8. Fabio Minucio.
Il comandante della cavalleria romana Marco Minucio, che durante l'assenza del dittatore, nella qualità di suo luogotenente, aveva il supremo comando nel campo dei Romani, giudicò propizia l'occasione per avvicinarsi maggiormente al nemico e mise il campo nel territorio di Larino[3], dove potè impedire colla sua presenza che i distaccamenti scorressero il paese e, per conseguenza, venisse approvvigionato l'esercito nemico; di più, mercè una serie di scontri fortunati, sostenuti dalle sue truppe contro i Cartaginesi e persino contro lo stesso Annibale, gli riuscì di scacciare i nemici dalle loro posizioni avanzate, obbligandoli a concentrarsi presso Geronio.
Alla notizia di questi successi, la cui narrazione sarà stata naturalmente esagerata, fu generale in Roma l'irritazione contro Quinto Fabio. E non interamente a torto. Per assennata che fosse la massima che i Romani dovessero tenersi sulla difensiva, e attendere la vittoria finale dalla fame che avrebbe stremato il nemico, ciò non toglie che questo fosse un sistema di difesa ben singolare, poichè permetteva al nemico, sotto gli occhi d'un esercito romano pari in numero, di devastare impunemente tutta l'Italia centrale e, col mezzo d'un ben ordinato sistema di requisizione praticato su vastissima scala, di procacciarsi le provvigioni necessarie per tutto l'inverno.
Publio Scipione, allorchè era stato comandante nella valle del Po, non aveva intesa la difensiva in questo modo, e il tentativo del suo successore di imitarlo era andato fallito presso Casilino, in modo da fornire abbondante materiale ai motteggiatori della città.
Fu mirabil cosa che i comuni italiani non vacillassero allorchè Annibale fece loro così chiaramente conoscere la superiorità dei Cartaginesi e la fallacia del soccorso dei Romani; ma per quanto tempo si poteva attendere dai medesimi che dovessero tollerare un duplice peso di guerra, e lasciarsi spogliare al cospetto delle truppe romane e dei propri contingenti?
Quanto all'esercito romano non si poteva dire che la sua condizione obbligasse il suo generale ad un simile modo di guerreggiare; esso si componeva bensì, in parte, di milizie chiamate recentemente sotto le armi, ma il nerbo era però composto dalle sperimentate legioni di Rimini, e, lungi dall'essere avvilito dalle ultime sconfitte, esso si sentiva irritato dal poco onorevole compito che il suo capitano «lacchè di Annibale» gli assegnava, e chiedeva ad alta voce di venir condotto contro il nemico.
Nei comizi si venne a scene tremende contro il vecchio ostinato; i suoi avversari politici, con a capo Marco Terenzio Varrone, ottennero il sopravvento e, di concerto coi soldati malcontenti e coi possessori dei beni saccheggiati, fecero passare un plebiscito contrario alla costituzione ed al buon senso, in forza del quale la dittatura – che aveva per scopo di togliere l'inconveniente della divisione del supremo comando quando la patria era in pericolo – veniva accordata tanto a Quinto Fabio quanto a Marco Minucio che era stato fino allora suo luogotenente[4]. Per tal modo l'esercito romano, la cui pericolosa divisione in due corpi era stata per l'appunto saviamente eliminata, fu non solo diviso, ma alla testa delle due metà furono posti due condottieri che seguivano evidentemente piani di guerra affatto diversi.
Quinto Fabio si attenne, come era naturale, più che mai alla sistematica sua prudenza; Marco Minucio, credendosi obbligato a giustificare il suo titolo dittatoriale sul campo di battaglia, attaccò troppo precipitosamente e con poche forze il nemico, ma ne sarebbe uscito col capo rotto se il suo collega, accorso a tempo con un corpo di truppe fresche non avesse impedito un maggiore disastro.
Quest'ultimo indirizzo delle cose giustificò in certo qual modo il sistema della resistenza passiva. In realtà Annibale aveva ottenuto in questa campagna tutto ciò che si poteva ottenere colle armi; nè l'avversario impetuoso, nè quello circospetto poterono impedirgli alcuna operazione essenziale, ed il suo approvvigionamento, sebbene non senza difficoltà, era pure riuscito così bene che il suo esercito attendato presso Geronio passò l'inverno senza il minimo disagio. Non fu il «Temporeggiatore» che salvò Roma, ma la salda compagine della sua federazione, e forse non meno l'odio nazionale degli occidentali contro l'uomo di razza fenicia.