12. I Cimbri.
Ma queste vittorie ebbero conseguenze che i vincitori non avevano previsto.
Un «popolo nomade» errava da lungo tempo sul lembo settentrionale del paese sulle due sponde del Danubio occupato dai Celti. Erano i Cimbri, detti Chempho o Chempi, che i loro nemici traducevano in ladroni, denominazione divenuta popolare secondo ogni apparenza ancor prima della loro emigrazione.
Essi venivano dal settentrione e prima si incontrarono con i Celti, per quanto si sa, a monte dei Boi stanziati in Boemia.
I contemporanei non si diedero pensiero di registrare dati più precisi sulla causa e sulla direzione della loro marcia[12], e siccome manchiamo assolutamente di ogni notizia che si riferisca alle condizioni in cui in quel tempo si trovava il paese al nord della Boemia e del Meno e all'est del Reno inferiore, sono impossibili le supposizioni.
Invece abbiamo dei fatti incontestabili i quali provano che i Cimbri, come i Teutoni, ad essi congiunti per origine, appartengono alla nazione tedesca, non alla celtica, a cui i Romani prima li ascrivevano. Questi fatti sono: l'apparizione di due piccole tribù omonime, avanzi a quanto pare rimasti nella originaria loro sede, di Cimbri cioè nell'odierna Danimarca, di Teutoni al nord est della Germania in prossimità del Mar Baltico, di cui già Pitea contemporaneo di Alessandro Magno fa menzione parlando del commercio dell'ambra; l'iscrizione dei Cimbri e dei Teutoni nel quadro dei popoli germanici sotto gli Ingevoni vicino a Cauci; il giudizio di Cesare, che fu il primo a far conoscere ai Romani la differenza che passava tra i Tedeschi e i Celti, annoverando fra i popoli tedeschi i Cimbri, dei quali egli stesso deve averne veduto alcuni; finalmente gli stessi nomi dei popoli e la descrizione della loro costituzione fisica e del loro carattere, che si adattano in generale ai popoli settentrionali, ma specialmente ai Tedeschi.
È poi naturale, che in tale moltitudine entrasse per non poco l'elemento celtico, non potendosi dubitare che colle peregrinazioni di forse decine d'anni e delle sue scorrerie verso e sul territorio celtico, essa non abbia volentieri accolto nelle sue file chiunque si presentasse; perciò non deve far meraviglia se alla testa dei Cimbri vediamo uomini di paese celtico, o se i Romani si servono di uomini che parlano la lingua celtica per spiarli.
Era una strana spedizione di cui i Romani non avevano mai veduto l'uguale; non si poteva chiamare una spedizione di ladroni, e nemmeno una «primavera sacra» di gioventù emigrante, ma era un popolo che emigrava colle mogli e coi figli, con ogni suo avere, in cerca di una nuova patria. Il carro, che non aveva presso i popoli ancora seminomadi del settentrione il medesimo significato che ebbe presso gli Elleni e gli Italici, e che anche dai Celti si conduceva nel campo, serviva loro per così dire di casa, in cui sotto il letto di pelle accanto alle suppellettili si nascondevano la moglie, i figli e persino il cane.
I meridionali osservavano meravigliati quelle snelle figure dalle biondissime chiome e dagli occhi azzurri, le donne rudi e maestose che di poco la cedevano di statura e forza agli uomini, i figli dai capelli canuti, come gli Italici qualificavano meravigliati i giovani del settentrione per le capigliature color lino.
La loro arte militare in sostanza era quella dei Celti di questo tempo, che più non combattevano, come usavano gli Italici, a testa scoperta e solo con la daga e col pugnale, ma coperti di elmi di rame riccamente ornati e con un'arma speciale da getto, detta materis: avevano poi conservato il grande brando e lo scudo lungo e stretto, insieme al quale portavano pure una specie di corazza. Non difettavano di cavalleria; però i Romani in quest'arma li superavano.
L'ordine di battaglia era come si usava anticamente, una falange rozza e composta in larghezza e profondità di un numero uguale di file, la prima delle quali nei conflitti pericolosi non di rado era unita con funi che attraversavano le cinture metalliche di cui erano coperti i soldati.
I costumi erano rozzi. Si cibavano spesso di carne cruda. Il loro duce era il più valoroso e per quanto fosse possibile l'uomo di più alta statura.
Non di rado col nemico, secondo il costume dei Celti e in generale dei barbari, si prestabiliva il giorno e il luogo della battaglia e prima che incominciasse si provocava un avversario a singolar tenzone.
Gesti indecenti di dileggio e di scherno d'ogni sorta, un orribile chiasso sollevato dagli uomini che emettevano selvaggi gridi di guerra e le donne e i fanciulli che percuotevano le coperte di pelle dei carri, erano il segnale della battaglia.
Il Cimbro combatteva da valoroso – poichè la morte sul campo dell'onore era per lui la sola degna di un uomo libero – ma dopo la vittoria si mutava in bestia selvaggia avendo già prima promesso agli dei delle battaglie quanto la vittoria avrebbe potuto dargli in preda. Allora distruggevano le macchine, ammazzavano i cavalli, impiccavano i prigionieri, serbati talvolta solo per offrirli in olocausto agli dei.
Erano le sacerdotesse donne canute, avvolte in bianchi lini e scalze, che, come Ifigenia presso gli Sciti, compivano questi sacrifici e dal sangue che cadeva dal prigioniero ucciso o dal delinquente predicevano l'avvenire. Quanto di questi costumi convenga attribuire agli usi generali dei barbari del nord, quanto sia stato preso dai Celti, quanto vi sia di puramente tedesco non sapremo indicare; si deve solo ritenere senza alcun dubbio come costume tedesco il modo di accompagnare o far accompagnare l'esercito non da sacerdoti ma da sacerdotesse.
Così s'inoltravano in paese sconosciuto i Cimbri, un'immensa accozzaglia di popoli diversi, formatasi partendo dal mar Baltico intorno ad un nucleo di emigrati tedeschi, non dissimile del tutto alle masse degli emigranti che ai nostri giorni passano i mari nelle medesime condizioni; essi si inoltravano coi loro pesanti carri, con la destrezza che si acquista con una lunga vita nomade tra fiumi e montagne; pericolosi per le nazioni più civili come le onde e le bufere, ma come queste capricciosi e instabili, ora rapidamente avanzandosi, ora arrestandosi ad un tratto, o volgendo da un lato o retrocedendo.
Essi comparivano e colpivano come il fulmine, e, in quel tempo di barbarie, non si trovò disgraziatamente nemmeno un osservatore che giudicasse degna di essere descritta con precisione quella meravigliosa meteora. Quando più tardi si cominciò a intravedere la catena di cui questa emigrazione, – la prima tedesca che venisse a contatto coll'antica civilizzazione – era un anello, la notizia viva ed immediata della medesima si era da lungo tempo offuscata.