17. La politica romana in Italia e fuori.
Se, concludendo, noi gettiamo uno sguardo retrospettivo su quanto avvenne per opera della repubblica romana dal tempo dell'unione dell'Italia sino allo smembramento della Macedonia, la dominazione mondiale dei Romani non appare già come un piano gigantesco, designato e messo in pratica da una insaziabile avidità di conquiste, ma piuttosto come un risultato che Roma fu costretta involontariamente ad accettare.
Non vi è dubbio, che la prima opinione si presenta da sè. Sallustio, con ragione, fa dire a Mitridate che le guerre combattute dai Romani contro tribù, contro città e contro re ebbero per unica antichissima causa l'insaziabile avidità di dominio e di ricchezze; ma a torto fu diffuso questo giudizio, formato sotto l'influenza della passione e del successo, come un fatto storico.
Per chiunque non s'arresti all'osservazione superficiale è evidente che durante tutto questo periodo di tempo, il governo romano null'altro voleva e chiedeva se non la signoria sull'Italia, che non amava avere dei vicini troppo potenti e che, non già per umanità verso i vinti ma pel giusto sentimento di non lasciar schiacciare il midollo dello stato dal suo involucro, seriamente si opponeva ad ammettere nel raggio del patronato romano prima l'Africa, poi la Grecia e finalmente l'Asia, e ciò fino a quando le circostanze non imposero, con irresistibile forza, di volta in volta, l'allargamento dei confini.
I Romani hanno sempre sostenuto che la loro politica non era una politica di conquiste, e che essi furono sempre gli assaliti; ciò che è pur qualche cosa di più che una frase.
A tutte le grandi guerre – eccettuata quella sostenuta per la Sicilia, quelle combattute contro Annibale e contro Antioco, come a quelle fatte con Filippo e con Perseo – essi furono, di fatto, costretti o da un'immediata aggressione o da un inaudito turbamento delle esistenti condizioni politiche, e quindi, d'ordinario, anche sorpresi dallo scoppio del turbamento stesso.
Il non avere dato, dopo la vittoria, prova di moderazione nell'interesse dell'Italia – come avrebbero dovuto fare – la conservazione della Spagna, l'accettazione della tutela dell'Africa e soprattutto il piano quasi fantastico di apportare la libertà ai Greci, è chiaro che furono errori madornali a danno della politica italica.
Ma le cause di questi errori sono in parte il cieco timore di Cartagine, in parte l'infatuazione, ancora più cieca, per la libertà ellenica.
I Romani manifestarono in quest'epoca, più che la volontà di fare delle conquiste, un giudizioso timore di esse.
La politica romana non è, ovunque, il parto d'una sola mente sublime ereditata da generazione in generazione, ma la politica di un'assemblea validissima, sebbene alquanto limitata, di senatori, la quale molto difficilmente poteva arrivare alle grandi combinazioni, e possedeva un istinto troppo giusto per la conservazione della propria repubblica per aspirare ai piani di un Cesare e di un Napoleone.
La signoria universale dei Romani si appoggia, in ultima analisi, sullo svolgimento politico dell'antichità in generale.
Il vecchio mondo non conosceva l'equilibrio delle nazioni, e ogni nazione, che aveva acquistata l'unità nel suo interno, tentava o di assoggettare addirittura i suoi vicini, come fecero gli stati ellenici, o per lo meno di renderli innocui come fece Roma, ciò che, in ultima analisi, si risolveva in una sottomissione.
L'Egitto è forse la sola grande potenza dell'antichità che abbia seriamente seguito un sistema d'equilibrio; nel sistema opposto andarono d'accordo Seleuco ed Antigono, Annibale e Scipione; e se ci sembra deplorevole che tutte le nazioni dell'antichità, ricche di buone qualità e molto sviluppate, abbiano dovuto perire perchè si arricchisse una sola, e che in conclusione tutte sembrano sorte per concorrere alla formazione della grandezza e, ciò che vale lo stesso, alla decadenza d'Italia. La giustizia storica deve però riconoscere, che in ciò non ha operato la superiorità militare delle legioni sulla falange, ma l'ineluttabile svolgimento delle condizioni dei popoli dell'antichità in generale, e che, per conseguenza, non fu già la cieca fortuna quella che decise, ma un destino fatale che si è compiuto.