41. La fine dei capi repubblicani.
La giornata di Tapso mise fine alla guerra combattuta in Africa, come un anno e mezzo prima quella di Farsaglia aveva messo fine all'altra in oriente.
Catone, quale comandante di Utica, adunò il senato, espose lo stato dei mezzi di difesa e lasciò che i senatori decidessero se volessero sottomettersi o difendersi fino al punto estremo, scongiurandoli soltanto di concludere e di agire non ciascuno per sè ma tutti per uno.
La parte più coraggiosa dei convocati trovò parecchi sostenitori; fu fatta la proposta di dare da parte dello stato la libertà agli schiavi atti a portare le armi, ma Catone la respinse perchè intaccava illegalmente la proprietà privata, e propose invece un appello patriottico ai proprietari di schiavi. Senonchè questo eccesso di risolutezza non fu di lunga durata in quella assemblea, la cui maggioranza si componeva di grossi commercianti africani, e si decise di venire ad una capitolazione.
Essendo poi entrati in Utica, provenienti dal campo di battaglia, Fausto Silla, figlio del dittatore, e Lucio Afranio, conducendo una grossa divisione di cavalleria, Catone fece un altro tentativo per tenere la città, ma avendo essi messo per condizione di far prima massacrare tutta la borghesia di Utica come infida, egli con raccapriccio respinse una tale proposta, e preferì che l'ultima rocca dei repubblicani cadesse in mano del monarca senza colpo ferire, piuttosto che profanare gli ultimi palpiti della repubblica con un così orrendo macello.
Dopo avere in parte con la sua autorità, in parte con generose distribuzioni di danaro, messo un freno all'infuriare della soldatesca contro gli infelici Uticensi, e dopo avere, per quanto lo comportavano le sue finanze, somministrato i mezzi per fuggire a coloro che non speravano nella clemenza di Cesare, e suggerito a quelli che volevano rimanere il modo di capitolare a condizioni possibilmente sopportabili, e dopo essersi assolutamente persuaso di non poter fare più nulla per nessuno, Catone si tenne sciolto dalla sua carica di comandante, sì ritirò nella sua camera da letto, e si trafisse col proprio brando.
Anche degli altri capi fuggitivi ben pochi si salvarono. La cavalleria fuggita da Tapso si incontrò nelle schiere di Sizio e fu massacrata o presa; i suoi comandanti, Afranio e Fausto, furono consegnati a Cesare, e poichè questi non li fece immediatamente morire furono uccisi dai suoi veterani in una sommossa. Il supremo duce, Metello Scipione, cadde con la flotta del partito vinto in potere di Sizio, e quando gli si vollero mettere le mani addosso, si trafisse col proprio ferro.
Re Giuba, non impreparato a fare una eguale fine, aveva deciso di morire da re facendo innalzare sulla piazza della sua città di Zama un immenso rogo, il quale, insieme col suo corpo, doveva consumare tutti i suoi tesori e i cadaveri di tutti i cittadini di Zama. Se non che gli abitanti non si sentivano disposti a servire di decorazione ai funerali del Sardanapalo africano, e quando il re, fuggendo dal campo di battaglia e accompagnato da Marco Petreo, comparve dinnanzi alla città, gli abitanti gli chiusero le porte.
Il re, una di quelle nature inferocite dall'abbagliante e tracotante godimento della vita, le quali si fanno un giuoco anche della morte, condusse il suo compagno di sventura in una delle sue ville, si fece servire un magnifico banchetto e dopo il pasto invitò Petreo a singolare tenzone all'ultimo sangue. Fu il vincitore di Catilina che soggiacque sotto i colpi del re, e questi si fece poi trafiggere da uno dei suoi schiavi.
I pochi altri individui di qualche considerazione che si salvarono, come Labieno e Sesto Pompeo, seguirono il fratello maggiore di questi, Gneo Pompeo, in Spagna, cercando, come una volta Sertorio nelle acque e nei monti di quella provincia ancora semi indipendente, un ultimo asilo da brigante e da pirata.
Cesare ordinò senza ostacoli le cose africane. Come aveva già proposto Curione, fu sciolto il regno di Massinissa. La parte più orientale, ossia la provincia di Sitifi, fu unita al regno di re Bocco della Mauritania orientale; fu anche riccamente ricompensato il re Bogud di Tingi.
La città di Cirta (Costantina) col territorio circostante, che sino allora aveva appartenuto al principe Massinissa e a suo figlio Arabion sotto l'alta sovranità di Giuba, fu ora assegnata al condottiero Publio Sizio, perchè vi stabilisse le sue schiere semi romane[10]; al tempo stesso questo distretto, ed in generale la parte molto maggiore e più fertile del regno numidico, come la «Nuova Africa», fu fusa coll'antica provincia d'Africa, e la difesa della provincia del litorale contro le tribù nomadi del deserto, che la repubblica aveva affidata ad un re vassallo, fu assunta dal nuovo monarca per conto dello stato.