12 Religione etrusca.
Nei documenti che della religione etrusca sono pervenuti sino a noi, si manifesta uno spirito diverso. Vi domina una tetra e insieme monotona misticità, un giuoco di numeri, una interpretazione di segni e quella solenne sicumera della scienza ciarlatanesca che trova un uditorio in tutti i tempi. Noi non conosciamo, a dir vero, il culto degli Etruschi così chiaramente e direttamente come conosciamo quello dei Latini; ma ammesso anche che posteriori fantasticherie abbiano appiccicato alla religione etrusca molte cose che le erano estranee, e supponendo inoltre che ci siano sopraggiunte soltanto le parti più tetre e fantastiche del loro culto, e quelle appunto che più si scostavano dalle idee religiose dei Latini – supposizioni entrambe che non devono essere molto lontane dal vero – malgrado tutto ciò, quello che ci rimane basta per assicurarci che il misticismo e la barbarie di questo culto dipendevano veramente dall'intimo carattere del popolo etrusco. Non si potrebbe ora determinare l'intrinseca antitesi tra l'idea della divinità presso gli Etruschi, pochissimo nota, e quella degli Italici; ma è certo che gli dei degli Etruschi si presentano a prima vista cattivi e maligni, e anche il culto è crudele e si spinge fino al sacrificio dei prigionieri – così si macellavano in Cere i prigionieri focesi, come in Tarqueno i prigionieri romani. In luogo del silenzioso mondo dei trapassati «buoni spiriti» che dominavano gli spazi dell'abisso, immaginato dai Latini, per gli Etruschi appare un vero inferno, ove, per esser tormentate con mazze e serpenti, vengono condotte le povere anime dal nocchiere della morte, figura di vecchio selvaggio, mezzo bestia, munita di ali e d'un gran martello; figura che servì più tardi ai Romani per mascherare l'uomo che trascinava fuori dell'arena i cadaveri degli uccisi. A questa condizione delle ombre va strettamente unita la prima che accoglie persino il pensiero della redenzione, mediante la quale, dopo alcuni misteriosi sacrifici, la povera anima è ammessa tra gli dei superiori. È notevole che per popolare il loro inferno gli Etruschi togliessero di buon'ora dai Greci le più cupe immagini, e che per conseguenza la dottrina acherontica e Caronte abbiano una gran parte nella scienza etrusca. Ma l'interpretazione dei segni e dei miracoli occupa sopra ogni altra cosa la mente dell'Etrusco. Anche i Romani udivano nella natura la voce degli dei, ma il loro augure comprendeva solo i segni semplici, e sapeva in generale se ciò che era per succedere avesse a portar fortuna o disgrazia. I turbamenti nel corso della natura erano da lui considerati come funesti e suscitanti ostacoli alle opere; così, per esempio, durante il lampo e il tuono si scioglievano le adunanze popolari, e si procurava di sviarne il cattivo augurio, come per esempio si faceva coi parti mostruosi che venivano subito uccisi. Ma al di là del Tevere ciò non bastava. L'Etrusco, speculatore, leggeva nel baleno e nelle viscere delle vittime, all'uomo credulo, la sua sorte sino nei più minuti particolari; e quanto più era strana la favella degli dei, quanto più sorprendente il segno e il miracolo, con tanta maggior sicurezza egli indicava il senso della predizione e come si potesse prevenirne il maleficio. Così nacque la dottrina della folgore, l'aruspicina, la interpretazione dei miracoli, tutte cose, particolarmente la scienza delle folgori, immaginate dalle menti esaltate e smarrite nell'assurdo.
Un nano di figura infantile, coi capelli grigi, scoperto coll'aratro da un contadino presso Tarqueno, e chiamato Tage, fu il primo che svelò agli Etruschi la scienza delle folgori e subito dopo morì; si sarebbe indotti a credere che quell'abbozzo di fanciullo e nello stesso tempo di uomo decrepito, volesse schernire se stesso. I suoi scolari e successori insegnarono quali divinità solessero lanciare le folgori, come dalla parte del cielo e dal colore del lampo si potesse riconoscere la folgore di ogni dio, se la folgore indicasse uno stato duraturo o un semplice evento, se esso fosse già prestabilito irrevocalmente dal destino o se potesse essere rimosso sino a un certo limite; come si riuscisse a sotterrare il fulmine caduto e come si obbligasse a cadere quello che minacciava, ed altre simili arti miracolose, dirette tutte alla cupidigia della sportula. Quanto questa ciarlataneria contrastasse col carattere dei Romani lo dimostra la circostanza, che quando più tardi essa s'introdusse in Roma, non si tentò giammai di ammetterla nel culto cittadino; in quell'epoca bastavano ancora ai Romani gli oracoli indigeni dei Greci.
La religione trusca è superiore alla romana in quanto essa ha sviluppato almeno un principio di quella speculazione avvolta in forme religiose, che mancò interamente ai Romani. Sul mondo, coi suoi dei, signoreggiano gli dei velati, i quali sono interrogati dallo stesso Giove etrusco; ma quel mondo è perituro, e come è sorto così si dissolverà dopo il corso d'un determinato spazio di tempo, i cui periodi sono i secoli. È difficile giudicare dei valori morali che questa cosmogonia e filosofia etrusca possano aver avuto una volta: ma pare che anche ad essa, sin da principio, si congiungesse un insulso fatalismo ed uno scipito giuoco di numeri.
[Questa nota dell'autore si riferisce all'opinione che anticamente in Italia s'immolassero vittime umane (a Saturno: v. Ovid., Fast., v. 627), e che Ercole pel primo abolisse i sacrifici umani, sostituendo alle vittime veri simulacri d'uomini intessuti di giunchi, simili ai trenta fantocci degli «Argei» che ogni anno si gettavano nel Tevere (v. Festus, Argeos)].