15.Controllo del senato.
La vera garanzia di una buona amministrazione consiste in una severa e uniforme sorveglianza della suprema autorità amministrativa; e il senato era, in questo, completamente deficiente. Sotto questo rispetto il regime collegiale si rivelò debole e disadatto.
I governatori avrebbero dovuto essere de iure sottoposti ad una sorveglianza molto più severa e diversa da quella che era stata giudicata sufficiente per le amministrazioni comunali italiche; e ora, che lo stato comprendeva molto territorio d'oltremare, era necessario aumentare le istituzioni, per mezzo delle quali il governo si riservava l'ispezione generale.
Di entrambe queste cose avvenne il contrario. I governatori dominavano da sovrani; e la più importante istituzione, che serviva a quella suprema ispezione, cioè il censo dello stato, fu estesa anche alla Sicilia, ma a nessuna delle altre province posteriormente conquistate.
Questa emancipazione dei supremi ufficiali amministrativi dell'autorità centrale era cosa più che sospetta.
Il governatore romano, alla testa degli eserciti dello stato, e disponendo di ragguardevoli risorse finanziarie, soggetto soltanto ad un debole controllo giudiziario e di fatto indipendente dalla suprema amministrazione, spinto finalmente da una certa necessità di scindere il proprio interesse e quello dei suoi amministrati da quello della repubblica romana, contrapponendo anzi gli uni all'altro, rassomigliava piuttosto ad un satrapo persiano che non ad un mandatario del senato romano dei tempi delle guerre sannitiche.
Un uomo, che aveva appunto esercitato una legale tirannide militare all'estero, poteva difficilmente ritrovare la via per restituirsi a vivere nella comunità cittadina, che distingueva bensì uomini che comandavano e uomini che ubbidivano, ma non già signori e servi.
Anche il governo s'accorse che i due principî fondamentali, l'eguaglianza tra l'aristocrazia e la sottomissione dei magistrati al senato, cominciavano allora a scomparire.
Dall'avversione che aveva il governo per l'acquisto di nuove province e per tutto il sistema provinciale, dall'istituzione delle questure provinciali, le quali erano destinate a togliere dalle mani dei governatori per lo meno l'amministrazione delle finanze, dall'abolizione della disposizione, in sè tanto conveniente, di nominare i governatori per lunga durata, si rivela il timore che inquietava i previdenti uomini di stato sulla messe che si doveva raccogliere da una simile seminagione.
Ma la diagnosi non è la cura. Il regime interno della nobiltà s'andava sviluppando nella direzione assegnatagli e la decadenza dell'amministrazione e del sistema delle finanze – precorritrice di future rivoluzioni ed usurpazioni – progrediva, se non inosservata, per lo meno senza ostacoli.
Se la differenza tra la nuova nobiltà ed il resto della borghesia non era così grande come colla vecchia aristocrazia ereditaria, e se, questa di diritto, quella solo di fatto, recava nocumento al resto della cittadinanza nella comunione dei diritti politici, l'inferiorità di fatto era appunto più difficile a sopportarsi e più difficile a scuotersi che non quella di diritto.
Non pochi tentativi furono fatti, come era ben naturale, in questo senso.
L'opposizione si appoggiava sull'assemblea popolare come la nobiltà sul senato. Per comprendere questa opposizione è, prima di tutto, necessario descrivere lo spirito della cittadinanza romana di questo tempo e conoscere la sua posizione nella repubblica.