4. Filosofia greca.
Proviamoci anzitutto a seguire l'indirizzo che si appoggia sull'ellenismo.
La nazione ellenica, che era stata in fiore e aveva finito di fiorire molto prima dell'italica, aveva da lungo tempo trascorsa l'epoca della fede, e da allora in poi s'era mossa esclusivamente nel campo della speculazione e della riflessione; da lungo tempo là non v'era più religione ma solo filosofia.
Ma anche l'attività filosofica dello spirito ellenico aveva, quando incominciò ad agire su Roma, già lasciato molto dietro di sè l'epoca della speculazione produttiva ed era pervenuta allo stadio dove, non solo non nascono più sistemi veramente nuovi, ma dove comincia ad ecclissarsi anche la forza intellettiva necessaria a comprendere i più perfetti fra gli antichi, e dove bisogna limitarsi alla tradizione metodica e bentosto scolastica dei più difettosi filosofemi degli antenati; quindi nello stadio in cui la filosofia, invece di approfondire e di sciogliere lo spirito, lo schiaccia e lo stringe fra i più pesanti ceppi, quelli ribaditi da se stessa.
Il filtro della speculazione, sempre pericoloso, si fa sicuro veleno quando è assottigliato e adulterato.
Così svaporato e slavato, i Greci contemporanei lo porsero ai Romani, e questi non seppero nè respingerlo nè riportarsi dai maestri viventi ai trapassati.
Platone ed Aristotele, per non parlare dei filosofi anteriori a Socrate, rimasero senza influenza sulla coltura romana, benchè se ne sentissero volentieri ricordare gli illustri nomi e se ne leggessero e traducessero le opere più comprensibili.
Così i Romani nella filosofia non divennero altro che peggiori scolari di cattivi maestri. Oltre al concetto storico-razionalistico della religione, che risolveva i miti in biografie di parecchi benefattori del genere umano, vissuti nei tempi più remoti e di cui la superstizione aveva formato gli dei, ossia oltre al cosiddetto evemerismo, tre scuole filosofiche divennero in Italia specialmente importanti: le due dogmatiche di Epicuro (†484 = 270) e di Zenone (†491 = 263) e la scettica di Arcesilao (†513 = 241) e di Carneade (541-625 = 213-129); o, adoperando i vocaboli della scuola, l'epicureismo, lo stoa, e l'accademia nuova. L'ultima di queste tendenze, che partiva dall'impossibilità della scienza convincente, e che in sostituzione di essa non ammetteva come possibile che una preliminare possibilità sufficiente al bisogno pratico, si aggirava specialmente sulla polemica, stringendo nei lacci dei suoi dilemmi ogni tesi della fede positiva e del dogmatismo filosofico.
Essa sta quasi sulla stessa linea colla più antica sofistica, colla sola differenza, che i sofisti combattevano, com'era naturale, più contro la fede del popolo, mentre Carneade e i suoi seguaci più contro i loro colleghi filosofi.
Invece Epicuro e Zenone erano d'accordo tanto nello scopo di una razionale spiegazione dell'essenza delle cose, quanto nel metodo fisiologico che nasceva dall'idea della materia.
Essi si scostano l'uno dall'altro, in ciò, che Epicuro, seguendo la filosofia atomica di Democrito, considera la materia primitiva come una materia rigida e non la conduce alla varietà delle cose se non per mezzo di dissimiglianze meccaniche, mentre Zenone, accostandosi ad Eraclito di Efeso, innesta già nella materia primitiva un'antitesi dinamica ed un movimento ondeggiante in su e in giù.
Da ciò si deducono le ulteriori diversità: che nel sistema di Epicuro gli dei quasi non esistono e sono tutt'al più il sogno dei sogni, e secondo gli stoici sono l'anima del mondo eternamente desta, e come spirito, come sole, come dio possenti sul corpo, sulla terra, sulla natura; che non Epicuro, ma Zenone riconosce un ordinamento del mondo e una personale immortalità dell'anima; che lo scopo delle tendenze umane secondo Epicuro è l'assoluto equilibrio non turbato nè da desideri corporali, nè da lotte spirituali, a fronte del quale, secondo Zenone, sta l'attività umana aumentata dal continuo avverarsi dello spirito e del corpo e tendente a raggiungere la più alta perfezione e a porsi in armonia colla natura eternamente in lotta ed eternamente in pace.
Ma in un punto si accordavano tutte queste scuole riguardo alla religione: che la fede come tale era nulla e che doveva essere necessariamente surrogata dalla riflessione, o rinunciando scientemente a pervenire ad un risultato, come l'accademia, o rigettando le idee della fede popolare come la scuola di Epicuro, o conservandole in parte e adducendole i motivi, o in parte modificandole come facevano gli stoici.
Era quindi logico che il primo contatto della filosofia ellenica colla nazione romana, di salda credenza non meno che antispeculativa, avesse un carattere assolutamente ostile.
La religione romana aveva perfettamente ragione di non volere nè attaccare nè appoggiare questi sistemi filosofici, poichè nell'uno e nell'altro caso essi le avrebbero tolto la sua essenza caratteristica.
Lo stato romano, il quale come per istinto, sentiva che nella propria religione veniva attaccato esso stesso, si contenne a ragione verso i filosofi come suol fare la fortezza contro gli esploratori dell'esercito assediante, e cacciò da Roma sin dal 593 = 161 insieme coi retori anche i filosofi greci.
Difatti i primi tentativi di qualche importanza fatti dalla filosofia in Roma furono iniziati con una formale dichiarazione di guerra alla fede e ai costumi.
Essi furono occasionati dall'occupazione di Oropo fatta dagli ateniesi, i quali incaricarono di giustificarla dinanzi al senato tre dei più illuminati professori di filosofia, e fra questi il maestro della moderna sofistica, Carneade (599 = 155).
La scelta era conforme allo scopo propostosi, in quanto questa vergognosa faccenda scherniva nel senso comune qualsiasi giustificazione; era invece pienamente conveniente al caso che Carneade potesse provare con proposta e risposta, che si potevano appunto addurre altrettanti forti motivi in lode della giustizia come in lode della ingiustizia, e dimostrare, nella migliore forma logica, che si poteva pretendere con eguale diritto dagli ateniesi che restituissero Oropo, come dai Romani che si limitassero alle loro antiche capanne di paglia sul monte Palatino.
La gioventù che conosceva il greco, affluiva in gran numero attratta dallo scandalo e dall'energica ed enfatica maniera di porgere del grande uomo; ma almeno questa volta non si poteva dare torto a Catone, se egli non si limitò a paragonare, abbastanza scortesemente, la serie delle idee dialettiche dei filosofi colle noiose salmodie delle prefiche e se insistette anche in senato perchè fosse scacciato un uomo che conosceva così bene l'arte di far comparire ingiusto quello che era giusto e giusto l'ingiusto; e la cui difesa in sostanza altro non era se non una impudente e quasi schernevole confessione della ingiustizia commessa.
Però tale misura non fu di grande giovamento, poichè non si poteva vietare alla gioventù romana di recarsi a Rodi e in Atene per udire discorsi filosofici.
I Romani si andarono dapprima abituando a tollerare la filosofia come un male necessario e non tardarono molto a trovare nella filosofia straniera anche un appoggio per la religione romana, resasi impossibile per la sua semplicità; appoggio che veramente rovinava la fede, ma che concedeva all'uomo colto di conservare in qualche modo decoroso i nomi e le forme della religione popolare.
Ma questo sostegno non poteva essere nè l'evemerismo, nè il sistema di Carneade o di Epicuro.
Lo spiegare storicamente i miti affrontava troppo aspramente la fede del popolo, mentre gli dei si trasformavano addirittura in uomini; Carneade metteva in dubbio persino la loro esistenza ed Epicuro negava loro almeno ogni influenza sul destino degli uomini. Trovare tra questi sistemi e la religione romana un legame era perciò impossibile; essi erano e rimasero condannati.
Anche Cicerone dichiara nelle sue opere essere dovere del cittadino di respingere l'evemerismo perchè offende troppo il culto divino; e di quanto egli dice nei suoi discorsi degli accademici e degli epicurei trova necessario di scolparsi dicendo di essere discepolo di Carneade come filosofo, ma come cittadino e pontefice un confessore ortodosso di Giove capitolino e che l'epicureo deve finalmente darsi per vinto e convertirsi.
Nessuno di questi tre sistemi fu veramente popolare.
La facilità di essere generalmente compreso fece sì che l'evemerismo esercitasse una certa forza d'attrazione sui Romani e che col puerile e in pari tempo decrepito suo sistema di spiegare la mitologia colla storia, facesse una profonda impressione sulla storia tradizionale di Roma; ma esso non ebbe alcuna sostanziale influenza sulla religione romana, perchè questa da principio si attenne solo alle allegorie e non alle favole, e perchè a Roma non era possibile, come nell'Ellade, di comporre biografie di un primo, secondo e terzo Giove.
La sofisticheria moderna poteva prosperare solo là dove, come in Atene, la spiritosa loquacità era un attributo degli abitanti e dove inoltre la lunga serie dei sistemi filosofici formati ed abbandonati avevano accatastati copiosi ammassi di macerie intellettuali.
Contro il quietismo epicureo si rivoltava infine tuttociò che nell'elemento, appoggiato naturalmente sull'attività, c'era di leale e di valoroso.
Questo quietismo fece tuttavia più proseliti che non l'evemerismo e la sofistica, e pare sia questo il motivo, per cui la polizia ha continuato più a lungo e nel più serio modo a combatterlo.
Però questo epicureismo romano non era tanto un sistema filosofico quanto una specie di sopravveste filosofica, sotto la quale, – contro ogni intenzione del suo severo autore – si nascondeva per la buona società la spensierata sensualità; così noi troviamo nei poemi di Lucilio, uno dei primi addetti a questa setta, Tito Albucio, come prototipo del romano cattivo seguace dell'ellenismo.