16. Pompeo.
Più importante di questi singoli mutamenti di partito fu quello della provincia del Piceno, dovuto essenzialmente al giovine Gneo Pompeo figlio di Strabone.
Questi, come suo padre, sulle prime non partigiano della oligarchia, aveva fatto adesione al governo rivoluzionario ed era entrato persino nell'esercito di Cinna; ma non gli fu perdonato che suo padre aveva impugnato le armi contro la rivoluzione.
Egli si accorse che molti gli erano nemici, e infatti fu minacciato persino della perdita di tutta la sua notevole sostanza in seguito al processo per la restituzione del bottino, che suo padre, dopo la presa d'Ascoli, realmente o secondo quello che si diceva, aveva sottratto.
Più dell'eloquenza del consolare Lucio Filippo e del giovane Lucio Ortensio potè la protezione del console Carbone, a lui personalmente affezionato, per impedire che fosse spogliato di ogni suo avere; ma rimase la mala disposizione degli animi.
All'annunzio dello sbarco di Silla, Pompeo si recò nel Piceno ove aveva dei vasti possedimenti, e fin dal tempi di suo padre e della guerra federale contava vantaggiose aderenze nei municipi, e sollevò in Auximum (Osimo) la bandiera del partito degli ottimati.
Quella provincia, abitata per la maggior parte da cittadini antichi, si diede in suo potere; i giovani, che per la maggior parte avevano servito con lui sotto suo padre, accorsero volentieri sotto le bandiere del valoroso duce, che, non contando ancora ventitrè anni, era ugualmente buon soldato e buon generale, e nei combattimenti precedeva a cavallo i suoi e pugnava da valoroso.
Il corpo dei volontari piceni s'accrebbe ben presto di tre legioni: l'improvvisato generale approfittando dei dissensi sorti tra le divisioni poste sotto il comando di Clelio, di Caio Albio Carrina, di Lucio Giunio Bruto Damasippo[6] e spedite dalla capitale per sedare l'insurrezione, seppe evitarle o battere l'una dopo l'altra e ristabilire le comunicazioni con l'esercito principale di Silla stanziato probabilmente nell'Apulia.
Silla lo salutò imperatore, cioè generale che non aveva da altri il comando, a lui non inferiore, ma uguale, e insignì di tali ordini il giovanetto, come non ne aveva mai concesso ad alcuno dei suoi dipendenti, probabilmente non senza lo scopo di dare così indirettamente una lezione ai suoi partigiani per la loro sleale debolezza.
Così molto accresciuti d'animo e di forze materiali, Silla e Metello dall'Apulia giunsero nella Campania, attraversando il paese sannitico sempre in rivolta.
Anche l'esercito principale si diresse a questa volta, e sembrava che qui si dovesse venire ad uno scontro decisivo.
L'esercito del console Caio Norbano si trovava già presso Capua, dove appunto si era costituita con tutta la Roma democratica la nuova colonia; il secondo esercito consolare si avanzava ugualmente sulla via Appia. Ma prima del suo arrivo Silla era già di fronte a Norbano.
Un ultimo tentativo di accordo fatto da Silla non ebbe altro risultato che un affronto ai suoi inviati.
Con rinnovato sdegno, le sue schiere, avvezze alla battaglia, si gettarono sul nemico; il loro urto fu violento; giù dal monte Tifata, disperse alla prima carica il nemico disposto nella pianura, e Norbano col resto dei suoi si gettò nella colonia rivoluzionaria di Capua e in Napoli, che era abitata dai neo-cittadini, lasciandosi qui bloccare.
Le truppe di Silla avendo sino allora non senza inquietudine confrontato il loro debole numero colle masse nemiche, acquistarono per questa vittoria la coscienza della loro superiorità militare; invece d'indugiare assediando i residui dell'esercito sconfitto, Silla fece bloccare la città dove essi si erano ricoverati ed egli si avanzò sulla via Appia verso Teano ove s'era accampato Scipione.