13. Trattato tra Roma e Giugurta.
Il trattato, sottoposto pro forma al consiglio di guerra e con una irregolare e probabilmente sommaria trattazione approvato, fu concluso. Giugurta si arrese a discrezione.
Ma il vincitore fu clemente e restituì intatto il regno al re, obbligandolo a pagare una lieve multa e a consegnare i disertori romani e gli elefanti da guerra (643 = 111), poi dal re riscattati per accordi con i diversi comandanti della piazza ed ufficiali romani.
Saputasi la cosa a Roma, si scatenò un'altra volta la bufera. Nessuno ignorava come la pace si fosse conclusa; lo stesso Scauro dunque era corruttibile, colla differenza che ad esso non bastava l'ordinario prezzo senatorio.
La validità del trattato di pace fu in senato seriamente contestata; Caio Memmio dichiarò che se il re si era di fatto sottomesso senza condizione, egli non poteva ricusarsi di venire a Roma e che quindi lo si doveva invitare per stabilire, coll'esame delle due parti che avevano conchiuso la pace, le irregolarità delle trattative che l'avevano preceduta.
Si piegò all'importuna richiesta; però contro ogni diritto, non venendo il re come nemico, ma come vinto, gli fu accordato un salvacondotto. Quindi il re comparve a Roma, e si presentò per essere ascoltato dal popolo, che fu indotto a stento a rispettare il salvacondotto e a non mettere a brani sull'istante l'assassino degli Italici di Cirta.
Ma appena Caio Memmio diresse la prima interrogazione al re, uno dei suoi colleghi interpose il suo veto e ordinò al re di tacere. Anche qui l'oro africano potè più del popolo sovrano e dei suoi più autorevoli magistrati.
Durava intanto in senato la discussione sulla validità del trattato di pace e il nuovo console Spurio Postumio Albino manifestò calorosamente l'opinione che il trattato non si dovesse riconoscere, pensando che così sarebbe stato a lui affidato il supremo comando in Africa. Ciò indusse Massiva, un nipote di Massinissa, vivente a Roma, a far valere in senato le sue pretese sul regno numida: ma Bomilcare, un confidente del re Giugurta, senza dubbio obbedendo al suo signore, uccise a tradimento il pretendente, e, chiamato in giudizio, fuggì da Roma con l'aiuto di Giugurta stesso.
Il nuovo delitto commesso sotto gli occhi del governo romano ebbe almeno l'effetto che il senato annullò il trattato di pace ed espulse il re dalla città (inverno 643-4 = 111-10).