10.Battaglia di Pidna.
Il 4 settembre, secondo il calendario romano, o secondo il calendario giuliano il 22 Luglio 586=168 – un'eclissi di luna che un dotto ufficiale romano predisse all'esercito, perchè non vi scorgesse un cattivo pronostico, permette qui di stabilire con precisione la data – allorchè nell'abbeverare i cavalli, verso mezzogiorno, gli avamposti vennero casualmente alle prese, dalle due parti fu deciso di cominciare tosto la battaglia, che era già fissata per il giorno seguente.
Senza elmo e senza corazza, il canuto generale dei Romani, percorrendo le file, ordinò egli stesso i suoi soldati. Erano appena pronti, che la terribile falange si precipitò contro di essi; il duce stesso, che pure aveva assistito a parecchi scontri, confessò, in seguito, che a quell'urto aveva tremato.
L'avanguardia dei Romani fu dispersa; fu rovesciata e quasi distrutta una coorte di Peligni; le legioni stesse retrocessero in fretta sino ad una collina vicinissima al campo. Qui la fortuna cambiò.
Il terreno disuguale e la foga dell'inseguimento avevano allentati i ranghi della falange; i Romani, suddivisi in coorti, penetrarono fra uno spazio e l'altro di essa, assalirono il nemico di fianco ed alle spalle, e siccome la cavalleria macedone, che sola avrebbe ancora potuto recare qualche aiuto, stette, sulle prime, inerte spettatrice di quanto avveniva, e poi prese in massa la fuga con a capo il re, così in meno di un'ora le sorti della Macedonia furono decise. I tremila uomini scelti della falange si lasciarono tagliare a pezzi fino all'ultimo, quasi che la falange, che qui combattè la sua ultima grande battaglia, volesse trovare presso Pidna la sua sepoltura.
La sconfitta fu terribile: 20.000 Macedoni caddero sul campo di battaglia, 11.000 furono fatti prigionieri. La guerra era finita quindici giorni dopo che Paolo aveva assunto il comando supremo; in due giorni si sottomise tutta la Macedonia.
Il re, seguìto da pochi fedeli, fuggì in Samotracia col suo tesoro, che contava ancora 6000 talenti (circa L. 38 milioni). Senonchè, avendo egli ucciso persino uno dei pochi che l'accompagnavano, certo Evandro da Creta, il quale, come promotore dell'attentato contro Eumene, doveva scolparsene innanzi a Roma, lo abbandonarono anche i paggi e gli ultimi compagni.
Per un istante egli sperò che il diritto d'asilo lo avrebbe salvato, ma ben presto comprese che si era attaccato ad un fuscello di paglia.
Un tentativo di fuga presso Coti gli andò fallito. Allora scrisse al console, ma la sua lettera non fu accettata perchè si qualificava re. Perseo comprese allora quale doveva essere la sua sorte, e, pusillanime e piangente, si arrese coi figli e coi tesori alla discrezione dei Romani destando disgusto persino nel vincitori.
Il console con severa gioia, e riflettendo più alla mobilità della fortuna che al presente suo successo, accolse il più nobile prigioniero che un generale romano avesse mai avuto da condurre a Roma.
Perseo, prigioniero di stato, morì pochi anni dopo in Alba Fucense[4]. Suo figlio visse nella stessa città come scrivano.
Così finì il regno d'Alessandro il grande, che aveva soggiogato ed ellennizzato l'oriente, 144 anni dopo la morte del suo fondatore.
Affinchè dopo la tragedia non mancasse la farsa, fu contemporaneamente incominciata, ed entro trenta giorni ultimata, dal pretore Lucio Anicio la guerra contro Genzio «re» dell'Illiria; presa la sua flotta di pirati ed espugnata Scodra sua capitale; i due re, l'erede del grande Alessandro e quello di Pleurato, entrarono prigionieri in Roma l'uno accanto all'altro.