10. Sconfitta e morte degli Scipioni.
Questa piega delle cose in Africa ebbe gravi conseguenze anche per la guerra di Spagna. Asdrubale potè ritornare di nuovo nella penisola (543=211), ove lo seguirono ben presto ragguardevoli rinforzi e Massinissa stesso.
Gli Scipioni, i quali durante l'assenza del supremo comandante nemico (541-242=213-212) avevano continuato a far bottino e ad ottenere aderenti nel territorio cartaginese, si videro inaspettatamente assaliti da forze tanto superiori, che non ebbero altra via di scelta che ritirarsi oltre l'Ebro o eccitare gli Spagnuoli a prendere le armi. Scelsero questo ultimo partito e assoldarono 20.000 Celtiberi.
Per affrontare meglio i tre eserciti nemici comandati da Asdrubale Barca, da Asdrubale figlio di Giscone, e da Magone, gli Scipioni divisero il loro esercito e non conservarono unite nemmeno le loro truppe romane. Così facendo si prepararono alla rovina.
Mentre Gneo col suo esercito, composto di un terzo delle truppe romane e di tutte le truppe spagnuole, stava accampato di fronte ad Asdrubale Barca, questi, mediante denaro, decise senza gravi difficoltà gli Spagnuoli, che militavano nell'esercito romano, ad abbandonare quelle insegne, ciò che, secondo la loro morale da lanzichenecchi, non può considerarsi forse nemmeno come una fellonia, poichè essi non passarono dalla parte dei nemici di colui che li aveva assoldati.
Al comandante romano toccò battere colla massima sollecitudine in ritirata inseguito dai nemici colla spada alle reni.
Nel frattempo il secondo esercito romano, comandato da Publio, fu messo alle strette dai due eserciti cartaginesi comandati da Asdrubale figlio di Giscone e da Magone; le ardite schiere di cavalleria di Massinissa diedero ai Cartaginesi un deciso vantaggio.
Il campo dei Romani era ormai quasi circondato e lo sarebbe stato compiutamente all'arrivo delle truppe ausiliare spagnuole che erano già in marcia. L'ardita risoluzione del proconsole di andare ad incontrare gli Spagnuoli colle migliori sue truppe prima che col loro arrivo si chiudesse completamente il blocco, non ebbe esito felice.
I Romani avevano da principio ottenuto qualche vantaggio; ma la cavalleria numidica, che inseguì rapidamente le schiere uscite dal campo, le ebbe tosto raggiunte ed arrestò tanto il proseguimento della vittoria già riportata per metà, quanto la ritirata, finchè l'arrivo della fanteria cartaginese e la morte del comandante mutò la perduta battaglia in una vera sconfitta. Morto così Publio, Gneo, indietreggiando lentamente e a mala pena difendendosi contro uno degli eserciti cartaginesi, fu repentinamente attaccato da tre eserciti ed ebbe tagliata ogni ritirata dalla cavalleria numida.
Spinto verso una collina scoperta, che non offriva nemmeno la possibilità di accampare, tutta la divisione da lui comandata fu tagliata a pezzi o fatta prigioniera: di Gneo non si ebbe alcuna sicura notizia. Un valoroso ufficiale della scuola di Gneo, Gaio Marcio, salvò solo una piccola divisione conducendola sull'opposta sponda dell'Ebro, ove il legato Tito Fonteio riuscì a condurre a salvamento la parte dell'esercito di Publio che era rimasta nel campo; e colà potè rifugiarsi persino la massima parte dei presidii romani disseminati nella Spagna meridionale.
I Cartaginesi signoreggiarono allora tranquilli tutta la Spagna sino all'Ebro e non sembrava lontano il momento in cui, varcato che avessero quel fiume, sarebbe ridivenuto libero il passo dei Pirenei e sarebbero riannodate le relazioni con l'Italia.
La necessità mise allora alla testa dell'esercito romano l'uomo adatto. Lasciati da una parte i più vecchi ed inetti ufficiali, l'esercito elesse a suo duce Gaio Marcio. La sua abilità e, forse, non meno di essa, l'invidia e la discordia sorte fra i comandanti cartaginesi, strapparono a questi gli ulteriori frutti dell'importante vittoria. I Cartaginesi che avevano passato il fiume, furono respinti sull'altra sponda, e la linea dell'Ebro venne mantenuta fintanto che Roma potè inviare in Spagna un nuovo esercito ed un nuovo duce.
Fu ventura che lo permettesse la buona piega della guerra d'Italia, dove appunto allora era avvenuta la resa di Capua.
Fu dunque fatta partire una legione forte di 12.000 uomini capitanata dal propretore Caio Claudio Nerone, la quale ripristinò l'equilibrio delle forze. Un'altra spedizione fatta l'anno seguente (544=210) nell'Andalusia fu coronata anche da miglior successo; Asdrubale fu circondato e si sottrasse alla capitolazione solo con riprovevole astuzia, violando apertamente la parola data.
Ma Nerone non era il capitano che convenisse per la guerra di Spagna. Egli era un valente ufficiale, ma era altresì un uomo duro, impetuoso, impopolare, non abbastanza destro per riannodare le antiche relazioni ed iniziarne di nuove, nè per trarre partito dalle ingiustizie e dall'arroganza con cui i Cartaginesi, dopo la morte degli Scipioni, trattavano tutti indistintamente gli Spagnuoli indispettendo amici e nemici.
Il senato, convenientemente apprezzando l'importanza e la specialità della guerra di Spagna, informato dagli Uticensi fatti prigionieri dalla flotta romana dei grandi preparativi che si facevano in Cartagine per mandare Asdrubale e Massinissa con un formidabile esercito oltre i Pirenei, deliberò di spedire in Spagna nuovi rinforzi ed un comandante straordinario, di rango superiore, la cui nomina si credette bene lasciare al popolo.