7. Insurrezione degli schiavi.
Vediamo ora come l'aristocrazia soddisfacesse al doppio còmpito.
Come si curasse la sicurezza pubblica lo provano le congiure degli schiavi e le loro guerre che ovunque irrompevano. Parevano rinnovarsi in Italia i funesti avvenimenti che seguirono l'esito sfortunato della guerra annibalica; d'un tratto si dovettero arrestare e condannare a morte nella capitale 150 schiavi, in Minturno 450, a Sinuessa 4000 (621 = 133). E come ben si comprende, lo stato delle province era ancor peggiore. Sul gran mercato degli schiavi a Delo e nelle miniere d'argento dell'Attica per spingervi a coppie gli schiavi ammutinati si dovette ricorrere alle armi.
La guerra contro Aristonico ed i suoi Eliopoliti, «Cittadini del sole»[5], dell'Asia minore era in sostanza una guerra dei possidenti contro gli schiavi insorti.
Peggiori che in ogni altro luogo erano naturalmente le condizioni della Sicilia, la terra promessa del sistema delle piantagioni.
Il brigantaggio in quest'isola, e specialmente nell'interno, si era da lungo tempo fatto una piaga cancrenosa; organizzatosi cominciò a prorompere in insurrezione. Un ricco proprietario di piantagioni di Enna, per nome Damofilo, che gareggiava coi signori d'Italia nel trar profitto dall'industria del vivente suo capitale, assalito dai suoi adirati schiavi della campagna, venne ucciso; dopo di che quella turba furibonda si riversò sulla città di Enna mettendovi ogni cosa a ferro e fuoco.
Gli schiavi sollevatisi in massa contro i loro padroni li uccisero o li ridussero schiavi, ponendo alla testa del loro esercito divenuto ormai ragguardevole, un taumaturgo della siriaca Apamea, il quale sapeva mandare dalla bocca oracoli e fiamme, noto fino allora come schiavo sotto il nome di Enno, ora come capo degli insorti sotto quello di Antioco, re dei Siri.
E perchè no se pochi anni prima un altro schiavo siriaco, il quale non vantava nemmeno le qualità di profeta, aveva in Antiochia stessa cinta la fronte col reale diadema dei Seleucidi? Il valoroso «duce» del nuovo re, lo schiavo greco Acheo, percorreva l'isola e sotto le bizzarre sue bandiere non solo affluivano da lontano i selvaggi pastori, ma agli irritati schiavi si univano pure gli uomini liberi, lieti del maggior male che potesse accadere ai proprietari di piantagioni.
In un'altra regione della Sicilia seguì tale esempio uno schiavo cilicio per nome Eleone – che in patria era stato un ardito brigante – e occupò Agrigento. Essendosi i vari capi accordati, riuscirono, dopo altri diversi piccoli successi, a sconfiggere completamente lo stesso pretore Lucio Ipseo, il cui esercito si componeva totalmente di milizie siciliane, e a prendere d'assalto il suo campo.
In seguito a ciò quasi tutta l'isola cadde in potere degli insorti, il cui numero a dir poco ascendeva a 70.000 armati. I Romani furono costretti a mandare in Sicilia per tre anni consecutivi (620-622 = 134-132) consoli ed eserciti consolari, e dopo parecchi incerti ed in parte infelici combattimenti fu finalmente vinta l'insurrezione colla presa di Tauromenio e di Enna.
Sotto le mura di questa fortezza, nella quale si erano rinchiusi i più risoluti ribelli per difendersi in quell'inespugnabile luogo come gente che dispera di ogni salvezza, i consoli Lucio Calpurnio Pisone e Publio Rupilio tenevano ormai da due anni il campo; la presero finalmente più per la forza della fame che per quella dell'armi[6].
Questi furono gli effetti della pubblica sicurezza come era regolata dal senato romano e dai suoi agenti in Italia e nelle province. Se a distruggere il proletariato abbisogna il concorso di tutta la forza e di tutta l'assennatezza del governo, che spesso non basta, per[7] tenerlo in freno col mezzo della polizia è per ogni repubblica relativamente molto più facile. Gli stati sarebbero a buon partito, se le masse nulla-tenenti non minacciassero loro che il pericolo di cui possono minacciarli gli orsi o i lupi; soltanto il pauroso, e colui che utilizza le sciocche paure della moltitudine presagisce la rovina dell'ordine pubblico nelle sollevazioni di schiavi o nelle insurrezioni dei proletari.
Ma il governo romano, ad onta della profonda pace e delle inesauribili risorse dello stato, venne meno persino a questo più facile còmpito, di tenere in freno, cioè, le oppresse moltitudini.
E questo era segno della sua debolezza; ma non di debolezza soltanto. Il governatore romano, tenuto a mantenere la sicurezza delle strade provinciali, faceva crocifiggere, se erano schiavi, i ladroni accusati, e ciò era ben naturale, poichè il sistema della schiavitù non è possibile senza il terrorismo. Senonchè in quei tempi, quando le strade della Sicilia si facevan troppo mal sicure, i governatori ordinavano delle perlustrazioni, ma per non inimicarsi i piantatori italici consegnavano di ordinario i ladri ai loro padroni perchè s'infliggesse loro la punizione che essi avessero stimato opportuna; ma questi padroni erano gente autonoma, che alle richieste di vestiario rispondevano ai loro pastori a suon di bastone, chiedendo loro se i viaggiatori transitavano ignudi per il paese. Da tale condiscendenza ne venne che, domata l'insurrezione degli schiavi, il console Publio Rupilio fece crocifiggere tutti quelli che gli caddero vivi fra le mani, si dice in numero di ventimila. È certo che non era possibile d'essere più a lungo cortesi verso i capitalisti.