3. Educazione della gioventù.
L'educazione della gioventù si aggirava, come facilmente si comprende, nella sfera degli studi umanitari bilingui segnati nella precedente epoca, e la cultura generale anche nel mondo romano si uniformava sempre più alle norme stabilite dai greci. Persino gli esercizi fisici progredivano dal gioco della palla, dalla corsa e dalla lotta, alle gare greche sviluppate in un modo più artistico, sebbene non vi fossero ancora per ciò appositi stabilimenti pubblici; nelle ville importanti soleva però esservi accanto ai bagni la palestra.
In qual modo presso i Romani la sfera della coltura generale si fosse trasformata nello spazio d'un secolo, lo prova il confronto dell'enciclopedia catoniana coll'opera della stessa natura lasciataci da Varrone, che tratta «delle scienze scolastiche». Come parti integranti dell'istruzione non classificata scientificamente sono indicate da Catone l'arte oratoria, l'agricoltura, la giurisprudenza, l'arte della guerra e la medicina; da Varrone – per verosimile supposizione – la grammatica, la logica o dialettica, la musica, l'astronomia, la medicina e l'architettura.
Nel settimo secolo sono quindi divenute scienze speciali, da universali che erano, l'arte della guerra, la giurisprudenza e l'agricoltura. Invece in Varrone la cultura ellenica della gioventù appare in tutta la sua pienezza: accanto al corso grammaticale, rettorico e filosofico, che era già da tempo stato introdotto in Italia, noi troviamo ora anche il geometrico, l'aritmetico, l'astronomico, ed il musicale[1].
Che la gioventù in Italia studiasse regolarmente e con zelo l'astronomia – la quale, colla nomenclatura delle stelle e nei suoi rapporti coll'astrologia, offriva agli spensierati che in quel tempo studiavano per diletto un terreno opportuno al dominante fanatismo religioso – lo si può provare anche diversamente: le poesie didascaliche di Arato furono, fra tutte le opere della letteratura alessandrina, le prime ad essere scelte per l'istruzione della gioventù romana.
A questo corso ellenico fu poi aggiunta anche la medicina, rimasta qual'era dai tempi dell'antica istruzione della gioventù romana, e finalmente l'architettura, divenuta indispensabile ai nobili romani di quel tempo, i quali, invece di accudire alla coltivazione dei campi, si dedicavano a costruire palazzi e case di campagna.
Paragonata coll'epoca passata, la coltura greca e la latina progrediscono in estensione e in severità scolastica mentre perdono nella purezza e nella finezza. La crescente smania per la cultura greca dava per se stessa all'istruzione un carattere di erudizione. Spiegare Omero o Euripide, alla fine non era più un'arte difficile; maestri e scolari mostravano maggiore interesse per le poesie alessandrine, le quali, d'altra parte, anche per lo spirito si confacevano più ai romani d'allora che non la vera poesia nazionale greca, e che, sebbene non fossero così venerande come l'Iliade, avevano però raggiunta un'età abbastanza rispettabile per essere considerate come classiche dai maestri di scuola.
I versi amorosi di Euforione, le «Origini», e l'«Ibi» di Callimaco, la comica e oscura «Alessandra» di Licrofone, contenevano gran copia di vocaboli rari (glossae) che si prestavano a estratti e ad interpretazioni, di frasi faticosamente contorte e difficili a snodarsi, di disgressioni diffuse, piene di arcane accoppiazioni di miti antiquati, e in generale grande abbondanza di noiosa dottrina d'ogni genere.
L'istruzione abbisognava di formulari d'esercizio di difficoltà progressiva; questi prodotti, per lo più lavori modelli di maestri, servivano per eccellenza come temi di istruzione per scolari modelli. Così le poesie alessandrine presero, specialmente come temi d'esperimento, stabile posto nell'istruzione scolastica italiana; promossero il sapere, ma a spese del buon gusto e del buon senso.
Quella stessa sete morbosa di cultura spingeva inoltre la gioventù romana ad attingere l'ellenismo per quanto era possibile alle sue fonti. I corsi presso i maestri greci di Roma bastavano ormai pel primo erudimento; chi invece voleva saper conversare, andava ad udire filosofia greca ad Atene o rettorica greca a Rodi, e intraprendeva un viaggio artistico nell'Asia minore, dove inoltre incontrava più che altrove, sul luogo stesso ove erano sorti, gli antichi capolavori dell'arte ellenica e dove, sebbene meccanicamente, la cultura intellettuale aveva continuato a propagarsi; mentre la gioventù desiderosa d'istruzione visitava invece molto scarsamente Alessandria, più lontana e centro piuttosto delle scienze più severe.
Come la greca, crebbe anche l'istruzione latina. Ciò avvenne in parte per la stessa reazione dell'istruzione greca, da cui in sostanza la latina tolse il metodo e l'impulso. Oltre a ciò contribuivano all'incremento degli esercizî oratorî anche le condizioni politiche e l'affollamento sempre maggiore, a causa delle mene democratiche, intorno alla tribuna del foro, per cui Cicerone ebbe a dire: «ovunque si guarda è tutto pieno di retori».
A ciò si aggiunga che quanto più antichi si andavano facendo gli scritti del sesto secolo, tanto più decisamente essi cominciavano ad avere corso come testi classici dell'età dell'oro della letteratura latina, e con ciò si veniva a dare quella maggiore solidità alla cultura che in essi era eccezionalmente contenuta.
Finalmente la barbarie, che immigrava nello stato da molte parti, e l'incipiente latinizzazione di estese province celtiche e spagnole, diedero alla grammatica e all'istruzione latina una maggiore importanza di quello che aveva potuto avere sin tanto che la lingua latina era confinata nel Lazio; il maestro di letteratura latina in Como ed in Narbona aveva sin dal principio un'altra posizione che non in Preneste ed in Ardea.
Ma il risultato finale era piuttosto una decadenza che un progresso nella cultura. La rovina delle città provinciali italiche, la straordinaria immigrazione di elementi stranieri, la degradazione politica, economica e morale della nazione, e anzitutto le dissolutrici guerre civili, guastarono anche la lingua in modo che tutti i maestri di scuola del mondo non vi avrebbero saputo porre riparo. I rapporti più intimi colla cultura ellenica dell'epoca, l'influenza più decisa della garrula filosofia ateniese, della retorica di Rodi e dell'Asia minore arrecavano di preferenza alla gioventù romana appunto gli elementi più perniciosi dell'ellenismo.
Per quanto nobile fosse il còmpito assuntosi dal Lazio di fare propaganda fra i Celti, gli Iberi e i Libi, esso doveva però avere per la lingua latina le stesse conseguenze che ha avuto per la lingua ellenica la colonizzazione dell'oriente. Se il pubblico romano di allora applaudiva al ben ordinato periodo costrutto in cadenza ritmica dall'oratore e se il comico doveva pagare caro un errore di lingua o di metro, questo prova che l'intelligenza della lingua materna riflessa dalla scuola diventava un patrimonio comune, che si estendeva in circoli sempre più vasti. Ma giudici contemporanei competenti lamentano al tempo stesso che la cultura ellenica in Italia verso il 690 = 64 fosse molto inferiore a quello che era stata una generazione prima; che ormai solo di rado si udisse parlare il puro e buon latino, e per lo più dalle labbra di qualche vecchia e colta matrona; che la tradizione della schietta cultura, l'antica arguzia latina, la finezza di Lucilio, il colto ciclo letterario dei tempi di Scipione, andasse a poco a poco spegnendosi.
Se in questo tempo nacquero la parola ed il concetto di «urbanità», che è come dire del gentile costume nazionale, ciò non prova ch'essa dominasse, ma che era sul tramontare, e che nella lingua e nel modi dei barbari latinizzati e dei latini barbarizzati si sentiva troppo la mancanza di questa urbanità.
Dove ancora si incontra il tono urbano di conversazione, come nelle satire di Varrone e nelle epistole di Cicerone, lo si può dire una reminiscenza dei tempi antichi, non ancora scomparsa in Reate ed in Arpino, il cui suono non era del tutto perduto come a Roma.
L'istruzione della gioventù nella sua essenza rimase anche la stessa; solo che, non tanto pel suo proprio decadimento quanto per quello generale della nazione, faceva minor bene e maggior male che nell'epoca passata.
Cesare promosse una rivoluzione anche su questo terreno. Se il senato romano aveva prima combattuta la cultura, poi l'aveva tutt'al più tollerata; il governo del nuovo stato italo-ellenico, la cui essenza era l'umanità, doveva necessariamente promuoverla dall'alto al basso nel mondo ellenico.
Se Cesare concesse la cittadinanza romana a tutti i maestri delle scienze libere e a tutti i medici della capitale, si può ben riconoscere in questa misura un certo preludio di quelle istituzioni alle quali fu poi provveduto per la più manifesta espressione del nuovo stato mondiale; e se Cesare decretò inoltre di fondare una pubblica biblioteca greca e latina nella capitale e ne nominò bibliotecario sopraintendente il più dotto romano di quel tempo, Marco Varrone, si vede in ciò chiaramente l'intenzione di combinare colla monarchia universale anche la letteratura mondiale.