3. Battaglia sulla Trebbia.
Ma per evidente che ciò fosse, non era men vero che correva ormai il mese di dicembre, e che, quantunque procedendo nel suddetto modo, Roma avrebbe forse riportata la vittoria, l'onore della stessa non sarebbe toccato al console Tiberio Sempronio, il quale per la ferita ricevuta da Scipione aveva da solo il comando supremo dell'esercito, e il cui anno d'ufficio andava a compiersi tra pochi mesi.
Annibale conosceva l'uomo e nulla trascurò per eccitarlo alla battaglia; i villaggi gallici rimasti fedeli ai Romani furono barbaramente devastati, e quando in conseguenza di ciò si impegnò un combattimento di cavalleria, Annibale concesse agli avversari l'onore della vittoria.
Ma non tardò molto che, in una rigida e piovosa giornata, senza che i Romani se l'aspettassero, si venne alla battaglia campale.
Sino dai primi albori la fanteria leggera dei Romani aveva scaramucciato colla cavalleria leggera del nemico; questa cedeva lentamente, e i Romani, approfittando dell'ottenuto vantaggio, la inseguivano con impeto oltre la Trebbia, oltremodo ingrossata. Tutt'a un tratto la cavalleria si fermò; l'avanguardia dei Romani si trovò nel campo scelto da Annibale e di fronte al suo esercito schierato in battaglia; essa era perduta se il grosso dell'esercito non passava tosto il fiume. I Romani giunsero affamati, stanchi e bagnati, e si affrettarono ad ordinarsi, i cavalieri come al solito sulle due ali, la fanteria in mezzo. Le truppe leggere, che da ambo le parti formavano l'avanguardia, iniziarono il combattimento; ma quelle dei Romani ebbero ben presto scoccati contro la cavalleria quasi tutti i loro dardi e indietreggiarono; lo stesso avvenne sulle ali della cavalleria, molestata di fronte dagli elefanti e dai cavalieri cartaginesi, molto superiori in numero, che l'attorniavano a diritta e ad a manca. La fanteria romana si mostrò degna della sua fama; si battè in principio della battaglia con decisa superiorità contro la fanteria nemica, e anche quando, respinta la cavalleria romana, quella dei Cartaginesi coi suoi armati alla leggera potè svolgere i suoi attacchi contro la fanteria, questa, se non potè avanzare, nemmeno ripiegò.
Allora uscì improvvisamente da un'imboscata una schiera di 2000 uomini di scelta truppa cartaginese, metà a piedi e metà a cavallo, comandata da Magone, fratello minore di Annibale, la quale assalì l'esercito romano alle spalle facendo orribile strage nelle masse compatte. Le ali e le ultime file dell'esercito romano furono rotte, mentre la prima linea, che sommava a 10.000 combattenti, tenendosi strettamente serrata, ruppe la linea dei Cartaginesi e si aprì un varco attraverso i nemici, la cui fanteria (e specialmente quella degli insorti Galli) ebbe molto a soffrire.
Questo valoroso corpo di truppa, inseguito fiaccamente, giunse a Piacenza. Il resto dell'esercito fu in gran parte tagliato a pezzi e distrutto dalle truppe leggere nemiche e dagli elefanti nel tentare il passaggio del fiume; soltanto una parte della cavalleria ed alcuni distaccamenti di fanti, guadando il fiume, poterono raggiungere il campo senza essere inseguiti dai Cartaginesi, e arrivarono anch'essi a Piacenza[1].
Poche battaglie fecero tanto onore ai soldati romani quanto quella combattuta sulla Trebbia, e poche sono al tempo stesso quelle in cui toccò più grave accusa al capitano che le comandò; tuttavia chi vorrà esser giudice imparziale non dovrà dimenticare che la legge, la quale determinava che il supremo comando dovesse cessare in un dato giorno, era contraria al buon andamento della guerra, e che dai pruni non si raccolgono fichi.
Anche ai vincitori costò assai cara la vittoria. Sebbene le perdite nel combattimento fossero toccate particolarmente agli insorti celti, tuttavia perirono posteriormente in gran copia anche i vecchi soldati d'Annibale per le malattie cagionate dalla rigida e umida giornata, e soccombettero pure tutti gli elefanti meno uno.
Le conseguenze di questa prima vittoria riportata dall'esercito invasore fu che l'insurrezione nazionale si estese e si organizzò senza ostacolo in tutto il paese dei Celti.