14. Ritirata e disfatta dei pompeiani.
Per le scorrerie delle truppe di Cesare e per il cambiamento di partito dei comuni limitrofi, le provvigioni ora arrivavano scarse ai pompeiani, per cui presero finalmente la decisione di ritirarsi dietro la linea dell'Ebro, sul quale si affrettarono a gettare un ponte di barche al di sotto della foce del Sicori.
Cesare tentò di tagliare loro la ritirata oltre l'Ebro e di tenerli fermi in Lerida; ma finchè i nemici rimanevano padroni del ponte presso questa città ed egli non disponeva nè del guado nè del ponte presso di essa, non poteva dividere il suo esercito sulle due rive del fiume, nè stringere d'assedio la città. I suoi soldati lavoravano giorno e notte per far abbassare, colla escavazione di smaltitoi, le acque del fiume, affinchè la fanteria lo potesse passare a guado. Ma i preparativi dei pompeiani per passare l'Ebro furono portati a compimento prima che i cesariani dessero le disposizioni per assediare Lerida; quando, finito il ponte di barche, i pompeiani si misero in marcia verso l'Ebro sulla sinistra del Sicori, Cesare, sembrandogli che gli smaltitoi delle acque del fiume, cui lavoravano i suoi soldati, non fossero abbastanza inoltrati per servirsi del guado pel passaggio della fanteria, ordinò che passasse soltanto la cavalleria, affinchè, inseguendo il nemico col ferro alle reni, almeno lo trattenesse e gli recasse danno.
Ma quando le legioni di Cesare all'albeggiare scorsero le colonne nemiche, che dalla mezzanotte battevano in ritirata, esse, composte com'erano di veterani, compresero la strategica importanza di quella ritirata che le obbligava a seguire l'avversario in un paese lontano, impraticabile e folto di schiere nemiche. Aderendo alle loro preghiere il generale si decise a far passare il fiume anche alla sua fanteria, e sebbene l'acqua arrivasse sino alle spalle, pure fu passato senza alcun infortunio. Era ormai tempo.
Una volta percorso l'angusto piano che separa la città di Lerida dai monti fra i quali scorre l'Ebro, ed entrando l'esercito dei pompeiani nelle montagne, non poteva più essergli impedita la ritirata su questo fiume. Già essi vi si erano avvicinati sino alla distanza di una lega non ostante i continui attacchi della cavalleria nemica, che ritardavano enormemente la loro lunga marcia, quando, spossati, rinunciarono al loro piano primitivo di percorrere in quel giorno stesso tutta quella pianura, e posero il campo.
Qui li raggiunse la fanteria di Cesare che si accampò la sera e la notte di fronte ai pompeiani, i quali, per timore degli attacchi della cavalleria nemica, rinunciarono alla continuazione della prestabilita marcia notturna. Nel giorno seguente i due eserciti si mantennero nella stessa posizione, occupati soltanto a fare delle ricognizioni in paese. Il terzo giorno, di buon mattino, la fanteria di Cesare si mise in marcia per monti scoscesi, per poter chiudere ai nemici la via dell'Ebro girando la loro posizione.
Gli ufficiali pompeiani non indovinarono subito lo scopo della strana marcia, che sulle prime sembrava dover finire al campo dinanzi a Lerida. Quando se ne accorsero, abbandonarono campo e bagagli e si avanzarono a marcie forzate sulla via maestra per raggiungere la cresta dell'argine prima dell'esercito di Cesare. Ma era troppo tardi: quando vi giunsero si trovavano già sulla strada principale le ben serrate masse nemiche.
Un tentativo disperato dei pompeiani per trovare oltre l'erta del monte altre vie che conducessero all'Ebro fu reso vano dalla cavalleria romana la quale girò e fece a pezzi le truppe lusitane spinte innanzi a questo scopo.
Se fra l'esercito pompeiano, che aveva i cavalieri nemici alle spalle e la fanteria di fronte, e che era interamente demoralizzato, e quello di Cesare fosse avvenuta una battaglia, non si poteva dubitare dell'esito, e le occasioni di venire alle mani non mancavano; ma Cesare non le colse e dovette anzi, non senza difficoltà, frenare l'impazienza dei suoi soldati sicuri di uscirne vittoriosi.
L'esercito pompeiano era senz'altro strategicamente perduto; Cesare evitò di indebolire le sue forze con un inutile spargimento di sangue e d'inasprire di più la fatale guerra.
Fin dal giorno in cui Cesare era riuscito ad impedire ai pompeiani di accostarsi all'Ebro, i soldati dei due eserciti avevano cominciato a fraternizzare fra loro e a trattare la resa, anzi erano già state approvate da Cesare le condizioni fatte dai pompeiani, specialmente l'amnistia agli ufficiali, quando Petreio col suo seguito composto di schiavi e di Spagnuoli si gettò sui mediatori e fece mettere a pezzi tutti i cesariani che gli capitarono fra le mani.
Tuttavia Cesare rimandò illesi i pompeiani venuti nel suo campo e persistette nel suo piano di ottenere uno scioglimento pacifico. Ilerda, dove i pompeiani avevano ancora guarnigione ed importanti magazzini, era il luogo al quale essi miravano; ma avendo di fronte l'esercito nemico e tra essi e la fortezza il Sicori, marciavano senza avvicinarsi alla loro mèta.
La cavalleria fu a poco a poco presa da tale sbigottimento, che la fanteria dovette prenderla in mezzo e in vece sua furono formate le legioni per costituire la retroguardia; l'approvvigionamento d'acqua e di foraggio si faceva sempre più difficile; già si vedevano costretti ad ammazzare le bestie da soma per non poterle più mantenere. Finalmente l'errante esercito si vide chiusa ogni via d'uscita: alle spalle il Sicori, di fronte l'esercito nemico intento a scavare un fosso e a costruire un baluardo. Esso fece un tentativo di passare il fiume, ma lo prevennero i cavalieri germanici di Cesare e la sua fanteria leggera coll'occupazione della sponda opposta.
Non valse la prodezza, non la fedeltà ad impedire più a lungo l'inevitabile capitolazione (2 agosto 705 = 49). Cesare concesse agli ufficiali e ai soldati non solo la vita e la libertà, la proprietà di quanto ancora tenevano e la restituzione di quanto era stato loro tolto, il cui valore egli stesso si impegnò di restituire ai suoi soldati, ma, in opposizione a ciò che aveva praticato in Italia obbligando le reclute fatte prigioniere a entrare nelle file del suo esercito, egli rispettò quei vecchi legionari di Pompeo promettendo loro che nessuno sarebbe stato costretto ad entrare nelle sue legioni contro la sua volontà.
Egli li invitò soltanto a consegnare le armi e a ritornarsene alle loro case.
In conseguenza di ciò i soldati spagnuoli, che formavano la terza parte dell'esercito, furono immediatamente congedati, gl'italici lo furono al confine della Gallia transalpina e della Gallia cisalpina.
La Spagna citeriore venne da sè, collo scioglimento di quest'esercito, in potere del vincitore. Quando Marco Varrone, il quale comandava per Pompeo nella Spagna ulteriore, udì la catastrofe di Lerida, trovò conveniente ritirarsi colla flotta da lui composta e le due legioni affidategli nella città insulare di Cadice e di mettervi al sicuro le importanti somme di danaro da lui raccolte colla confisca dei tesori trovati nei templi e colle sostanze di ragguardevoli personaggi aderenti di Cesare.
Ma alla semplice notizia dell'arrivo di Cesare le più importanti città della provincia, a lui da lungo tempo affezionate, si dichiararono in suo favore, scacciarono i presidî pompeiani o li decisero a voltar bandiera; così fecero Cordova, Carmona e Cadice stessa. Anche una delle sue legioni, recandosi di propria volontà a Ispala, si dichiarò per Cesare d'accordo con questa città.
Quando finalmente la stessa Italia chiuse le porte a Varrone, questi si decise a capitolare.