia esatto. In un punto non lo è di certo: lo spazio che occupa l’Es inconscio dovrebbe essere incomparabilmente più grande di quello dell’Io o del preconscio. Vi prego di correggerlo voi mentalmente.

E ora, per concludere questa esposizione certamente faticosa e forse poco illuminante, ancora un avvertimento! In questa suddivisione della personalità in Io, Super-io ed Es, non dovete certo pensare a confini netti, come quelli tracciati artificialmente dalla geografia politica. I contorni lineari, come quelli del nostro disegno o della pittura primitiva, non sono in grado di rendere la natura dello psichico; servirebbero piuttosto aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come si trovano nella pittura moderna. Dopo aver distinto, dobbiamo lasciar confluire di nuovo assieme quanto è stato separato. Non siate troppo severi nel giudicare un primo tentativo di dare una raffigurazione visiva a qualcosa di così difficile da afferrare com’è lo psichico. È molto probabile che sviluppando queste distinzioni in persone diverse si vada incontro a grandi variazioni; è possibile che durante il loro stesso funzionamento esse subiscano modificazioni e temporanee recessioni. In particolare, per quella che filogeneticamente è l’ultima e la più delicata, la differenziazione fra l’Io e il Super-io, sembra valere qualcosa del genere. È indubbio che lo stesso effetto può essere provocato da malattia psichica. Ci è anche facile immaginare che certe pratiche mistiche possano riuscire a rovesciare i normali rapporti fra i singoli territori della psiche, così che, per esempio, la percezione sia in grado di cogliere eventi profondamente radicati nell’Io o nell’Es, che le sarebbero stati altrimenti inaccessibili. Che per questa via si possa giungere in possesso della sapienza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è lecito dubitare. Tuttavia bisogna ammettere che gli sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea in parte analoga. La loro intenzione è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es.154 Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee.

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