5. Ritiro sul Monte sacro.
La prima crisi che dobbiamo studiare, non fu già l'opera del ceto respinto ad una secondaria posizione politica, sibbene quella degli angariati contadini. I rimaneggiati annali fanno succedere la grande rivoluzione politica l'anno 244 = 510, la sociale negli anni 259 = 495 e 260 = 494.
Benchè di fatto, la prima sommossa sociale abbia dovuto tener dietro assai presto al rivolgimento politico, da cui uscì la repubblica, sembra nondimeno che l'intervallo tra l'uno e l'altro fatto sia stato più lungo.
La rigida applicazione del diritto dei creditori contro i debitori – come narrano gli annali – suscitò l'irritazione di tutta la classe dei contadini. E quando l'anno 259 = 495 corse il bando per una leva, onde sostenere una guerra difficile, gli uomini iscritti per prendere le armi non risposero all'appello, cosicchè il console Publio Servilio dovette temporaneamente sospendere l'applicazione delle odiose leggi contro i debitori, ordinare che venissero posti in libertà i carcerati per debiti e che non si avesse a procedere ad ulteriori arresti. Allora soltanto i contadini accorsero e presero parte alla guerra ed alla vittoria. Ritornati dalle armi, la pace, ch'essi avevano conquistato col sangue fece loro ritrovare le carceri e le catene. Con spietata severità il secondo console Appio Claudio applicò la legge sui debitori, e il suo collega, a cui i contadini che avevano militato sotto di lui, si volsero implorando assistenza, non ebbe il coraggio di opporvisi. Pareva che si fosse introdotta la collegialità nella suprema magistratura non già per la protezione del popolo, ma per facilitare lo spergiuro e il dispotismo; si dovette fare di necessità virtù e tollerare ciò che non si poteva cambiare. Ma quando l'anno seguente si rinnovò la guerra, le parole del console più non valsero. I contadini si piegarono solo al dittatore Manio Valerio sia per timore del suo assoluto potere, sia per fiducia nei suoi sentimenti popolari.
I Valerii appartenevano ad una di quelle antiche nobili famiglie che consideravano il governo della repubblica come un dovere ed un onore e non già come una prebenda.
La vittoria si dichiarò ancora per le insegne romane; quando i vittoriosi ritornarono ai propri focolari, e il dittatore presentò al senato le sue proposte di riforma, esse furono respinte colla più pertinace opposizione.
L'esercito si trovava, come era uso, ancora unito dinanzi alle porte della città. Quando gli fu riportata la notizia del rifiuto, scoppiò il temporale che da lungo tempo andava addensandosi, e lo spirito di corpo e la coesione degli ordini militari trascinarono anche i pusillanimi e gli indifferenti. L'esercito abbandonò il suo duce e l'accampamento, e, condotto dai comandanti delle legioni e dai tribuni militari, per la maggior parte plebei, si diresse in buon ordine verso Crustumeria, sita tra il Tevere e l'Aniene, dove occupò un colle e si accinse a fondare una nuova città plebea in quella fertilissima parte dell'agro romano.
Questa marcia valse a chiarire con piena evidenza anche ai più tenaci oppressori della plebe come una simile guerra cittadina dovesse necessariamente finire anche colla loro rovina economica; il senato cedette.
Il dittatore si interpose per un accomodamento; i cittadini rientrarono in città, la concordia venne apparentemente ristabilita.
Il popolo chiamò d'allora in poi Manio Valerio col nome di Massimo (Maximus) e disse «sacro» il monte al di là dell'Aniene.
In questa rivoluzione, scoppiata senza preordinazioni e condotta a termine dalle moltitudini senza spargimento di sangue e ricordata sempre con compiacenza e con orgoglio dai cittadini, si rivela qualche cosa che tocca il sublime.
Le sue conseguenze furono sentite per molti secoli e da essa trasse origine il tribunato del popolo.