QUINTO CAPITOLO
LA COSTITUZIONE ORIGINARIA DI ROMA
1 La casa e la famiglia romana.
Il padre, la madre, i figli, le figlie, la casa, i servi e le suppellettili sono gli elementi naturali, dei quali si compone l'organismo di una famiglia ovunque la poligamia non sopprime il diritto materno della donna. Ma i popoli suscettibili di maggiore coltura si distinguono in ciò, che concepiscono queste naturali antitesi più o meno profondamente, quali più complesse sotto l'aspetto morale, quali elaborate di preferenza sotto l'aspetto giuridico. Nessun popolo è pari al romano nell'esecuzione semplice, ma inesorabile, dei rapporti giuridici imposti dalla stessa natura. La famiglia, cioè l’uomo libero, che per la morte del padre è pervenuto al possesso di se stesso, con la donna affidategli solennemente in isposa dal sacerdote, perchè con essa egli abbia comune l'acqua ed il fuoco (confarreatio), coi figli, e coi figli dei figli e le loro legittime donne, e con le loro figlie nubili e le figlie dei figli, e tutti gli averi che ad essi spettano, forma una unità, dalla quale sono invece esclusi i figli delle figlie, poichè essi, se legittimi, appartengono alla famiglia del marito; se procreati illegittimamente non appartengono a nessuna famiglia. La propria casa con una numerosa figliuolanza è per il cittadino romano lo scopo e il perno della vita. La morte non è una sventura, perchè essa è necessaria; ma l'estinzione di una famiglia, o della schiatta, è una sciagura anche per la repubblica, la quale ne' primi tempi offriva a coloro che non avevano prole un mezzo legale per premunirsi contro questa fatalità con l'adozione di figli altrui.
Fin da principio la famiglia romana recava in sè le condizioni di un più alto sviluppo nella posizione moralmente coordinata dei membri che la componevano. Il marito soltanto poteva essere il capo della famiglia; la donna non era posposta all'uomo nell'acquisto di beni e di denaro; la figlia ereditava una parte eguale a quella del fratello, la madre una parte eguale a quella dei figli; ma nei rapporti civili la donna appartiene sempre alla famiglia e non al comune, ed anche in famiglia è necessariamente soggetta, la figlia al padre, la moglie al marito[1], l'orfana nubile al suo più prossimo parente maschio. Il padre, il marito, il tutore e non già il re, sono chiamati a pronunciare sentenza contro la donna in caso di bisogno. Ma nell'interno della casa la moglie non è serva, bensì padrona. Liberata dai lavori di macinazione del grano e della cucina, cui accudiscono i servi, la madre di famiglia a Roma si dedica essenzialmente ed esclusivamente alla sorveglianza delle fantesche ed al fuso, che è per la donna ciò che l'aratro è pel marito[2]. E così profondamente era sentito dalla nazione romana l'obbligo morale dei genitori verso i figli che era considerato come delitto se il padre trascurasse o corrompesse il proprio figlio o se sciupasse la sua fortuna con danno della prole. Ma legalmente la famiglia viene diretta ed ordinata dall'onnipotente volontà del padre di famiglia (pater familias). Tutto nell'interno della casa gli è soggetto, il bue e lo schiavo, non meno che la moglie ed i figli. Come la vergine diventa moglie in virtù della libera scelta del marito, così il figlio, che essa gli partorisce, diventa proprietà del marito (suus) solo quand'egli ha deliberato di allevarlo e non prima. Codesta massima non fu già suggerita da indifferenza pei vincoli del sangue, ma perchè nella coscienza del popolo romano era impressa profondamente l'intima persuasione che il fondamento della famiglia e la procreazione dei figli fossero non tanto un fatto naturale quanto una morale necessità e un dovere cittadino. Forse l'unico esempio di un soccorso accordato in Roma dal comune ai privati è la disposizione che assegna un sussidio a quel padre cui nascessero tre figliuoli in una volta. Che giudizio poi si facesse nell'esposizione dei bambini, lo dimostra il divieto religioso che condanna l'esposizione di qualsiasi bambino maschio e per lo meno della prima femmina ad eccezione degli aborti. Ma, per quanto biasimevole e dannosa sembrasse l'esposizione, il padre ne aveva il diritto, che nessuno poteva contestargli, perchè egli era e doveva rimanere il signore assoluto e illimitato in casa sua. Il padre di famiglia non solo teneva i suoi dipendenti sotto la più severa disciplina, ma aveva anche il diritto ed il dovere di esercitare su di essi la potestà giudiziaria e di infliggere loro, a suo criterio, pene corporali e di sangue. Il figlio giunto all'età maggiore poteva fondare una famiglia separata, poteva ottenere, assegnatogli dal padre, come dicevano i Romani, il suo proprio bestiame» (peculium); ma in linea di diritto era sempre proprietà del padre qualunque guadagno fatto da' suoi nella casa paterna sia col proprio lavoro, sia per dono altrui, e sino a che viveva il padre i soggetti alla patria potestà non potevano possedere beni propri, e per conseguenza non potevano nè alienare, nè lasciare i propri beni in eredità se non dietro autorizzazione ottenuta dal padre.
Sotto questo rapporto la moglie ed i figli sono nella identica condizione dello schiavo, al quale non di rado era concesso di avere una famiglia e, dietro autorizzazione del padrone, anche di alienare. Il padre poteva persino vendere ad un terzo il proprio figlio, come faceva dello schiavo; se il compratore era uno straniero il figlio diveniva suo servo, se egli era romano il figlio passava nelle mani del compratore come servo di fatto e non di diritto, perchè un romano non poteva essere servo d'un altro romano. La potestà patria e maritale non era sottoposta ad alcuna restrizione. Oltre l'accennata limitazione alla esposizione dei fanciulli, la religione pronunciava anche l'anatema contro colui che vendesse la propria moglie o il proprio figlio ammogliato; e gli stessi usi famigliari stabilirono che il padre, e più ancora il marito, nell'esercizio della giurisdizione domestica, non pronunciassero la sentenza sul figlio e sulla moglie senza aver primo consultato i più prossimi parenti tanto suoi che della moglie. Ma in questo ancora non v'era una giuridica diminuzione di potestà, poichè i parenti, che assistevano al tribunale domestico, non sedevano a giudicare, ma solo a consigliare il giudice padre di famiglia. La potestà domestica non soltanto era illimitata e non soggetta ad alcuna responsabilità, ma era invariabile ed indistruttibile finchè il padre viveva. Secondo la legislazione greca e la tedesca il figlio, divenuto maggiorenne, e perciò già indipendente di fatto, lo era di diritto, libero dalla patria potestà; a Roma la patria potestà non cessava nè in grazia dell'età, nè della demenza, nè per la stessa volontà del padre finchè questi era in vita: essa cessava solo nel caso che la figlia, in seguito a legittimo matrimonio, passasse dall'autorità del padre a quella del marito, dalla famiglia sua e dai suoi penati alla famiglia e sotto i penati del marito e divenisse soggetta a questo come fino allora era stata soggetta a suo padre. Il diritto romano offre più facilità al servo di riscattarsi dal padrone che al figlio dal padre. La liberazione dei servi fu introdotta presto e si effettuava senza molte difficoltà; quella dei figli è di data molto più recente ed aveva bisogno di complicate formalità. E se il padrone vendeva il servo e il padre il figlio, ed il compratore rendeva la libertà ad entrambi, il servo diveniva libero, ma il figlio ricadeva sotto la potestà paterna. In forza della inesorabile logica, colla quale fu concepita dai Romani la potestà patria e maritale, essa era stata trasformata in un vero diritto di proprietà. Se non che, malgrado questa quasi parificazione della domestica autorità sulla moglie e sulla prole col diritto di proprietà sullo schiavo e sul bestiame, i membri della famiglia erano però non solo di fatto, ma anche di pieno diritto, chiaramente distinti dai beni della famiglia. L'autorità domestica, anche astrazion fatta ch'essa non aveva vigore se non nell'interno della casa, assumeva poi in definitiva un carattere transitorio, e in certo modo rappresentativo. La moglie e la prole non esistono solo per soddisfazione del padre di famiglia, come la proprietà per il suo proprietario, come nello stato assoluto i sudditi pel re; essi sono bensì oggetti di diritto, ma nello stesso tempo hanno un proprio diritto: non sono cioè cose, ma persone. I loro diritti sono soltanto sospesi, perchè l'unità del governo della casa esige un solo rappresentante; ma quando muore il capo di casa, i figli subentrano naturalmente come capi di casa, e acquistano allora sulle mogli e sui figli e sui beni i diritti esercitati fino in quel punto dal padre, mentre invece colla morte del padrone, non si cambia menomamente la legale posizione del servo.