25. Sanniti e democratici battuti.
Ma con questa marcia su Roma non si trattava più di salvamento, ma solo di vendetta; era l'ultimo sfogo della rabbia dei rivoluzionari e specialmente della nazione sabellica ridotta alla disperazione.
A ragione Ponzio da Telesia disse ai suoi che per liberarsi dai lupi, che avevano rapita la libertà all'Italia, conveniva distruggere la foresta in cui essi vivevano.
Mai più spaventoso pericolo aveva minacciato Roma di quello del 1 novembre 672 = 82 quando Ponzio, Lamponio, Carrina, Damasippo, avvicinatisi a Roma dalla via latina piantarono il loro campo alla distanza di un quarto di miglio dalla porta Collina. Minacciava di essere una giornata come il 20 luglio 365 = 389, e come il 15 giugno del 455 dopo Cristo, i giorni dei Celti e dei Vandali.
Non erano più i tempi in cui il colpo di mano in Roma venisse considerato come una stolta impresa, e i temerari, che questa volta lo tentavano, non difettavano di segrete intelligenze con parecchi della capitale.
La schiera dei volontari, composta quasi tutta da giovanetti di famiglie nobili, che fece una sortita, scomparve dinnanzi all'immensa schiera degli assalitori. La sola speranza di salvezza era riposta in Silla.
Questi, appena appresa la partenza dell'esercito sannitico alla volta di Roma, levò subito il campo per accorrere in aiuto della capitale. L'apparizione dei suoi primi squadroni comandati da Balbo, venne durante la mattina a ravvivare lo smarrito coraggio dei cittadini; a mezzodì giunse egli stesso col grosso dell'esercito e dinanzi al tempio d'Afrodite ericina (non lungi da Porta Pia) dispose le sue schiere in ordine di battaglia.
I suoi luogotenenti lo scongiurarono di non costringere così presto le sue truppe stanche dalle marcie forzate al combattimento; ma avendo Silla seriamente riflettuto a quanto poteva accadere in Roma durante la notte, fece dare il segnale d'attacco, sebbene già incominciasse ad imbrunire.
La battaglia fu aspra e sanguinosa. L'ala sinistra di Silla comandata da lui stesso, si spinse sin sotto le mura, così che si dovette chiuderne le porte; soldati sbandati avevano già recata ad Ofella la notizia che la battaglia era perduta. Ma sull'ala sinistra Marco Crasso respinse il nemico e lo inseguì sino ad Antemnae, così che anche l'ala sinistra si riebbe e un'ora dopo il tramonto essa pure potè avanzare.
Si combattè tutta la notte e il mattino seguente; soltanto la diserzione di un corpo di 3000 uomini, i quali volsero tosto le armi contro gli antichi compagni, mise fine alla lotta. Roma fu salva. L'esercito degli insorti, ai quali non si era aperta via di scampo, fu completamente distrutto.
I prigionieri fatti in questa battaglia, che sommavano dai 3 ai 4 mila, tra cui i generali Damasippo, Carrina, e Ponzio, gravemente ferito, furono per ordine di Silla, il terzo giorno dopo la battaglia, condotti sul campo di Marte e tutti massacrati, così che nel vicino tempio sacro a Bellona, ove Silla teneva appunto una seduta di senatori, si udivano chiaramente lo stridore delle armi e i gemiti dei moribondi.
Fu questa una carneficina orribile e inescusabile; ma non si deve tacere che appunto quegli uomini così massacrati si erano gettati sulla capitale e sui cittadini come masnadieri, e che se avessero potuto, avrebbero distrutto col ferro e col fuoco quanto col ferro e col fuoco si può distruggere.