3. Pompeo di fronte ai partiti.
Pompeo, che aveva scelto bene il momento per assumere la missione dell'oriente, pareva che volesse proseguire.
Nell'autunno del 691 = 63 arrivò nella capitale Quinto Metello Nepote, proveniente dal campo di Pompeo, e si presentò quale candidato al tribunato colla manifesta intenzione di procurare nella sua qualità di tribuno del popolo il consolato del 693 = 61 a Pompeo e subito dopo, con un plebiscito, il comando della guerra contro Catilina.
Immensa era l'agitazione in Roma. Non era da dubitare che Nepote agisse per ordine diretto od indiretto di Pompeo. La richiesta di Pompeo di venire in Italia come supremo duce alla testa delle sue legioni asiatiche e di assumervi il supremo potere militare e civile veniva considerata come un altro passo sulla via per arrivare al trono, e la missione di Nepote come la proclamazione semi-ufficiale della monarchia.
Tutto dipendeva dal modo con cui i due grandi poteri politici accoglierebbero queste manifestazioni; la loro condizione futura e l'avvenire della nazione dipendeva da ciò. Ma l'accoglienza che fu fatta a Nepote fu suggerita dalla condizione molto singolare in cui si trovavano i partiti di fronte a Pompeo. Pompeo si era recato in oriente come generale della democrazia. Egli aveva sufficienti motivi per essere malcontento di Cesare e de' suoi seguaci, ma con questi non era avvenuta un'aperta rottura. È probabile che Pompeo, assai lontano da Roma e occupato diversamente, e oltre ciò privo del dono di orientarsi politicamente, non s'avvedesse, almeno allora, della estensione e della concentrazione degli intrighi tessuti dai democratici contro di lui, e che forse, anche conoscendoli, con l'altero e disdegnoso suo carattere mettesse un certo orgoglio nell'ignorare questa operosità da talpe. Si aggiunga – ciò che ha un gran peso in un carattere come quello di Pompeo – che la democrazia non aveva mai mancato di mostrare un esteriore rispetto verso il grand'uomo; anzi appunto in questa circostanza (691 = 63) gli aveva conferito spontaneamente con un apposito plebiscito, e come egli lo desiderava, onori e decorazioni inaudite.
Però, quando pure tuttociò non fosse avvenuto, Pompeo, badando al proprio interesse, doveva, almeno apparentemente, attenersi tuttavia al partito popolare; la democrazia e la monarchia sono così intimamente affini, che Pompeo, stendendo la mano alla corona, non poteva a meno di dirsi, come era stato fino allora, il difensore dei diritti del popolo.
Mentre per tal modo concorrevano cause personali e politiche affinchè, nonostante tutto l'accaduto, fosse mantenuto il passato legame fra Pompeo ed i corifei della democrazia, dalla parte opposta, invece, nulla si faceva per colmare l'abisso che lo separava dai suoi partigiani sillani dell'epoca del suo passaggio nel campo della democrazia.
La sua personale controversia con Metello e con Lucullo si riportava alle estese ed influenti loro consorterie. Una meschina opposizione del senato, che appunto per la sua meschinità, trattandosi di un carattere leggero, riusciva altrettanto più irritante[1], lo aveva annoiato durante la sua carriera di generale.
Egli era rimasto profondamente addolorato, che il senato non avesse fatto assolutamente nulla per onorare meritamente e in modo straordinario il grande uomo. Finalmente non si deve dimenticare che l'aristocrazia, appunto allora era inebriata della sua recente vittoria e la democrazia era profondamente avvilita e che la prima era diretta dal ridicolo e semi-pazzo Catone e la seconda da Cesare, pieghevole maestro di intrighi.