25. I poveri.
Ma la classe colta dei commercianti e quella dei ricchi possidenti di latifondi sono sorpassate dalle altre due classi che davano il tono alla società: dai mendichi e dai veri nobili. Noi non abbiamo cifre statistiche per stabilire la quantità relativa della povertà e della ricchezza di quest'epoca, però possiamo ricordare intorno a ciò la testimonianza fatta circa quarant'anni prima da un uomo di stato romano: che il numero delle famiglie di stabile ricchezza nella borghesia romana non ammontava a 2000.
La borghesia, da allora in poi, si era cambiata, ma più evidenti prove mostrano che la sproporzione tra i poveri ed i ricchi era rimasta per lo meno la stessa. Il progressivo impoverimento della moltitudine si manifesta troppo acutamente col suo affollarsi alle distribuzioni di frumento, colle sollecitazioni per entrare nell'esercito; il corrispondente aumento della ricchezza è dimostrato esplicitamente da uno scrittore di questa generazione, il quale, parlando delle condizioni del tempo di Mario, considera «come condizioni di ricchezza di quei tempi» un patrimonio di due milioni di sesterzi (L. 536.250) e da lui appunto togliamo i dati che abbiamo sulla sostanza di alcuni individui.
Il ricchissimo Lucio Domizio Enobarbo promise a ventimila soldati quattro iugeri di terra di sua proprietà a ciascuno; il patrimonio di Pompeo ammontava a 70 milioni di sesterzi (lire 18.750.000); quello del comico Esopo a 20 milioni (L.5.362.500); Marco Crasso, il più ricco dei ricchi, possedeva al principio della sua carriera 7 milioni di sesterzi (L. 1.875.000) e al termine della medesima, dopo aver speso enormi somme per il popolo, 170.000.000 di sesterzi (L. 45.000.000).
Le conseguenze di tale povertà e di tale ricchezza erano esternamente diverse dalle due parti, ma in sostanza ugualmente rovinose, tanto dal lato economico, come da quello morale. Se il povero veniva salvato dal morir di fame unicamente dal soccorso dello stato, ciò non era che una necessaria conseguenza di questa miseria, la quale però senza dubbio ne diveniva causa essa stessa, se egli si abbandonava alla pigrizia ed al buon tempo dell'accattone.
Invece di lavorare, il plebeo romano perdeva piuttosto il suo tempo in teatro; le bettole e i lupanari avevano una tale voga che i demagoghi trovavano il loro tornaconto ad attirare dalla loro parte i proprietari.
I combattimenti dei gladiatori, manifestazione ed alimento della più triste demoralizzazione del vecchio mondo, erano saliti in tanta voga, che solo con la vendita dei programmi dei medesimi si facevano lucrosi affari.
In questi tempi si stabilì la terribile innovazione che della vita e della morte del vinto non decidesse la legge del duello o l'arbitrio del vincitore, ma il capriccio del pubblico al cui cenno il vincitore risparmiava o finiva l'atterrato avversario.
Il mestiere del gladiatore era salito a tal prezzo, e la libertà era caduta in così poca considerazione, che l'intrepidezza e la gara, scomparse dai campi di battaglia, erano comuni negli eserciti dell'arena, dove, come lo imponeva la legge del duello, ogni gladiatore si lasciava sgozzare senza parlare e senza muoversi, e non di rado uomini liberi si vendevano come gladiatori agli impresari per gli alimenti o per mercede.
Anche i plebei del quinto secolo avevano sofferto disagi e fame, ma non si erano mai venduti in schiavitù, e ancor meno i giureconsulti di quel tempo si sarebbero prestati a dichiarar valido con indelicati raggiri giuridici il contratto immorale e illecito di un simile gladiatore: «di lasciarsi volontariamente incatenare, frustare, abbruciare od ammazzare se così voleva la legge dello stabilimento».
Ciò non avveniva nelle classi elevate, ma in sostanza non vi era gran differenza. Nel dolce far niente l'aristocratico non la cedeva al plebeo; se questi gironzolava per le vie, quello rimaneva disteso sino a giorno chiaro nelle piume e dilapidava spudoratamente e senza vergogna la propria sostanza. Le classi elevate inpiegavano la loro ricchezza nella politica e nel teatro, naturalmente a danno di entrambi; si comperava la carica consolare a prezzi incredibili; nell'estate del 700 = 54 fu pagata la sola prima sezione elettorale con 10 milioni di sesterzi (lire 2.681.250) e con l'insensato lusso delle decorazioni si guastò agli uomini colti ogni diletto delle rappresentazioni teatrali.
Pare che in Roma le pigioni si elevassero a circa quattro volte di più che nelle città provinciali; una casa vi fu comperata una volta per 15 milioni di sesterzi (L. 4.021.875). La casa di Marco Lepido (console nel 676 = 78), la più bella in Roma alla morte di Silla, non era, una generazione più tardi, nemmeno la centesima nella serie dei palazzi romani. Abbiamo già detto delle pazzie commesse per la sontuosità delle ville; troviamo che una di esse, ritenuta la prima per la sua peschiera, fu pagata 4 milioni di sesterzi (L. 1.072.500); e un uomo di vera nobiltà aveva bisogno allora almeno di due ville, una sui colli Sabini o Albani presso la capitale, e una seconda nelle vicinanze dei bagni, nella Campania, e possibilmente anche di un giardino appena fuori le porte di Roma.
Ancora più insensati di queste ville erano i mausolei, alcuni dei quali testimoniano ancora oggi quale altissima casa[19] occorresse al ricco romano per essere seppellito secondo il suo rango.
Il lusso si estendeva anche ai cavalli ed ai cani. Per un cavallo di lusso, 24.000 sesterzi (L. 6.435) non era un prezzo insolito. Si andava raffinando il lusso della mobilia, che era di legno prezioso – un tavolo di legno di cipresso africano venne pagato 1 milione di sesterzi (L. 268.125) –; degli abiti, di stoffe di porpora o di garza trasparente, le cui pieghe venivano disposte accuratamente davanti allo specchio – l'oratore Ortensio si dice che abbia intentato un processo per ingiuria ad un suo collega, perchè questi nella calca gli aveva sgualcito il manto –; così anche per le pietre preziose e le perle che per la prima volta subentrarono agli antichi gioielli d'oro, molto più belli e più artistici. Si era già nel barbarismo più completo quando nel trionfo di Pompeo su Mitridate il ritratto del vincitore comparve tutto lavorato in perle e quando si guarnirono con argento i sofà e gli scaffaletti della sala da pranzo, e si fecero fare in argento persino gli attrezzi da cucina.
Lo stesso si dica riguardo agli antiquari i quali levavano dalle antiche coppe d'argento le artistiche medaglie per applicarle sopra vasi d'oro.
Anche nei viaggi il lusso non mancava. Cicerone narra così di un luogotenente siciliano: «Quando il luogotenente viaggiava, ciò che naturalmente non accadeva d'inverno ma appena al principio della primavera, non calcolando dal calendario ma dall'epoca della fioritura delle rose, egli, all'uso dei re di Bitinia, si faceva trasportare in una lettiga da otto portatori, adagiato sopra cuscini di velo di Malta, ripieni di foglie di rose, con una corona sulla testa e un'altra al collo, fiutando un piccolo sacchettino di finissimo lino ripieno di rose, e così si faceva portare fino alla sua camera da letto».