Lezione 3
Gli atti mancati

(continuazione)

Signore e signori, la volta scorsa eravamo giunti a considerare l’atto mancato non in rapporto alla prestazione progettata e da esso disturbata, ma in sé e per sé; abbiamo avuto l’impressione che in certi casi esso possa tradire un senso suo proprio, e ci siamo detti che, se fosse possibile confermare su più vasta scala che l’atto mancato ha un senso, quest’ultimo aquisterebbe subito ai nostri occhi un interesse più grande che non l’indagine delle circostanze nelle quali l’atto mancato si verifica.

Mettiamoci ancora una volta d’accordo su ciò che vogliamo intendere per “senso” di un processo psichico. Nient’altro che l’intenzione alla quale esso serve e la sua posizione in una serie psichica. Per la maggior parte delle nostre indagini possiamo sostituire “senso” anche con “intenzione” o con “tendenza”. Era dunque solo un’ingannevole apparenza o un’esaltazione poetica dell’atto mancato, l’aver creduto di riconoscervi un’intenzione?

Restiamo fedeli agli esempi di lapsus verbale e passiamone in rassegna un numero piuttosto considerevole. Troveremo intere categorie di casi nei quali l’intenzione, il senso del lapsus, è assolutamente palese. Anzitutto quelli in cui, al posto di ciò che si intendeva dire, subentra il contrario. Il presidente [vedi lez. 2, in OSF, vol. 8] dice nel discorso di apertura: “Dichiaro chiusa la seduta.” Ciò è senz’altro inequivocabile. Senso e intenzione del suo lapsus è che vuol chiudere la seduta. “Il destino gliela fa”,275 si vorrebbe citare al riguardo; non abbiamo che da prenderlo alla lettera. Non interrompetemi adesso con l’obiezione che ciò non è possibile, che sappiamo bene che egli non voleva chiudere la seduta, ma aprirla, e che lui stesso, da noi or ora riconosciuto come suprema istanza, può confermare di aver voluto aprirla. Ciò facendo, dimenticate che abbiamo convenuto di considerare l’atto mancato dapprima per sé stesso; solo più avanti si parlerà del suo rapporto con l’intenzione che esso perturba. Altrimenti vi rendete responsabili di un errore logico, con il quale non fate altro che eludere il problema che stiamo trattando, ciò che in inglese si chiama begging the question.

In altri casi, in cui non si è sbagliato dicendo l’esatto contrario, nel lapsus può ugualmente manifestarsi un senso opposto. “È per me una noia descrivere i meriti del mio predecessore” [ibid.]. Noia non è il contrario di gioia, ma è un’aperta confessione, in netto contrasto con la situazione nella quale l’oratore dovrebbe parlare.

In altri casi ancora il lapsus verbale aggiunge semplicemente un secondo senso a quello intenzionale. La frase suona allora come una contrazione, un’abbreviazione, una condensazione di più frasi. Così la signora energica: “Egli può mangiare e bere quel che voglio” [ibid.]. È proprio come se avesse detto: “Egli può mangiare e bere quel che vuole; ma cosa ha mai da volere lui? Sono io che voglio per lui.” I lapsus verbali danno spesso l’impressione di abbreviazioni di questo genere. Quando, ad esempio, un professore di anatomia, dopo la sua lezione sulla cavità nasale, chiede se gli ascoltatori hanno veramente capito e, malgrado tutti in coro rispondano di sì, prosegue: “Non credo, perché le persone che capiscono la cavità nasale si possono contare su un dito... pardon, sulle dita di una mano”, il discorso abbreviato ha pure il suo senso: esso dice che vi è una sola persona che comprende quell’argomento.276

A questi gruppi di casi, nei quali lo stesso atto mancato mette in luce il proprio senso, fanno riscontro altri esempi nei quali il risultato del lapsus verbale non ha alcun senso e che quindi contraddicono decisamente le nostre aspettative. Il fatto che accada molto sovente di storpiare con un lapsus verbale un nome proprio o di emettere successioni di suoni insoliti, sembra già decidere in senso negativo il problema se tutte le azioni mancate abbiano significato. Tuttavia, esaminando tali esempi più da vicino, ci si accorge che una comprensione di queste deformazioni è tutt’altro che impossibile, anzi che la differenza tra questi casi più oscuri e quelli perspicui di prima non è poi così grande.

Un signore, interrogato sullo stato di salute del suo cavallo, risponde: “Bah! Tri... tirerà avanti forse ancora un mese.” Interrogato su che cosa volesse dire in realtà, egli spiega di aver pensato che era una triste faccenda, e che lo scontrarsi di tirerà e triste aveva prodotto quel tri. (Meringer e Mayer.)277

Un altro discorre di certi procedimenti, che biasima, e prosegue: “Ma poi alcuni fatti vennero in lurche...” Dietro richiesta, conferma che voleva designare quei procedimenti come “porcherie”. Luce e porcherie insieme hanno dato luogo allo strano lurche. (Meringer e Mayer.)278

Richiamatevi al caso del giovanotto che voleva invultare la signorina sconosciuta [ibid.]. Ci eravamo presi la libertà di scomporre questa formazione verbale in invitare e insultare, e ci sentivamo sicuri di questa interpretazione, senza richiederne conferma. Da questi esempi vedete che anche tali casi più oscuri di lapsus verbale si possono spiegare con la convergenza, l’interferenza, di due diversi propositi verbali; le differenze sorgono solo dal fatto che qualche volta un’intenzione prende completamente il posto dell’altra (la sostituisce), come nei lapsus in cui vien detto il contrario di quel che s’intendeva dire, mentre altre volte deve accontentarsi di deformarla o di modificarla, così che ne risultano formazioni miste, le quali appaiono in sé stesse più o meno dotate di senso.

Riteniamo a questo punto di aver afferrato il segreto di un gran numero di lapsus verbali. Se ci atteniamo a questa intuizione potremo comprendere altri gruppi di lapsus di cui finora non siamo ancora riusciti a scoprire l’enigma. Nel caso della deformazione di nomi, ad esempio, non possiamo supporre che si tratti sempre della competizione tra due nomi simili e tuttavia differenti. Per contro, la seconda intenzione non è difficile da indovinare. La deformazione di un nome al di fuori del lapsus viene usata abbastanza di frequente; essa cerca di rendere il nome cacofonico o tale che rammenti qualcosa di ignobile; ed è un noto modo (o malomodo) di ingiuriare la gente, al quale l’uomo civile impara presto a rinunciare, per quanto a malincuore. Egli se lo permette ancora spesso come “motto di spirito”, di livello, a dire il vero, molto basso. Per citare solo un esempio brutto e volgare di questa deformazione di nomi, ricordo che di questi tempi279 si è trasformato il nome del presidente della Repubblica francese Poincaré in Schweinskarré [costoletta di maiale]. Viene quindi spontaneo supporre anche nel lapsus una simile intenzione ingiuriosa, la quale si afferma nella deformazione del nome. Analoghe spiegazioni s’impongono, a proseguimento della nostra concezione, per certi casi di lapsus a effetto comico o assurdo. “Vi invito a ‘ruttare’ alla salute del nostro capo” [ibid.]. Qui un’atmosfera di festa viene turbata inaspettatamente dall’irruzione di una parola che risveglia un’idea disgustosa e, a giudicare da altre frasi simili, ingiuriose e offensive, difficilmente possiamo evitare di supporre che cerchi di esprimersi una tendenza in netto contrasto con l’ossequiosità ostentata, che vuol dire all’incirca: “Ma non credeteci, non faccio sul serio, me ne infischio di questo tizio”, e simili cose. Lo stesso vale anche per lapsus che rendono sconvenienti e oscene parole innocenti, come apopò per à propos [a proposito], oppure Eischeissweibchen [femminuccia-caca-uova] per Eiweissscheibchen [dischetto d’albume]. (Meringer e Mayer.)280

Riscontriamo in molti individui tale tendenza a deformare intenzionalmente parole innocenti in oscene, per trarne un certo piacere; la cosa passa per spiritosa, mentre in realtà dovremmo prima informarci dalla persona che ha pronunciato una parola del genere se davvero l’ha fatto con l’intenzione di dire una battuta di spirito o se invece le è sfuggita come lapsus verbale.

Orbene, con ciò avremmo risolto con uno sforzo relativamente esiguo l’enigma degli atti mancati! Essi non sono eventi casuali, bensì atti psichici seri, aventi un loro proprio senso, che sorgono per l’azione congiunta, o meglio per l’azione contrapposta, di due diverse intenzioni. Ma a questo punto, prima che ci sia lecito gioire per questo primo risultato del nostro lavoro, posso anche capire che vogliate rovesciarmi addosso una quantità di domande che hanno diritto a una risposta e una miriade di dubbi che devo risolvere. E non sarò certo io a volervi spingere a decisioni affrettate. Consideriamo con calma ogni cosa per ordine, un punto dopo l’altro.

Che volete dunque dirmi? Se ritengo che questa spiegazione valga per tutti i casi di lapsus verbale o solo per un certo numero? Se questa stessa concezione possa essere estesa anche alle molte altre specie di atti mancati, ai lapsus di lettura, di scrittura, alle dimenticanze, alle sbadataggini, agli smarrimenti ecc.? Che importanza possono ancora avere i fattori dell’affaticamento, dell’eccitazione, della distrazione, o la perturbazione dell’attenzione, considerata la natura psichica degli atti mancati? Inoltre, appare chiaramente che delle due tendenze in competizione negli atti mancati, l’una è sempre palese, l’altra invece non sempre. Che cosa dobbiamo fare allora per scoprire quest’ultima e, quando crediamo di averla scoperta, per dimostrare che non è soltanto verosimile ma proprio vera? Avete ancora qualche domanda? Se no, continuerò io. Vi ricordo che gli atti mancati non ci importano molto per sé stessi, che dal loro studio volevamo solo apprendere qualcosa di utile per la psicoanalisi. Perciò pongo l’interrogativo: che specie di intenzioni o tendenze sono queste, che possono in tal modo perturbare le altre, e quali relazioni esistono tra le tendenze perturbatrici e quelle perturbate? Così, non appena risolto il problema, il nostro lavoro ricomincia da capo.

Avete chiesto: è questa la spiegazione di tutti i casi di lapsus verbale? Sono molto propenso a crederlo, e la ragione è che ogni volta che si esamina un caso di lapsus verbale si può trovare una soluzione di questo genere. D’altra parte, direte, non è dimostrabile che un lapsus non possa verificarsi senza questo meccanismo. E sia pure; per noi ciò è indifferente dal punto di vista teorico, poiché le conclusioni che vogliamo trarre per l’introduzione alla psicoanalisi rimangono valide anche se solo una minoranza di casi di lapsus – e non è certo questo il caso – dovesse rientrare nella nostra concezione. Alla domanda successiva, se ci sia lecito estendere agli altri tipi di atti mancati quanto ci è risultato per il lapsus verbale, voglio rispondere in anticipo di sì. Ve ne convincerete da voi stessi quando ci volgeremo a prendere in esame esempi di lapsus di scrittura, di sbadataggini e così via. Tuttavia, per ragioni tecniche, vi propongo di rinviare questo lavoro a quando avremo trattato ancora più a fondo il lapsus verbale stesso.

Una risposta più circostanziata merita la domanda sul significato che possono avere ancora per noi, una volta ammesso questo meccanismo psichico del lapsus verbale, i fattori messi in primo piano dai vari autori, cioè i disturbi circolatori, l’affaticamento, l’eccitazione, la distrazione e la teoria della perturbazione dell’attenzione. Notate bene, noi non contestiamo questi fattori. In genere non succede molto spesso che la psicoanalisi contesti qualcosa che viene asserito da altri; di solito essa vi aggiunge soltanto qualcosa di nuovo e, all’occasione, capita effettivamente che questo qualcosa, fin qui trascurato e aggiuntosi solo ora, sia proprio l’essenziale. In rapporto al verificarsi del lapsus verbale va senz’altro riconosciuta l’influenza delle disposizioni fisiologiche provocate da un leggero malessere, da disturbi circolatori, da stati di esaurimento; l’esperienza quotidiana e personale può persuadervi di questo. Ma con ciò si spiegano ben poche cose. Prima di tutto non si tratta di condizioni necessarie per il prodursi dell’atto mancato. Il lapsus è altrettanto possibile in piena salute e nello stato normale. Questi fattori somatici hanno quindi solo il valore di facilitare e favorire il particolare meccanismo psichico del lapsus verbale. Per descrivere questo rapporto mi sono servito una volta di un paragone,281 che ora ripeterò, perché non so sostituirlo con uno migliore. Supponete che in una notte oscura io passi per un luogo solitario, che lì venga assalito da un furfante, il quale mi porti via l’orologio e il borsellino e che, non avendo visto bene in viso il rapinatore, io presenti lagnanza al più vicino commissariato di polizia con le parole: “La solitudine e l’oscurità mi hanno derubato poco fa dei miei oggetti di valore.” Al che il commissario di polizia può dirmi: “Dalle sue parole sembra che lei segua a torto una concezione estremamente meccanicistica. Esponiamo piuttosto la situazione così: ‘protetto dall’oscurità, favorito dalla solitudine, un ignoto rapinatore le ha sottratto i suoi oggetti di valore’. Nel suo caso mi sembra che la cosa più importante da fare sia rintracciare il ladro. Forse potremo poi riprendere la refurtiva.”

I fattori psicofisiologici, come l’eccitazione, la distrazione, la perturbazione dell’attenzione, contribuiscono evidentemente ben poco a spiegarci l’accaduto. Sono solo modi di dire, paraventi dietro ai quali non dobbiamo aver paura di dare un’occhiata. Il problema che si pone è piuttosto questo: che cosa è stato evocato dall’eccitamento, dalla particolare deviazione dell’attenzione? Si aggiunga l’importanza che dobbiamo riconoscere alle influenze fonetiche, alle affinità tra le parole e alle associazioni che usualmente traggono origine dalle parole. Anch’esse facilitano il lapsus verbale mostrandogli le vie che può seguire. Ma se ho davanti a me una via, diventa per questo automatico che io la percorra? Ho bisogno altresì di un motivo che mi induca a farlo; e non basta, occorre una forza che mi porti avanti su questa via. Queste relazioni tra suoni e tra parole sono quindi anch’esse, come le disposizioni somatiche, solo fattori che favoriscono il lapsus verbale e non possono darne la spiegazione vera e propria. Pensate un momento: il mio discorso non viene disturbato, nella stragrande maggioranza dei casi, né dal fatto che le parole da me usate ne rievocano altre per affinità fonetiche né dal fatto che sono intimamente legate ai loro contrari o che da esse provengono associazioni consuete. Si potrebbe ancora, con il filosofo Wundt, trovare la scappatoia che il lapsus verbale si verifica quando, in seguito a spossatezza fisica, le tendenze associative prendono il sopravvento sull’intenzione del discorso. Ciò sarebbe anche convincente, se non fosse contraddetto dall’esperienza, la quale attesta che vi è tutta una serie di casi ove sono assenti i fattori somatici che favoriscono il lapsus, mentre in altri casi mancano quelli associativi.

Particolarmente interessante per me è la vostra successiva domanda: in che modo vengano accertate le due tendenze che interferiscono tra loro. È probabile che non riusciate a immaginare quanto questa domanda sia gravida di conseguenze. Ovviamente una delle due (la tendenza perturbata) è sempre indubbia: la persona che incorre nell’atto mancato la conosce e la ammette. È solo l’altra, la tendenza perturbatrice, che può dare adito a dubbi e a perplessità. Ora, abbiamo già sentito, e voi non lo avete certamente dimenticato, che quest’altra tendenza in moltissimi casi è altrettanto palese. Essa viene denunciata dall’effetto del lapsus verbale, purché abbiamo il coraggio di riconoscere a questo effetto una sua validità. Nel caso del presidente che dice per sbaglio il contrario, è chiaro che egli intende aprire la seduta, ma altrettanto chiaro che vorrebbe anche chiuderla. Ciò è talmente evidente che non resta più niente da interpretare. Ma negli altri casi, quelli in cui la tendenza perturbatrice si limita a deformare quella originaria senza esprimersi del tutto, come si risale dalla deformazione alla tendenza perturbatrice?

Per una prima categoria di casi in modo molto semplice e sicuro, ossia allo stesso modo in cui si determina la tendenza perturbata. Quest’ultima ce la facciamo comunicare direttamente da colui che ha parlato; dopo il lapsus egli riproduce subito il tenore della frase che originariamente si proponeva di pronunciare: “Tri..., no, tirerà avanti forse ancora un mese” [vedi lez. 3, in OSF, vol. 8. Ora, la tendenza deformante ce la facciamo dire ugualmente da lui. “Perché – gli chiediamo – prima ha detto tri?” Egli risponde: “Volevo dire: questa è una triste faccenda.” E allo stesso modo, nell’altro caso del lapsus “lurche” [ibid.], il soggetto vi conferma di aver voluto dire dapprima: “È una porcheria”, ma di essersi poi moderato e di aver ripiegato su un’altra affermazione. Dunque, l’accertamento della tendenza deformante è riuscito qui in modo altrettanto sicuro di quello della tendenza deformata. Non a caso ho portato qui esempi la cui comunicazione e soluzione non provengono né da me né da qualcuno dei miei seguaci. Comunque, in entrambi questi casi, era necessario fare qualcosa per ottenere la soluzione. Si dovette chiedere a colui che aveva parlato perché si fosse sbagliato in quel modo, che cosa sapesse dire sul proprio lapsus. Altrimenti costui avrebbe forse sorvolato sul suo lapsus, senza volerlo chiarire. Interrogato, invece, fornì la prima spiegazione che gli venne in mente. E ora osservate come questo piccolo intervento e il suo risultato siano già una psicoanalisi e il modello di ogni indagine psicoanalitica che condurremo in seguito.

Sono troppo diffidente se nutro il sospetto che al momento stesso in cui la psicoanalisi vi compare dinanzi, fa capolino in voi anche la resistenza contro di essa? Non vi viene voglia di obiettarmi che l’informazione della persona interrogata che ha commesso il lapsus non è pienamente probante? Naturalmente – pensate – costui desidera aderire all’invito di chiarire il lapsus, e così dice la prima cosa che gli passa per il capo e che gli sembra idonea a fornire la spiegazione richiesta. Con ciò non è affatto dimostrato che il lapsus sia realmente avvenuto così. Potrebbe essersi verificato in quel modo, ma anche in un modo diverso. Alla persona in questione sarebbe potuta venire in mente qualche altra spiegazione, altrettanto adatta, se non di più.

È sorprendente quanto poco rispetto abbiate, in fondo, per un fatto psichico! Immaginatevi che qualcuno abbia intrapreso l’analisi chimica di una certa sostanza e che a proposito di una sua componente abbia accertato che essa ha un determinato peso, tanti e tali milligrammi. Da questa quantità di cui si conosce il peso si possono trarre conclusioni precise. Credete ora che a un chimico verrebbe mai in mente di trovare da ridire su queste conclusioni col pretesto che la sostanza isolata avrebbe potuto avere anche un altro peso? Ognuno si inchina davanti al fatto che il peso era proprio quello e nessun altro e su di esso costruisce fiduciosamente le sue ulteriori conclusioni. Solo quando vi trovate dinanzi al fatto psichico che all’interrogato è venuta in mente una determinata idea, solo allora ne mettete in dubbio la validità e dite che gli sarebbe anche potuto venire in mente qualcos’altro! Avete l’illusione che esista una libertà psichica e non vi piace rinunciarvi. Mi dispiace, ma su questo punto il mio parere è in netto contrasto con il vostro.

Non insisterete oltre a questo proposito, ma solo per riprendere la resistenza a un altro livello. E continuate: “Comprendiamo che la tecnica specifica della psicoanalisi consiste nel farsi dire dagli analizzati la soluzione dei loro problemi. [Vedi lez. 6, in OSF, vol. 8.] Prendiamo ora un altro esempio, quello nel quale l’oratore invita l’assemblea a ‘ruttare’ alla salute del capo [vedi lez. 2, in OSF, vol. 8]. Lei dice [vedi lez. 3, in OSF, vol. 8] che in questo caso l’intenzione perturbatrice è quella dell’ingiuria: è questa che si oppone all’espressione di ossequio. Ma si tratta di una pura e semplice interpretazione da parte sua, basata su osservazioni che non hanno nulla a che fare con il lapsus verbale. Se interroga a questo riguardo l’autore del lapsus, egli non confermerà di aver nutrito il proposito di pronunciare un’ingiuria, anzi lo contesterà energicamente. Perché non rinuncia alla sua interpretazione indimostrabile di fronte a questa chiara protesta?”

Sì, questa volta la forza del vostro argomento non è da poco. Mi sembra di vedere lo sconosciuto oratore: è probabilmente un assistente del capo festeggiato, forse già libero docente, un giovane cui si dischiudono le migliori prospettive. Faccio pressione su di lui per sapere se non ha avvertito in sé qualcosa che possa essersi opposto all’invito di rendere ossequio al capo. Ma qui tocco un bel tasto! Egli si spazientisce e mi investe improvvisamente: “Ma la smetta una buona volta con i suoi interrogatori, altrimenti mi fa arrabbiare. Mi rovinerà l’intera carriera con i suoi sospetti. Ho detto aufstossen [ruttare] al posto di anstossen [brindare], semplicemente perché già due volte in precedenza ho pronunciato auf nella stessa frase. È quel che Meringer chiama una risonanza e non c’è nient’altro da sofisticare. Capito? Basta!”282 Hmm! Ecco una reazione sorprendente, una smentita indubbiamente energica. Vedo che non c’è niente da fare con il giovanotto, ma penso anche tra me che egli tradisce un forte interesse personale a che il suo atto mancato non abbia alcun senso. Forse anche voi non troverete giusto che egli si faccia subito così brusco per un’indagine puramente teorica, ma in definitiva – penserete – dovrà pur sapere che cosa voleva dire e che cosa no.

Deve davvero saperlo? Forse la domanda è ancora aperta.

Adesso, però, credete di tenermi in pugno. “Dunque questa è la sua tecnica”, vi sento dire. “Quando chi ha commesso un lapsus lo commenta in modo che a lei va bene, costui diventa, a suo dire, l’autorità suprema che decide in merito. ‘Il destino gliela fa’ [ibid.]. Quando invece ciò che dice non le garba, allora lei afferma tutt’a un tratto che costui non vale nulla, che non è necessario prestargli fede.”283

Devo dire che avete ragione. Tuttavia, vi posso presentare un caso simile nel quale le cose si svolgono in modo altrettanto assurdo. Quando un accusato ammette un’azione davanti al giudice, il giudice crede alla confessione; ma quando non la ammette, il giudice non gli crede. Se le cose andassero diversamente, non ci sarebbe alcuna amministrazione della giustizia e, malgrado errori occasionali, dovete pur ritenere valido questo sistema.

“Allora, lei è il giudice e colui che ha commesso un lapsus verbale un accusato che le sta dinanzi? Un lapsus è dunque un reato?”284

Forse non è necessario rifiutare quest’analogia. Ma notate soltanto a quali profonde divergenze siamo giunti esaminando un po’ in profondità i problemi, apparentemente così innocui, degli atti mancati. Sono divergenze che per il momento siamo ben lungi dal poter appianare. Vi propongo un temporaneo compromesso, sulla base del paragone del giudice e dell’accusato. Voi dovete accordarmi che il senso di un atto mancato non lascia adito ad alcun dubbio quando è l’analizzato stesso a fornircelo. Io, per contro, converrò con voi che una dimostrazione diretta del significato da noi supposto non è raggiungibile quando l’analizzato rifiuta di darci l’informazione e quando, beninteso, non è in grado di farlo. Allora, come nel caso dell’amministrazione della giustizia, siamo costretti a rifarci agli indizi, i quali talvolta rendono più verosimili le nostre risoluzioni, talaltra meno. In tribunale, per ragioni pratiche, si deve condannare anche su prove indiziarie. Per noi una simile necessità non esiste; ma nemmeno siamo costretti a rinunciare all’utilizzazione di tali indizi. Sarebbe un errore credere che una scienza sia costituita esclusivamente da un certo numero di tesi rigorosamente dimostrate, e ingiusto pretenderlo. Solo uno spirito smanioso di autorità, che ha il bisogno di sostituire il suo catechismo religioso con un altro catechismo, sia pure scientifico, solleva questa esigenza. La scienza ha nel suo catechismo solo poche proposizioni apodittiche; per il resto, essa è costituita di affermazioni che ha spinto fino a certi gradi di probabilità. Indizio di mentalità scientifica è proprio il sapersi accontentare di queste approssimazioni alla certezza e l’essere capaci di proseguire il lavoro costruttivo nonostante la mancanza di conferme assolute.

Ma, nel caso che la dichiarazione dell’analizzato non chiarisca essa stessa il senso dell’atto mancato, da dove traiamo i punti di appoggio per le nostre interpretazioni, gli indizi per la nostra dimostrazione? Da diverse parti. Innanzitutto dall’analogia con fenomeni che si pongono al di fuori degli atti mancati, ad esempio quando affermiamo che la deformazione dei nomi sotto forma di lapsus verbale ha lo stesso significato spregiativo del loro intenzionale storpiamento. Poi dalla situazione psichica nella quale l’atto mancato si verifica, dalla nostra conoscenza del carattere della persona che incorre nell’azione mancata, nonché delle impressioni che hanno colpito in precedenza questa persona, alle quali essa con tale atto mancato probabilmente reagisce. Di norma avviene che noi procediamo all’interpretazione dell’atto mancato sulla base di criteri generali, sicché essa dapprima è solo un’ipotesi, una proposta di interpretazione, di cui poi ci procuriamo conferma attraverso l’esame della situazione psichica. Talvolta dobbiamo anche aspettare il prodursi di avvenimenti, che si sono per così dire annunciati attraverso l’atto mancato, per trovare conferma alla nostra ipotesi.

Dovendo limitarmi al campo del lapsus verbale, non mi è facile addurvi le prove di quanto ho detto finora, benché anche qui non manchino alcuni buoni esempi. Il giovanotto che vorrebbe invultare una signorina [vedi lez. 2, in OSF, vol. 8] è certamente un timido; la signora il cui marito può mangiare e bere ciò che lei vuole [ibid.], mi è nota come una di quelle donne volitive che tengono saldamente le redini della casa. Oppure, prendete il seguente esempio: in un’assemblea generale della “Concordia”,285 un giovane membro tiene un violento discorso d’opposizione, nel corso del quale apostrofa la direzione dell’associazione come i signori del “prestito” (Vorschuss), mettendo insieme a quanto pare presidenza (Vorstand) e comitato (Ausschuss). Noi supporremo che contro la sua opposizione si agitasse in lui una tendenza perturbatrice, che potesse appoggiarsi su qualcosa avente a che fare con un prestito. In effetti, apprendiamo dal nostro informatore che l’oratore era costantemente in difficoltà finanziarie e aveva presentato proprio in quel periodo una richiesta di prestito. Quale intenzione perturbatrice possiamo dunque davvero inserire il pensiero: “Moderati nella tua opposizione, si tratta delle stesse persone che devono concederti il prestito.”

Sono in grado, d’altra parte, di presentarvi una vasta gamma di prove indiziarie del genere se, dal lapsus verbale, passiamo al vasto campo degli altri atti mancati.

Se qualcuno dimentica un nome proprio che normalmente gli è familiare, oppure se, nonostante ogni sforzo, riesce a tenerlo a mente solo con difficoltà, ci viene spontaneo supporre che egli abbia qualcosa contro il portatore di tale nome, tanto che non gli piace pensare a lui. La situazione psichica nella quale subentra questo atto mancato è ulteriormente chiarita dai seguenti esempi.

“Un signor Y s’innamora senza successo di una signora che poco dopo sposa un signor X. Sebbene il signor Y conosca il signor X già da parecchio tempo, e sia anzi in rapporti d’affari con lui, continua a dimenticarne il nome tanto da esser costretto più volte, per sbrigare la sua corrispondenza con il signor X, a rivolgersi ad altri.” Evidentemente il signor Y non vuol saper nulla del suo fortunato rivale: “di lui non fia memoria.”286

Oppure: Una signora chiede al suo medico notizie di una comune conoscente, nominandola però con il suo nome di ragazza poiché ha dimenticato il nome che ella ha acquistato con il matrimonio. La signora ammette poi che non approvava questo matrimonio e che il marito di questa amica le era antipatico.287

In contesti differenti avremo ancora alcune cose da dire sulla dimenticanza di nomi [vedi lez. 4, in OSF, vol. 8]; adesso ci interessa principalmente la situazione psichica nella quale si verifica la dimenticanza.

La dimenticanza di propositi, in linea generale, può essere ricondotta a una corrente contraria, che non vuole eseguire il proposito. Ma non siamo solo noi psicoanalisti a pensarla così: è la concezione generale alla quale aderiscono tutti nella vita e che solo in teoria viene sconfessata. Il protettore che si scusa con il suo protetto per aver dimenticato una certa richiesta non trova giustificazione agli occhi di quest’ultimo. Il protetto pensa subito: “Non gliene importa nulla. Lo ha promesso, ma in realtà non vuol farlo.”288 Per questo, in certe circostanze dell’esistenza la dimenticanza è vietata e non sembra più sussistere differenza alcuna tra la concezione popolare e quella psicoanalitica di questi atti. Immaginatevi una padrona di casa che riceva il suo ospite con le parole: “Come! è venuto oggi? Avevo dimenticato completamente di averla invitata per oggi.” Oppure il giovanotto che dovesse confessare all’amata di aver dimenticato l’appuntamento fissato la volta precedente. Certamente egli non lo confesserà e preferirà inventare lì per lì i più inverosimili contrattempi che l’hanno trattenuto e che successivamente l’hanno messo nell’impossibilità di dargliene notizia. Che nella vita militare la scusa di aver dimenticato qualcosa non serva a nulla e non salvi dalla punizione lo sappiamo tutti; né la cosa può sembrarci ingiusta. In questo caso, a un tratto, tutti si trovano d’accordo nel ritenere che un determinato atto mancato abbia un senso e quale sia questo senso. Perché tutti costoro non sono abbastanza coerenti da estendere questa concezione, ammettendola senza riserve anche per gli altri atti mancati? Anche per questo, com’è ovvio, esiste una risposta.

Se il significato di questa dimenticanza di propositi è così poco dubbio anche per i profani, tanto meno vi stupirete nell’apprendere che i poeti utilizzano nello stesso senso questi atti mancati. Chi di voi ha visto o letto Cesare e Cleopatra, di Bernard Shaw, si ricorderà che Cesare, sul punto di partire, nell’ultima scena, è perseguitato dall’idea di essersi proposto di fare qualcosa che in quel momento non riesce a ricordare. Alla fine vien fuori che cos’era: prendere congedo da Cleopatra. Questo piccolo artificio del poeta intende attribuire al grande Cesare una superiorità [nei confronti della regina] che egli in realtà non possedeva e alla quale non aspirava affatto. Dalle fonti storiche si ricava che Cesare fece venire con sé a Roma Cleopatra, e che ivi lei si trovava con il suo piccolo Cesarione quando Cesare fu assassinato ed ella perciò costretta a fuggire dalla città.289

I casi di dimenticanza di propositi sono in genere così chiari da essere di scarsa utilità per il nostro intento di trarre degli indizi dalla loro situazione psichica circa il significato dell’atto mancato. Rivolgiamoci perciò a un tipo particolarmente ambiguo e oscuro di azioni mancate, ossia alla perdita e allo smarrimento di oggetti. Che nel perdere, accidente percepito spesso così dolorosamente, siamo implicati noi stessi, con un’intenzione, non vi parrà certo credibile. Eppure abbondano osservazioni come questa. Un giovanotto perde la sua matita, che gli era stata molto cara. Il giorno prima aveva ricevuto da suo cognato una lettera, che terminava con le parole: “Per ora non ho né la voglia né il tempo di soccorrere la tua leggerezza e pigrizia.”290 Ma la matita era proprio un regalo di questo cognato. Senza tale coincidenza, non potremmo naturalmente affermare che ci fosse in questa perdita l’intenzione di disfarsi dell’oggetto. Simili casi sono assai frequenti. Si perdono oggetti quando ci si è inimicati con il loro donatore e non si vuole più pensare a lui, o anche quando non ci piacciono più e ci si vuol creare un pretesto per sostituirli con altri migliori. Alla stessa intenzione, diretta contro l’oggetto, serve naturalmente anche lasciarli cadere, spezzarli, romperli. Si può ritenere un caso che uno scolaro perda, rovini, rompa, proprio prima del suo compleanno, gli oggetti di suo uso personale, per esempio la cartella di scuola o l’orologio?

Chi ha provato un certo numero di volte la pena di non saper ritrovare qualcosa che egli stesso ha riposto, non sarà disposto a credere che anche nello smarrire vi sia il concorso di un’intenzione. E tuttavia non sono affatto rari gli esempi in cui le circostanze che compaiono nello smarrimento indicano una tendenza a eliminare l’oggetto, temporaneamente o permanentemente. Forse il miglior esempio di questo genere è il seguente.

Un uomo piuttosto giovane mi racconta: “Alcuni anni fa vi furono malintesi nel mio matrimonio. Trovavo mia moglie troppo fredda e, sebbene ne riconoscessi le eccellenti qualità, vivevamo l’uno accanto all’altra senza tenerezza. Un giorno lei portò a casa da una passeggiata un libro che aveva comperato perché poteva interessarmi. La ringraziai di questo segno di ‘attenzione’, promisi di leggere il libro, lo misi da parte e non lo trovai più. Passarono così dei mesi: ogni tanto mi ricordavo del libro scomparso e tentavo di ritrovarlo, ma invano. Circa sei mesi dopo si ammalò la mia diletta madre, che non abitava con noi. Mia moglie abbandonò casa nostra per andare a curare la suocera. Le condizioni dell’ammalata divennero gravi dando occasione a mia moglie di mostrare i suoi lati migliori. Una sera ritornai a casa pieno di ammirazione e di gratitudine per quanto mia moglie faceva. Mi avvicinai alla mia scrivania e, senza un’intenzione determinata ma con sicurezza sonnambolica, aprii un determinato cassetto nel quale vidi per prima cosa il libro smarrito e per tanto tempo cercato.”291 Col venir meno del motivo ebbe fine anche lo smarrimento dell’oggetto.

Signore e signori, potrei accrescere all’infinito questa raccolta di esempi. Ma non voglio farlo qui. Nella mia Psicopatologia della vita quotidiana (apparsa per la prima volta nel 1901) troverete in ogni caso una ricchissima casistica per lo studio degli atti mancati.292 Tutti questi esempi danno sempre lo stesso risultato: essi vi rendono verosimile il fatto che gli atti mancati abbiano un senso e vi mostrano come dalle circostanze concomitanti si possa rintracciare o confermare questo senso. Oggi voglio essere più breve, dato che il nostro intento è soltanto quello di trarre dallo studio di questi fenomeni una preparazione alla psicoanalisi. Devo solo esaminare più da vicino due gruppi di osservazioni: gli atti mancati accumulati e combinati e i casi in cui le nostre interpretazioni sono corroborate dagli eventi che sopravvengono successivamente.

Gli atti mancati accumulati e combinati sono certamente il fior fiore della loro specie. Se ci importasse solo dimostrare che gli atti mancati possono avere un senso, ci saremmo limitati ad essi sin dall’inizio poiché il loro senso è inconfondibile anche per una mente ottusa e riesce a imporsi al giudizio più critico. L’accumularsi delle manifestazioni rivela una pertinacia quale non si presenta quasi mai negli eventi casuali, mentre ben si addice a un proposito. Infine, lo scambio reciproco tra singoli tipi di atti mancati ci mostra che l’importante e l’essenziale dell’atto non è la sua forma o i mezzi che utilizza, bensì il proposito al quale esso serve e che deve essere raggiunto per le vie più svariate. Per questo voglio presentarvi un esempio di dimenticanza ripetuta. Ernest Jones racconta293 che una volta, per motivi a lui ignoti, aveva lasciato sulla scrivania una lettera per alcuni giorni. Infine si decise a spedirla, ma se la vide ritornare indietro dal Dead Letter Office perché aveva dimenticato di scrivere l’indirizzo. Dopo aver messo l’indirizzo, la portò alla posta, ma questa volta senza francobollo. Allora dovette finalmente confessare a sé stesso la propria riluttanza a spedire la lettera.294

In un altro caso, una sbadataggine si combina con uno smarrimento. Una signora fa un viaggio a Roma in compagnia di suo cognato, un celebre artista. Questi è molto festeggiato dalla comunità tedesca di Roma e riceve in dono, fra l’altro, un’antica medaglia d’oro. La signora è dispiaciuta del fatto che il cognato non sappia apprezzare quel bell’esemplare come meriterebbe. Arriva sua sorella a darle il cambio ed essa riparte; giunta a casa, scopre nel disfare i bauli di avere portato con sé – come, non lo sa – quella medaglia. Ne dà subito comunicazione per lettera al cognato, annunciandogli che gli avrebbe rispedito a Roma il giorno dopo l’oggetto rapito. Il giorno dopo però la medaglia risulta così abilmente smarrita da essere introvabile e quindi non spedibile, e allora si fa luce nella signora l’intuizione del significato della sua “distrazione”, vale a dire il suo desiderio di tenere quell’oggetto per sé.295

Vi ho già riferito precedentemente un esempio di combinazione di una dimenticanza con un errore, come uno dimentichi una prima volta un appuntamento e la seconda volta, propostosi di non dimenticarlo assolutamente, si presenti a un’ora diversa da quella convenuta [vedi lez. 2, in OSF, vol. 8]. Un caso del tutto analogo mi è stato raccontato, per sua propria esperienza, da un amico, che oltre a interessi scientifici coltiva anche interessi letterari. “Alcuni anni fa – così dice – accettai di essere eletto nel comitato di una certa associazione letteraria, perché presumevo che questa società potesse un giorno essermi d’aiuto per ottenere una rappresentazione del mio dramma teatrale, e partecipai regolarmente, sebbene senza grande interesse, alle sedute che avevano luogo ogni venerdì. Alcuni mesi fa ottenni la promessa da parte di un teatro di F. che la mia opera sarebbe stata rappresentata, e da allora mi accade regolarmente di dimenticare le sedute di quell’associazione. Quando lessi il suo scritto su queste cose, mi vergognai della mia dimenticanza, mi rimproverai di agire con bassezza nel mancare alle sedute ora che quella gente non mi serviva più, e decisi di non mancare assolutamente il venerdì successivo. Mi ricordai ripetute volte di questo proponimento, finché lo eseguii e venni a trovarmi davanti alla porta della sala delle sedute. Con mio stupore la trovai chiusa, la seduta era terminata da un pezzo. Infatti mi ero sbagliato nel giorno; eravamo già di sabato!”

Sarebbe divertente continuare con simili osservazioni, ma sarà meglio procedere. Desidero che gettiate uno sguardo su quei casi nei quali la nostra interpretazione deve attendere conferma dal futuro. La condizione principale di questi casi è, ovviamente, che la situazione psichica di quel momento ci sia sconosciuta o non sia accertabile. Allora la nostra interpretazione ha solo il valore di un’ipotesi, cui noi stessi non vogliamo attribuire troppo peso. Più tardi però si verifica qualcosa che ci dimostra come già allora la nostra interpretazione fosse giustificata. Fui una volta ospite di una coppia di novelli sposi e udii la giovane moglie narrare ridendo ciò che le era capitato da ultimo. Il giorno dopo il ritorno dal viaggio di nozze era andata a trovare la sorella nubile per uscire con lei a far compere come nei tempi passati, mentre il marito andava per gli affari suoi. Tutt’a un tratto aveva notato un signore dall’altra parte della strada e aveva gridato alla sorella urtandole il braccio: “Guarda lì il signor L.” Aveva dimenticato che questo signore era da alcune settimane il suo legittimo consorte. Sentii freddo a questo racconto, ma non ebbi il coraggio di trarne le conseguenze. Mi ricordai di nuovo di questo episodio anni dopo, quando quel matrimonio ebbe esito infelicissimo.296

Alphonse Maeder racconta di una signora che, il giorno prima del suo matrimonio, aveva dimenticato di provare il suo abito da sposa e, con disperazione della sarta, se ne rammentò solo a tarda sera. Egli mette in rapporto con questa dimenticanza il fatto che, poco tempo dopo, ella era già divorziata dal marito. Conosco una signora, ora divorziata da suo marito, che negli atti di amministrazione del suo patrimonio spesso firmava i documenti col cognome di ragazza, molti anni prima di riassumerlo effettivamente. So di altre donne che durante il viaggio di nozze hanno perso la fede nuziale e so anche che lo svolgimento del matrimonio ha conferito significato a questo fatto. E ora un altro esempio clamoroso, con esito migliore. Di un famoso chimico tedesco si racconta che il suo matrimonio non ebbe luogo, dato che aveva dimenticato l’ora dello sposalizio e invece che in chiesa si era recato in laboratorio. Fu così saggio da accontentarsi di quest’unico tentativo e morì celibe in tarda età.

Forse anche a voi è venuta l’idea che in questi esempi le azioni mancate abbiano preso il posto degli omina o presagi degli antichi. Ed effettivamente alcuni omina non erano altro che atti mancati, per esempio se si trattava di qualcuno che inciampava o cadeva a terra. È anche vero che altri omina avevano il carattere dell’accadere oggettivo, non dell’agire soggettivo. Ma voi non potete credere quanto sia difficile talvolta decidere, di fronte a un certo avvenimento, se esso appartenga all’uno o all’altro gruppo, tanto spesso il fare sa mascherarsi da esperienza passiva.

Ognuno di noi, che abbia alle sue spalle un’esperienza di vita piuttosto lunga, probabilmente ammetterà che avrebbe risparmiato a sé stesso molte delusioni e dolorose sorprese, se avesse trovato il coraggio e la decisione di interpretare come presagi i piccoli atti mancati sperimentati nei contatti umani e se avesse saputo avvalersene come segni di intenzioni ancora tenute segrete. Questa è perlopiù una cosa che non osiamo fare; avremmo l’impressione di ridiventare superstiziosi attraverso la via indiretta della scienza. Non tutti i presagi, inoltre, si avverano; ma apprenderete dalle nostre teorie che non c’è bisogno che si avverino proprio tutti.

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