14. La costituzione di C. Gracco.
Questa è la costituzione politica, che Caio Gracco aveva ideato e che nei più salienti suoi punti aveva attuato durante due anni (631-632 = 123-122) del suo tribunato popolare, e, per quanto ci consta, senza trovare ostacolo meritevole di essere menzionato, e senza aver dovuto impiegare la forza per raggiungere i suoi scopi.
La confusa tradizione di queste misure non ci lascia più riconoscere l'ordine nel quale furono adottate, e ci impedisce di rispondere alle più naturali domande; pure ciò che manca non sembra di gran rilievo, giacchè sulle cose principali noi abbiamo dati perfettamente sicuri, nè Caio fu spinto come suo fratello sempre più innanzi dalla forza degli avvenimenti, ma evidentemente mise completamente in pratica nella sua essenza, con una serie di leggi speciali, il ben meditato suo piano.
Che Caio Gracco non volesse assolutamente stabilire la repubblica romana su nuove basi democratiche, come molti ingenui degli antichi tempi e dei recenti l'hanno creduto, ma distruggerla e sotto la forma di un ufficio reso perpetuo colla permanente rielezione, e reso assoluto coll'arbitraria dominazione dei comizi formalmente sovrani, insomma di un illuminato tribunato popolare a vita, volesse sostituire alla repubblica la tirannide, cioè, sotto il concetto nostro, non la monarchia feudale, nè la teocratica, ma la monarchia assoluta napoleonica, la stessa costituzione sempronia lo prova chiaramente a tutti coloro che hanno occhi e vogliono aprirli.
E se Gracco, come apertamente lo attestano le sue parole, e più apertamente le sue opere, mirava di fatto alla caduta del governo senatorio, quale altro ordinamento politico possibile, all'infuori della tirannide, rimaneva alla repubblica dopo la caduta del governo aristocratico?
Visionari come il suo predecessore e teste pazze come sorsero di poi, possono ben negarlo, ma Caio Gracco era un uomo di stato, e sebbene non ci sia pervenuto il formulario, che il grand'uomo aveva concepito per la sua grande opera, e questa si possa immaginare assai diversamente, pure è necessario ammettere che egli non ignorasse quello che faceva.
Sebbene non si possa non riconoscere la meditata usurpazione del potere monarchico, chi conosce le circostanze non potrà biasimare Gracco per questo. Una monarchia assoluta è una grande sventura per la nazione, ma meno grande di una oligarchia assoluta, e chi impone alla nazione un male minore invece di un maggiore, non potrà essere rimproverato dalla storia; meno di tutti poi lo sarà una natura così appassionatamente seria, e così lontana dalla comune, come quella di Caio Gracco.
Ma la storia tuttavia non deve passare sotto silenzio, che in tutte le sue leggi entrò un perniciosissimo spirito di contrasti, mirando esse da un lato al pubblico bene, e ubbidendo dall'altro a scopi personali, anzi alla vendetta personale del dominatore.
Gracco si adoprò seriamente a trovare un rimedio ai mali sociali ed a mettere un argine al dilagante pauperismo; pure con le sue distribuzioni di grano, che dovevano essere e furono un premio per tutta la feccia cittadina affamata e nemica del lavoro, dette consapevolmente vita, nelle vie della capitale, a un proletariato della peggiore specie.
Biasimando con le più acerbe parole la venalità del senato, Gracco fece anzitutto conoscere, senza alcuna riserva e con giusto rigore, lo scandaloso traffico che Manio Aquilio aveva esercitato colle province dell'Asia minore[8].
Ma era questa l'opera dello stesso uomo, il quale voleva che il popolo sovrano della capitale, per le cure che si prendeva del governo, venisse mantenuto dai sudditi.
Gracco biasimava acerbamente il vergognoso saccheggio delle province e non solo ordinò che nei singoli casi si procedesse con salutare rigore, ma ancora che fossero soppressi i tribunali senatorî assolutamente insufficienti, innanzi ai quali persino Scipione Emiliano aveva invano impiegata ogni sua autorità, onde i più scellerati malfattori subissero la meritata pena.
Pure, mediante l'istituzione dei giudizi commerciali, Caio abbandonò i provinciali alla mercè del partito degli speculatori, e quindi nelle mani di un dispotismo ancora più inesorabile dell'aristocratico, e introdusse nell'Asia un regime d'imposte, al cui confronto si poteva dire mite e umano persino quello esistente in Sicilia, modellato sul cartaginese, e ciò perchè gli occorrevano nuove e abbondanti fonti di ricchezza, sia per il partito degli speculatori, sia per le sue distribuzioni di cereali, e per far fronte ad altri recenti aggravi alle finanze.
Gracco metteva senza dubbio tutto il suo impegno, come ne fanno fede le molte, veramente assennate, sue disposizioni, per avere un governo forte ed una ben regolata amministrazione della giustizia; ciò non pertanto il nuovo sistema di governo è fondato su una serie di singole usurpazioni solo in apparenza legalizzate; ciò non pertanto egli trasse nel vortice della rivoluzione l'amministrazione giudiziaria, che ogni stato ben ordinato deve, per quanto è possibile, essere sollecito di porre non già al di sopra, ma al di fuori dei partiti politici.
La causa di tale contrasto nelle tendenze di Caio Gracco si deve senza dubbio cercare piuttosto nelle circostanze che nell'uomo. Già sulla soglia della tirannide si sviluppa il fatale dilemma politico morale, che lo stesso uomo deve per così dire mantenersi al tempo stesso qual capo di assassini e dirigere lo stato come primo cittadino; dilemma a cui Pericle stesso, Cesare, Napoleone hanno dovuto fare notevoli sacrifici.
La condotta di Caio Gracco non si saprebbe però interamente spiegare con questa necessità; accanto a quest'opera, è in lui la divorante passione, l'ardente vendetta di chi, prevedendo la propria fine, lancia il tizzone sulla casa del nemico. Disse egli stesso che cosa pensasse della sua legge sui giurati e di altre misure simili tendenti a suscitare la discordia nell'aristocrazia; le chiamava pugnali da lui gettati nel foro, affinchè i cittadini – ben inteso i cospicui – si dilaniassero gli uni con gli altri.
Egli era un incendiario politico; non solo la rivoluzione secolare, che ebbe principio sotto di lui, è, in quanto può essere l'opera di uomo, opera di Caio Gracco, ma egli è pure il vero promotore di quel terribile proletariato che, stipendiato e accarezzato dall'alto, e attirato nella capitale dalle distribuzioni di grano, vi si trovava in parte completamente demoralizzato, in parte conscio della sua forza, e colle goffe e maliziose sue pretese e collo spauracchio della sovranità popolare, dopo aver gravitato per cinque secoli come un incubo sulla repubblica romana, solo con essa tramontò.
E malgrado tutto ciò quest'uomo, il maggiore dei delinquenti politici, è pure il rigeneratore del suo paese. È difficile trovare nella monarchia romana un'idea feconda, che non risalga a Caio Gracco. Da lui si ripete la massima fondata in un certo senso sull'antico diritto di guerra, ma in tale estesa applicazione estranea al più antico diritto di stato, che tutto il suolo dei comuni vassalli sia da considerarsi come proprietà privata dello stato; massima di cui anzitutto si profittò per rivendicare allo stato il diritto di mettere su questo suolo imposizioni a piacimento, come era praticato in Asia, o di servirsene per fondare colonie come in Africa, e che divenne poi al tempo degli imperatori massima fondamentale di diritto.
Da lui i demagoghi e i tiranni, facendosi un'arma degli interessi materiali, appresero come atterrare l'aristocrazia dominante e in genere ottennero un postumo riconoscimento della mutata costituzione, sostituendo una severa e conveniente amministrazione al malgoverno sino allora durato.
A lui si devono anzitutto i principî d'un accordo tra Roma e le province, come lo esigeva inevitabilmente il ripristino della monarchia: il tentativo della riedificazione di Cartagine distrutta dalla rivalità italica, e in generale gli sforzi per aprire all'emigrazione italica la via delle province, sono il primo anello della lunga catena di questo salutare sviluppo. In quest'uomo singolare e in questa mirabile costellazione politica sono così meravigliosamente fuse ragione e colpa, fortuna e sventura, che in questo caso, ciò che avviene di rado, bene si addice alla storia di far tacere il proprio giudizio.