Lezione 17
Il senso dei sintomi
Signore e signori, nella lezione precedente vi ho spiegato che la psichiatria clinica si cura poco della forma esteriore e del contenuto del singolo sintomo, e che la psicoanalisi è partita invece proprio da lì e ha stabilito innanzitutto che il sintomo è dotato di senso ed è connesso con l’esperienza vissuta del paziente. Il significato dei sintomi nevrotici fu scoperto per la prima volta da Josef Breuer attraverso lo studio e la felice guarigione di un caso di isteria (1880-82), divenuto da allora famoso.505 Va detto che Pierre Janet ha fornito, in modo indipendente, la medesima dimostrazione; al ricercatore francese spetta persino la priorità di pubblicazione, poiché Breuer ha pubblicato la propria osservazione solo più di un decennio dopo (1893-95), durante la sua collaborazione con me. Del resto, può esserci abbastanza indifferente da chi provenga questa scoperta, poiché, come sapete, ogni scoperta viene fatta più di una volta e mai tutta quanta insieme; e, a parte questo, il successo non va di pari passo con il merito. L’America non ha preso il nome da Colombo. Prima di Breuer e di Janet il grande psichiatra Leuret506 aveva già espresso l’opinione che doveva essere possibile trovare un senso perfino nei deliri dei malati di mente, purché si riuscisse a tradurli. Confesso che per lungo tempo fui disposto a riconoscere i grandi meriti di Janet per la spiegazione dei sintomi nevrotici, perché egli li concepiva come manifestazioni di idées inconscientes che dominano gli ammalati.507 Dopo d’allora però Janet si è espresso con eccessiva cautela, quasi volesse far intendere che l’inconscio non è per lui nient’altro che un modo di dire, un espediente, une façon de parler, che, nominandolo, non ha pensato a nulla di reale.508 Da allora non comprendo più le argomentazioni di Janet, ma ritengo che egli abbia inutilmente rinunciato a buona parte del suo merito.
I sintomi nevrotici hanno dunque un loro senso, come gli atti mancati, come i sogni, e al pari di questi hanno un nesso con la vita delle persone che li manifestano. Vorrei ora farvi comprendere meglio, mediante alcuni esempi, questa importante scoperta. Che le cose stiano così sempre e in tutti i casi posso solo sostenerlo, non dimostrarlo. Chiunque vorrà mettersi sulle tracce di esperienze in merito, potrà convincersene. Tuttavia, per certe ragioni, non attingerò questi esempi dall’isteria, ma da un’altra singolarissima nevrosi ad essa sostanzialmente molto vicina, sulla quale ho da dirvi alcune parole introduttive.
Questa nevrosi, la cosiddetta nevrosi ossessiva, non è così popolare come la notissima isteria; non è, se così posso esprimermi, altrettanto invadente e chiassosa, si comporta più come una faccenda privata dell’ammalato, rinuncia quasi completamente a manifestazioni somatiche e produce tutti i suoi sintomi nell’ambito psichico. La nevrosi ossessiva e l’isteria sono le forme di malattia nevrotica sul cui studio si è basata in un primo tempo la psicoanalisi, e nel cui trattamento, inoltre, la nostra terapia celebra i suoi trionfi. Ma la nevrosi ossessiva, alla quale manca quell’enigmatico salto dallo psichico al somatico, ci è in effetti divenuta, grazie agli sforzi della psicoanalisi, più trasparente e più familiare dell’isteria, e abbiamo rilevato che essa mette in evidenza, in forma di gran lunga più spiccata, determinate caratteristiche estreme della natura delle nevrosi.
La nevrosi ossessiva si manifesta in questi modi: gli ammalati sono assorbiti da pensieri per i quali in effetti non hanno interesse, avvertono in sé impulsi che appaiono loro stranissimi, e sono indotti ad azioni il cui compimento non procura loro alcuna gioia, ma la cui omissione riesce loro assolutamente impossibile. I pensieri (rappresentazioni ossessive) possono essere in sé privi di senso, oppure soltanto indifferenti per il malato; spesso sono completamente sciocchi, e in tutti i casi sono l’esito di una estenuante attività mentale, che prostra l’ammalato e alla quale egli si dedica assai malvolentieri. Contro la sua volontà, egli è costretto a rimuginare e a lambiccarsi il cervello, come se questo fosse il compito più importante della sua vita. Gli impulsi che l’ammalato avverte in sé possono anche apparire infantili e assurdi; ma perlopiù hanno un contenuto quanto mai terrificante, per esempio tentazioni a commettere gravi delitti, così che l’ammalato non solo li rinnega come estranei, ma fugge atterrito dinanzi ad essi e cerca di salvaguardarsi dalla loro esecuzione con divieti, rinunce e limitazioni della propria libertà. Con ciò gli impulsi non giungono mai, nemmeno una volta sola, fino all’esecuzione; finisce sempre che fuga e cautele hanno la meglio. Ciò che l’ammalato esegue realmente – le cosiddette azioni ossessive – è molto innocuo, certamente insignificante; si tratta perlopiù di ripetizioni, complicazioni cerimoniali di attività della vita ordinaria, ma attraverso le quali certe operazioni necessarie come l’andare a letto, il lavarsi, il vestirsi, l’andare a passeggio, diventano compiti estremamente lunghi e quasi irrisolvibili. Le rappresentazioni, gli impulsi e le azioni morbose non si combinano affatto nelle medesime proporzioni in ogni singola forma e caso di nevrosi ossessiva; al contrario, vige la regola che l’uno o l’altro di questi fattori domini il quadro e dia il nome alla malattia; tuttavia ciò che accomuna tutte queste forme è sufficientemente inconfondibile.
È questa certamente una pazza malattia. Credo che la più sbrigliata fantasia psichiatrica non sarebbe riuscita a costruire qualcosa di simile, e se non si potesse averla sott’occhio tutti i giorni nessuno si risolverebbe a crederci. Tuttavia non pensate di giovare in alcun modo all’ammalato esortandolo a cambiare strada, a non occuparsi più dei suoi sciocchi pensieri e a fare qualcosa di sensato invece di quei giochetti. Anche lui lo vorrebbe, poiché capisce perfettamente, condivide il vostro giudizio sui suoi sintomi ossessivi, anzi è lui ad anticiparvelo. Soltanto che non può fare altrimenti; ciò che è posto in atto nella nevrosi ossessiva è sostenuto da un’energia per la quale ci manca probabilmente ogni termine di paragone nella vita psichica normale. L’unica cosa che può fare è spostare, scambiare, al posto di un’idea sciocca metterne un’altra in qualche modo attenuata, procedere da una precauzione o proibizione a un’altra, al posto di un cerimoniale eseguirne uno diverso. Può spostare la coazione, ma non eliminarla. La possibilità di spostare tutti i sintomi, rendendoli molto diversi da come si configuravano originariamente è un carattere fondamentale della sua malattia. Inoltre appare con evidenza che nel suo stato i contrari (polarità) dei quali è intessuta la vita psichica [vedi lez. 19, in OSF, vol. 8] emergono differenziati in modo particolarmente netto. Accanto alla coazione a contenuto positivo o negativo, nel campo intellettuale s’insinua il dubbio che a poco a poco corrode anche ciò che abitualmente è più certo. Il tutto sfocia in una sempre crescente indecisione, mancanza di energia, limitazione della libertà. Eppure il nevrotico ossessivo era in origine un carattere tendenzialmente molto energico, spesso straordinariamente volitivo, e di regola intellettualmente dotato al di sopra della media. Perlopiù ha raggiunto un soddisfacente livello di sviluppo etico, è iperscrupoloso, corretto più dell’ordinario. Potete immaginarvi come occorra un bel po’ di lavoro prima di raccapezzarsi passabilmente in questa babele contraddittoria di tratti caratteriali e sintomi morbosi. Per ora non aspiriamo ad altro che a comprendere e a interpretare alcuni sintomi di questa malattia.
Forse, nel quadro delle nostre discussioni, vorrete prima sapere qual è l’atteggiamento della psichiatria contemporanea verso i problemi della nevrosi ossessiva. Si tratta però di un ben misero argomento. La psichiatria dà un nome alle diverse ossessioni, ma non dice nient’altro su di esse. In compenso, sottolinea il fatto che coloro che presentano tali sintomi sono dei “degenerati”. È una magra soddisfazione; in effetti questo è un giudizio di valore, una condanna invece che una spiegazione. È come se ci venisse chiesto di pensare che negli individui che escono dalla normalità compaiono appunto ogni sorta di stranezze. Ora, siamo d’accordo che le persone che sviluppano tali sintomi debbano per natura essere un po’ diverse dagli altri uomini. Ma vorremmo domandare: sono essi più “degenerati” di altri nervosi, per esempio degli isterici o degli psicotici? Ancora una volta la caratterizzazione è evidentemente troppo generica. Anzi, si può dubitare persino che sia giustificata, quando vediamo che questi sintomi compaiono anche in uomini eminenti, di capacità particolarmente elevate e importanti per la collettività. Di solito, grazie alla loro discrezione e alla inattendibilità dei loro biografi, veniamo a sapere ben poco di intimo sui grandi uomini che costituiscono i nostri modelli; tuttavia può accadere che uno di essi sia un vero fanatico della verità, come Émile Zola, e in tal caso apprendiamo da lui di quante singolari abitudini ossessive abbia sofferto nella sua vita.509
La psichiatria ha escogitato qui la scappatoia di parlare di dégénérés supérieurs. Sia pure, ma attraverso la psicoanalisi noi abbiamo fatto l’esperienza che questi strani sintomi ossessivi possono essere eliminati durevolmente, non meno di altri mali e anche in altri uomini che degenerati non sono. Io stesso ci sono riuscito più di una volta.510
Voglio comunicarvi solo due esempi di analisi di un sintomo ossessivo: il primo è tratto da una vecchia osservazione e non saprei sostituirlo con uno migliore; del secondo sono invece venuto in possesso recentemente. Mi limito a un numero così esiguo, poiché in una simile esposizione bisogna per forza essere molto circostanziati e addentrarsi in tutti i dettagli.
Una signora vicina ai trent’anni, che soffriva delle più gravi manifestazioni ossessive e che forse avrei potuto aiutare se un caso maligno non avesse reso vano il mio lavoro – forse ve ne parlerò ancora –, durante il giorno eseguiva più volte, tra le altre, una singolare azione ossessiva. Correva dalla sua camera in una camera attigua, lì si metteva in un certo posto presso il tavolo che era al centro, suonava alla cameriera, le dava un incarico qualsiasi o la lasciava andare senza dirle niente e quindi correva nuovamente indietro. Ebbene, pur non essendo questo certamente un grave sintomo di sofferenza, suscitò non a torto la nostra curiosità. La spiegazione si presentò in modo indubbio e ineccepibile, senz’ombra di concorso del medico. Non so infatti come mi sarebbe stato possibile pervenire a una supposizione qualsiasi o a una proposta di interpretazione circa il senso di questa azione ossessiva. Ogni volta che avevo chiesto alla paziente: “Perché fa questo? Che senso ha?”, essa aveva risposto: “Non lo so.” Ma un giorno, dopo che ero riuscito a debellare una enorme e fondamentale sua perplessità, improvvisamente le balenò la risposta e raccontò quanto si connetteva all’azione ossessiva. Più di dieci anni prima aveva sposato un uomo di gran lunga più anziano di lei, il quale durante la prima notte di nozze si era rivelato impotente. Era corso, quella notte, innumerevoli volte dalla propria camera in quella di lei, per ripetere il tentativo, ma ogni volta senza successo. Al mattino aveva detto indispettito: “C’è da vergognarsi davanti alla cameriera, quando rifarà il letto”; e aveva afferrato una bottiglia di inchiostro rosso, che si trovava per caso nella camera, ne aveva versato il contenuto sul lenzuolo, ma non proprio nel posto in cui tale macchia avrebbe dovuto trovarsi. All’inizio non capivo che cosa questo ricordo avesse a che fare con l’azione ossessiva in questione, poiché trovavo una concordanza soltanto nel ripetuto correre da una stanza all’altra e forse anche nella comparsa della cameriera. Allora la paziente mi condusse al tavolo che si trovava nella seconda stanza e mi fece vedere una grande macchia sulla tovaglia. Spiegò anche che si metteva presso il tavolo in una posizione tale che la ragazza accorsa non poteva non vedere la macchia. Ora non c’erano più dubbi sulla stretta relazione tra la scena successiva alla notte nuziale e l’attuale azione ossessiva, anche se restavano da imparare ancora parecchie cose.
Risulta evidente innanzitutto che la paziente si identifica con suo marito; ne recita la parte imitando il suo correre da una stanza all’altra. Poi, per continuare il confronto, è da rilevare che essa sostituisce il letto e il lenzuolo con il tavolo e la tovaglia. Ciò potrebbe sembrare arbitrario, ma non per niente abbiamo studiato il simbolismo onirico: anche in sogno compare molto spesso un tavolo che va interpretato come letto; il tavolo e il letto insieme rappresentano il matrimonio, ragion per cui l’uno sta facilmente per l’altro.
La dimostrazione che l’azione ossessiva della signora ha un senso l’avremmo già: essa sembra essere una raffigurazione, una ripetizione di quell’altra scena significativa. Ma nulla ci obbliga a fermarci a questa apparenza; se indaghiamo più dettagliatamente la relazione tra le due scene, probabilmente otteniamo chiarimenti su qualcosa che va più in là, sul proposito dell’azione ossessiva. Il suo nocciolo è palesemente la chiamata della cameriera, sotto i cui occhi la signora mette la macchia, in contrapposto all’osservazione del marito che ci sarebbe da vergognarsi di fronte alla cameriera. Dunque il marito, la cui parte essa impersona, non ha di che vergognarsi di fronte alla cameriera e di conseguenza la macchia è al posto giusto. Vediamo quindi che essa non ha semplicemente ripetuto la scena, ma l’ha proseguita correggendola, rettificandola. Ma, nel far ciò, corregge anche l’altro aspetto che quella notte fu così penoso e rese necessario l’espediente dell’inchiostro rosso, l’impotenza. L’azione ossessiva dice dunque: “No, non è vero, egli non aveva da vergognarsi di fronte alla cameriera, non era impotente”; l’azione, alla maniera di un sogno, rappresenta questo desiderio come appagato nel presente, serve alla tendenza di innalzare il marito al di sopra dello scacco subito in passato.
Con ciò si accorda tutto quanto potrei ancora raccontarvi a proposito di questa signora, o, più precisamente, tutto quanto sappiamo ancora di lei indica che questa interpretazione dell’azione ossessiva, di per sé incomprensibile, è quella giusta. Da anni la donna vive separata dal marito e lotta con il proposito di ottenere lo scioglimento legale del matrimonio. Ma in realtà non si è affatto liberata di lui: è costretta a rimanergli fedele, si ritira completamente dal mondo per non cadere in tentazione, scusa ed eleva nella sua fantasia la natura del marito. Anzi, il segreto più profondo della sua malattia è che grazie ad essa la paziente protegge il marito dalle maldicenze, giustifica la loro separazione materiale e consente a lui di condurre una comoda vita per conto suo. Così l’analisi di un’innocua azione ossessiva conduce direttamente al nocciolo di una malattia, ma nello stesso tempo ci rivela una parte non trascurabile del segreto della nevrosi ossessiva in generale. Vi intrattengo volentieri su questo esempio poiché in esso si trovano riunite diverse condizioni che non sempre possiamo pretendere di riscontrare. L’interpretazione del sintomo fu qui trovata dalla paziente tutt’a un tratto, senza la guida o l’intervento dell’analista, e fu compiuta mediante il riferimento a un episodio che non apparteneva, come accade di solito, a un periodo dimenticato dell’infanzia, ma che si era verificato nell’età matura dell’ammalata e si era serbato indelebile nel suo ricordo. Tutte le obiezioni che normalmente la critica è solita muovere contro le nostre interpretazioni di sintomi non fanno presa in questo caso specifico. Ma è ovvio che non sempre possiamo essere così fortunati.511
Una cosa ancora. Non vi siete accorti come questa insignificante azione ossessiva ci ha introdotti nelle faccende più intime della paziente? Che cos’ha, una donna, di più intimo da raccontare della storia della sua prima notte di nozze? e il fatto che ci siamo imbattuti proprio nell’intimità della sua vita sessuale dovrebbe essere casuale e privo di ulteriore significato? Vero è che ciò potrebbe essere la conseguenza della scelta che ho fatto in questo caso. Ma non affrettiamoci a giudicare e volgiamoci piuttosto al secondo esempio, di tutt’altro genere: è un campione di una specie molto frequente, cioè un cerimoniale del coricarsi.
Una ragazza diciannovenne, molto sviluppata e dotata, figlia unica di genitori ai quali è superiore per istruzione e prontezza intellettuale, è stata da bambina indocile e prepotente e, nel corso degli ultimi anni, senza apparente causa esterna, è diventata nevrotica. È assai irritabile, specie nei confronti della madre, sempre insoddisfatta, depressa, incline all’indecisione e al dubbio e, infine, confessa di non poter più camminare da sola nelle piazze o nelle strade troppo larghe. Non ci occuperemo molto del suo complicato stato patologico, che esige almeno due diagnosi – agorafobia e nevrosi ossessiva – ma ci soffermeremo soltanto sul fatto che questa ragazza ha sviluppato anche un cerimoniale del coricarsi, col quale fa soffrire i suoi genitori. Si può dire che, in un certo senso, ogni individuo normale ha il suo cerimoniale del coricarsi o tiene all’attuazione di certe condizioni, senza il cui adempimento stenta ad addormentarsi; ciascuno imprime cioè al passaggio dalla veglia allo stato di sonno determinate forme, che ripete ogni sera nell’identico modo. Ma tutto ciò che l’individuo sano richiede come condizione del sonno può essere compreso razionalmente e, quando le circostanze esterne rendono necessario un cambiamento, egli si adatta facilmente e senza perder tempo. Il cerimoniale patologico è invece inflessibile, sa imporsi a costo dei più grandi sacrifici, si ammanta anch’esso di una motivazione razionale e, a un’osservazione superficiale, sembra discostarsi dal cerimoniale normale solo per una certa esagerata meticolosità. Se lo si osserva più da vicino, però, si può notare che lo schermo è insufficiente, che il cerimoniale implica regole che esorbitano notevolmente dalla motivazione razionale e altre che addirittura la contraddicono. La nostra paziente adduce come motivo delle sue precauzioni notturne il fatto che per dormire ha bisogno di tranquillità e deve eliminare tutte le fonti di rumore. Per ottenere il suo scopo fa due generi di cose. Il grande orologio della sua camera viene fermato, tutti gli altri orologi vengono allontanati dalla stanza, ed essa non tollera nemmeno il suo piccolo orologio da polso dentro il comodino. I vasi da fiori e gli altri vasi vengono riuniti sopra la scrivania in modo che durante la notte non possano cadere, rompersi e disturbarla nel sonno. Sa che questi provvedimenti possono trovare una giustificazione soltanto apparente nella necessità di quiete; il ticchettio del piccolo orologio non si udrebbe neanche se rimanesse sopra il comodino, e noi tutti abbiamo esperienza del fatto che il ticchettio regolare di un orologio a pendolo non costituisce mai un disturbo per il sonno, ma ha piuttosto un effetto soporifero. Essa ammette anche che il timore che i vasi da fiori e gli altri vasi, se lasciati al loro posto, cadano per terra da soli e si rompano, durante la notte, manca di ogni verosimiglianza. Per le altre disposizioni del cerimoniale essa rinuncia a far riferimento alla necessità di quiete. Anzi, l’esigenza che la porta tra la sua camera e la stanza da letto dei genitori rimanga semiaperta – del che si assicura spingendo tra i battenti diversi oggetti – sembra al contrario predisporre una fonte di rumori che potrebbero disturbarla. I provvedimenti più importanti riguardano però il letto stesso. Il cuscino a capo del letto non può toccare la testata di legno; il piccolo guanciale per la testa deve assolutamente esser posto sopra questo cuscino in modo tale da formare un rombo; essa poi poggia il capo esattamente sulla diagonale del rombo. Il piumino (Duchent, come diciamo in Austria), prima di essere steso sul letto, deve essere scosso in modo tale che la parte inferiore diventi ben rigonfia; ma poi essa non trascura di distribuire di nuovo, schiacciandolo, l’accumulo di piume.
Permettetemi di sorvolare sulle altre particolarità, che spesso sono quisquilie, di questo cerimoniale; esse non ci insegnerebbero nulla di nuovo e ci porterebbero troppo lontano dal nostro intento. Ma non dimenticate che tutto questo non si svolge in modo così semplice. È sempre presente la preoccupazione che non tutto sia stato fatto come si deve; bisogna controllare, ripetere, il dubbio prende di mira ora l’una, ora l’altra delle misure di sicurezza, e il risultato è che passano una o due ore durante le quali la ragazza non può dormire e non lascia dormire i genitori intimoriti.
L’analisi di questi tormenti non procedette in modo così semplice come quella dell’azione ossessiva della nostra precedente paziente. Dovetti accennare varie cose alla ragazza e fare proposte di interpretazione, che essa ogni volta rifiutava con un “no” deciso o accoglieva con dubbio sdegnoso. A questa prima reazione di rifiuto seguì tuttavia un periodo nel quale essa prendeva sul serio le possibilità prospettatele, raccoglieva associazioni in proposito, produceva ricordi, stabiliva connessioni, finché arrivò ad accettare per suo conto tutte le interpretazioni. Nella misura in cui questo avveniva, ella smetteva anche di attuare i suoi provvedimenti ossessivi e già prima della fine del trattamento aveva rinunciato all’intero cerimoniale. Dovete sapere inoltre che la pratica analitica, così come viene esercitata oggi da noi, esclude assolutamente il trattamento sistematico del singolo sintomo fino al suo definitivo chiarimento. Al contrario, siamo costretti ad abbandonare di continuo un tema, su cui siamo certi di tornare partendo da altre connessioni. L’interpretazione del sintomo, che ora vi comunicherò, è quindi una sintesi di risultati la cui scoperta, interrotta da altri lavori, abbraccia un periodo di settimane e di mesi.
La nostra paziente impara gradatamente a comprendere che aveva bandito l’orologio dal suo equipaggiamento notturno perché simbolo del genitale femminile. L’orologio, del quale conosciamo anche altre interpretazioni simboliche,512 perviene a rappresentare il genitale perché è in relazione con processi periodici e intervalli uguali. Una donna può vantarsi, per esempio, che le sue mestruazioni sono regolari come un orologio. L’angoscia della nostra paziente si rivolgeva però particolarmente al fatto di venir disturbata nel sonno dal ticchettio dell’orologio. Il ticchettio dell’orologio può essere paragonato al palpito della clitoride nell’eccitamento sessuale.513 Effettivamente la ragazza era stata svegliata più volte nel sonno da questa sensazione, per lei penosa, e ora questa paura di un’erezione si esprimeva nel precetto che imponeva di allontanare durante la notte dalla sua vicinanza gli orologi che funzionavano. I vasi da fiori e gli altri vasi, come del resto tutti i recipienti, sono simboli femminili. La precauzione che non abbiano a cadere e a rompersi durante la notte non manca dunque di un suo senso. Ci è nota l’usanza assai diffusa di rompere un vaso o un piatto in occasione di un fidanzamento: ciascuno dei presenti si impossessa di un coccio, ciò che può esser considerato rinuncia ai propri diritti sulla futura sposa, diritti che derivano da un ordinamento matrimoniale che ha preceduto la monogamia.514 In rapporto a questa parte del suo cerimoniale la ragazza fornì anche un ricordo e parecchie associazioni. Una volta, da bambina, era caduta con un vaso di vetro o di terracotta, si era tagliata le dita, che avevano sanguinato abbondantemente. Quando crebbe e venne a conoscenza dei fatti riguardanti i rapporti sessuali, si insinuò in lei l’idea angosciosa che durante la prima notte nuziale non avrebbe sanguinato e non avrebbe dimostrato di essere vergine. Le sue precauzioni intese a far sì che non si rompano i vasi significano quindi il rifiuto dell’intero complesso che fa capo alla verginità e alla perdita di sangue durante il primo rapporto: il rifiuto, parimenti, della paura di sanguinare e di quella opposta, di non sanguinare. Queste misure avevano solo lontanamente a che fare con la prevenzione del rumore, alla quale essa le subordinava.
Un giorno essa indovinò il significato centrale del suo cerimoniale quando improvvisamente comprese il senso della norma per cui il cuscino non doveva toccare la testata del letto. Il cuscino, essa disse, era sempre stato per lei una donna e la testata di legno verticale un uomo. Essa voleva dunque tener separati – in forma magica, possiamo aggiungere noi – uomo e donna, cioè dividere tra loro i genitori, non lasciarli giungere al rapporto coniugale. In anni anteriori, prima di istituire il cerimoniale, aveva cercato di raggiungere lo stesso scopo in maniera più diretta. Aveva simulato paura, o sfruttato un’esistente inclinazione alla paura, affinché la porta di comunicazione tra la camera dei genitori e la sua stanza non venisse chiusa. Questa imposizione era stata conservata nel suo cerimoniale successivo. In tal modo aveva l’opportunità di spiare i genitori, ma nello sfruttare tale opportunità si buscò una volta un’insonnia che durò per dei mesi. Non contenta di disturbare in tal modo i genitori, ottenne poi di tanto in tanto di poter dormire nel letto matrimoniale stesso, fra padre e madre. “Cuscino” e “testata di legno” non potevano così realmente congiungersi. Infine, quando fu tanto cresciuta che il suo corpo non poteva più trovar comodamente posto tra i genitori, ottenne, mediante cosciente simulazione di angoscia, che la madre scambiasse di posto con lei e le cedesse quello presso il padre. Questa situazione divenne senza dubbio il punto di partenza di fantasie di cui nel cerimoniale si coglie l’effetto ritardato.
Se il cuscino era una donna, anche lo scuotere il piumino fino a che tutte le piume fossero in basso e vi producessero un rigonfiamento aveva un senso. Significava rendere incinta la donna; ma ella non trascurava poi di far sparire questa gravidanza, poiché per anni era vissuta nel timore che i rapporti fra i genitori avessero per conseguenza un altro figlio e quindi un concorrente per lei. D’altra parte, se il cuscino era una donna (la madre), il guancialino non poteva rappresentare che la figlia. Perché questo guanciale doveva essere posto a rombo e la sua testa venire a posarsi proprio sulla linea mediana? Fu facile rammentarle che il rombo è l’emblema, scribacchiato su tutti i muri, del genitale femminile aperto. Lei stessa assumeva quindi la parte dell’uomo, del padre, e con la sua testa sostituiva il membro virile (vedi il simbolismo della decapitazione per l’evirazione515).
Guarda un po’, direte voi, che volgarità passerebbero per la testa di una casta fanciulla! Lo ammetto, ma non dimenticate che queste cose io non le ho create, ma solamente interpretate. Anche un cerimoniale del coricarsi di questo tipo è cosa ben strana,516 e voi non potete disconoscere la corrispondenza fra il cerimoniale e le fantasie forniteci dall’interpretazione. Per me, tuttavia, ha più importanza che voi notiate che nel cerimoniale non si è depositata un’unica fantasia ma un numero considerevole di fantasie che certamente hanno da qualche parte il loro punto nodale; e che notiate inoltre come le norme del cerimoniale riproducano, ora positivamente ora negativamente, i desideri sessuali e servano in parte a farne le veci e in parte a difendersene.
Dall’analisi di questo cerimoniale si potrebbe ricavare anche di più se si riuscisse a collegarlo in modo corretto agli altri sintomi dell’ammalata. Ma la nostra strada non ci porta fin lì. Accontentatevi dell’accenno che questa ragazza è caduta in preda a un attaccamento erotico al padre, i cui inizi risalgono agli anni dell’infanzia. Forse è anche per questo che essa si comporta in modo così ostile nei confronti della madre [vedi lez. 17, in OSF, vol. 8]. Inoltre non possiamo trascurare il fatto che l’analisi di questo sintomo ci ha condotti ancora una volta alla vita sessuale dell’ammalata. Forse ce ne meraviglieremo tanto meno quanto più sovente saremo giunti a penetrare il significato e l’intenzione dei sintomi nevrotici.
In tal modo vi ho dunque mostrato in base a due esempi che i sintomi nevrotici hanno un senso, come gli atti mancati e come i sogni, e che sono in intima relazione con le esperienze dei pazienti. Posso aspettarmi che voi prestiate fede a questo principio importantissimo sulla base di due esempi? No. Ma potete pretendere da me che vi porti ancora tanti altri esempi, finché vi dichiariate convinti? Ancora una volta no, poiché, data la minuziosità con cui tratto ogni singolo caso, sarei costretto a dedicare un corso semestrale di cinque ore settimanali alla definizione di questo singolo punto della teoria delle nevrosi. Mi accontento quindi di avervi dato un saggio delle prove in favore della mia asserzione, e per il resto vi rimando alle comunicazioni di altri autori, alle classiche interpretazioni di sintomi nel primo caso di Breuer (isteria),517 alle impressionanti chiarificazioni di sintomi totalmente oscuri nella cosiddetta dementia praecox, fornite da C. G. Jung518 al tempo in cui questo ricercatore era soltanto uno psicoanalista e non voleva ancora essere un profeta, e a tutti i lavori che da allora hanno riempito le nostre riviste. Tali indagini non ci fanno difetto. L’analisi, l’interpretazione, la traduzione dei sintomi nevrotici hanno attirato a tal punto gli psicoanalisti che essi trascurarono in un primo tempo gli altri problemi della nevrosi.
Chi di voi si sottoporrà a una simile fatica, sarà certo fortemente impressionato dalla massa di materiale probativo. Ma si imbatterà anche in una difficoltà.
Il senso di un sintomo deriva, come abbiamo appreso, da una relazione con le esperienze del malato. Quanto più individualizzata è la forma del sintomo, tanto più possiamo sperare di riuscire a stabilire questa connessione. Sarà allora nostro compito, semplicemente, di rintracciare, per un’idea senza senso e per un’azione senza scopo, quella situazione passata nella quale l’idea era giustificata e l’azione rispondeva a un fine. L’azione ossessiva della nostra paziente che correva al tavolo e suonava alla cameriera costituisce il modello perfetto di questa specie di sintomi.
Ci sono però, e anche molto spesso, sintomi a carattere completamente diverso. Li si deve denominare sintomi “tipici” della malattia; sono pressappoco uguali in tutti i casi, in essi le differenze individuali scompaiono, o quanto meno si riducono a tal punto che diventa difficile metterli in rapporto con l’esperienza individuale dell’ammalato e riferirli a singole situazioni vissute. Rivolgendo di nuovo la nostra attenzione alla nevrosi ossessiva, ecco che il cerimoniale del coricarsi della nostra seconda paziente ha già in sé molto di tipico, benché nel contempo abbia un numero sufficiente di tratti individuali da rendere possibile un’interpretazione, per così dire, “storica”.
Comunque, tutti gli individui afflitti da nevrosi ossessiva possiedono la tendenza a ripetere, a ritmare le loro operazioni e a isolarle da altre. La maggior parte di essi lava troppo. I malati che soffrono di agorafobia (topofobia, paura dello spazio) – fobia che non ascriviamo più alla nevrosi ossessiva ma che designiamo come “isteria d’angoscia” – ripetono nel loro quadro clinico, spesso con estenuante monotonia, gli stessi tratti: hanno paura degli spazi chiusi, di grandi piazze aperte, di strade e viali che si perdono in lontananza. Si ritengono protetti se un conoscente li accompagna o se una vettura li segue ecc. Tuttavia, su questo sfondo omogeneo, i singoli malati apportano le loro condizioni individuali, i loro umori, vorremmo dire, che in alcuni casi si contraddicono decisamente tra loro. L’uno teme soltanto le strade strette, l’altro solo quelle ampie, uno può uscire solamente quando per strada c’è poca gente, l’altro quando ce n’è molta.
Anche l’isteria, pur con tutta la sua ricchezza di tratti individuali, ha un numero notevole di sintomi comuni, tipici, che sembrano opporsi a una facile derivazione storica. Non dimentichiamo che, per la formulazione della diagnosi, noi ci orientiamo proprio su questi sintomi tipici. Tanto è vero che, se in un caso di isteria abbiamo ricondotto un sintomo tipico a un’esperienza o a una catena di esperienze simili (per esempio un vomito isterico a un susseguirsi di impressioni di disgusto), non sapremo che pensare quando, in un altro caso di vomito, l’analisi ci rivela una serie di presunte impressioni determinanti che sono di natura completamente diversa. Ci parrà allora che gli isterici producano il vomito per ragioni sconosciute e che i motivi occasionali, storici, forniti dall’analisi siano soltanto, quando per caso si presentano, pretesti utilizzati da questa necessità interna.
Eccoci pervenuti alla rattristante scoperta che siamo sì in grado di spiegare in modo soddisfacente il senso dei sintomi nevrotici individuali mettendoli in relazione con le esperienze dei pazienti, ma che nel caso dei molto più frequenti sintomi tipici la nostra arte ci abbandona. A ciò si aggiunga che non vi ho ancora rese note tutte le difficoltà che emergono quando si tratta di effettuare in modo coerente l’interpretazione storica dei sintomi. Né voglio farlo, poiché è vero che non ho l’intenzione di mascherarvi né di nascondervi nulla, ma neppure posso creare in voi disorientamento e confusione proprio all’inizio dei nostri studi comuni. È vero che abbiamo fatto soltanto il primo passo verso la comprensione del significato dei sintomi, ma vogliamo tenerci saldi a quanto abbiamo acquisito e spingerci passo passo alla conquista di ciò che ancora non abbiamo compreso. Cercherò perciò di consolarvi con la considerazione che in sostanza una differenza fondamentale tra l’una e l’altra specie di sintomi non è ipotizzabile. Se i sintomi individuali dipendono in forma così inconfondibile dall’esperienza del malato, resta possibile che i sintomi tipici risalgano a un’esperienza che è tipica in sé, comune a tutti gli uomini. Altri tratti regolarmente ricorrenti nella nevrosi, come le ripetizioni o i dubbi nella nevrosi ossessiva, possono essere reazioni generali, imposte agli ammalati dalla natura del mutamento patologico. In breve, non abbiamo alcun motivo di scoraggiarci prematuramente; vedremo che cosa ci riserverà il futuro.
Anche nella teoria del sogno ci troviamo di fronte a una difficoltà del tutto simile. Non ho potuto trattarla nelle nostre precedenti discussioni sul sogno. Il contenuto manifesto dei sogni presenta naturalmente un’estrema varietà e diversità individuale, e noi abbiamo mostrato estesamente che cosa si ricava da questo contenuto per mezzo dell’analisi. Ma, accanto a questi, ci sono sogni che vengono anch’essi chiamati “tipici”, sogni che ricorrono in tutti gli uomini allo stesso modo, sogni dal contenuto uniforme, i quali oppongono le medesime difficoltà all’interpretazione. Si tratta dei sogni di cadere, volare, fluttuare, nuotare, essere impediti, essere nudi e certi altri sogni angosciosi, che nelle singole persone danno luogo ora a questa, ora a quella interpretazione, senza che la loro monotonia e il loro tipico ricorrere vi trovino una spiegazione. Anche in questi sogni osserviamo, tuttavia, che lo sfondo comune viene ravvivato da aggiunte che variano da individuo a individuo, ed è probabile che riusciremo a inserirli senza sforzo, e anzi estendendo le nostre conoscenze, nella visione della vita onirica che abbiamo ricavato dagli altri sogni.519