6. Impulso letterario.
Nella letteratura di quest'epoca, se la si confronta coll'anteriore, sorprende l'esterno impulso letterario in Roma.
L'operosità letteraria dei Greci, già da lungo tempo non prosperava più all'aria aperta della indipendenza cittadina, ma soltanto ancora negli istituti scientifici delle maggiori città e specialmente nelle corti.
Ridotti al favore e alla protezione dei grandi, e, coll'estinzione delle dinastie di Pergamo (621 = 133), di Cirene (658 = 96), della Bitinia (679 = 75) e della Siria (690 = 64), col tramonto dello splendore della corte dei Lagidi, respinti dagli ultimi consueti seggi delle Muse[3], dalla morte di Alessandro il grande in poi, i letterati greci, necessariamente cosmopoliti, e sotto gli Egizi e sotto i Libi almeno altrettanto stranieri quanto sotto i Latini, cominciarono a volgere sempre più i loro sguardi a Roma. Accanto al cuoco, al concubino e al buffone, fra lo sciame dei servitori greci dei quali i nobili romani erano circondati, avevano in questa epoca una parte principale anche il filosofo, il poeta e lo scrittore di memorie.
In tali condizioni già s'incontrano letterati di gran fama, come ad esempio l'epicureo Filodemo nella qualità di filosofo domestico presso Lucio Pisone, console del 696 = 58, il quale coi suoi graziosi epigrammi sul mal velato epicureismo del suo patrono, dilettava anche coloro che ne erano iniziati.
Da tutte le parti giungevano sempre più numerosi i più distinti rappresentanti dell'arte e della scienza greca a Roma, dove allora il guadagno letterario era più ricco che altrove; così furono considerati come stabiliti a Roma il medico Asclepiade, che re Mitridate cercò invano di assumere al suo servizio; l'enciclopedico Alessandro da Mileto, detto Polistore; il poeta Partenio da Nicea di Bitinia; il celebrato viaggiatore, maestro e scrittore, Posidonio da Apamea di Siria, il quale in grave età si trasferì nel 703 = 51 da Rodi a Roma, per non dire di molti altri.
Una casa di Lucio Lucullo era, quasi come il museo alessandrino, una sede di cultura ellenica ed un luogo di convegno di letterati ellenici; l'oro romano e l'intelligenza ellenica avevano riunito in quei porticati della ricchezza e della scienza un tesoro impareggiabile di statue e di quadri di maestri antichi e contemporanei, nonchè una biblioteca accuratamente scelta e magnificamente adorna, dove ogni uomo colto e particolarmente ogni greco, era il benvenuto ed era sicuro di trovare buona accoglienza, e spesso si vedeva il padrone di casa con qualcuno dei suoi dotti ospiti in colloqui filosofici e filologici passeggiare su e giù per il bel viale ornato di statue.
È bensì vero che questi Greci recarono in Italia coi ricchi loro tesori di scienza anche la loro perversità ed il loro spirito servile, come, ad esempio, ne fa prova uno di questi dotti erranti, Aristodemo da Nisa, autore dell'opera intitolata «Dell'arte rettorica lusinghiera» (verso il 700 = 54), il quale si mise in grazia del suo padrone dimostrando che Omero era nato romano!
Nella stessa misura che in Roma si spingeva l'attività dei letterati greci, progrediva l'attività e l'interesse letterario anche presso i Romani. Ritornò in uso persino lo scrivere in greco, che il gusto più severo dell'età di Scipione aveva interamente tolto di mezzo.
La lingua greca era dunque divenuta la lingua mondiale, ed uno scrittore greco trovava un maggior pubblico che non un latino; e per questo motivo, ad esempio dei re d'Armenia e della Mauritania, pubblicavano occasionalmente prosa e persino versi in lingua greca anche i nobili romani, come Lucio Lucullo, Marco Cicerone, Tito Attico, Quinto Scevola (tribuno del popolo nel 700 = 54).
Senonchè questi componimenti in lingua greca dettati dai Romani erano cose accessorie e quasi trastulli; tanto i partiti letterari, quanto quelli politici, in Italia erano tutti d'accordo nel tener fermo alla nazionalità italica, soltanto più o meno penetrata di ellenismo.
E non si poteva lamentare mancanza di attività nemmeno nelle composizioni latine. A Roma piovevano libri e opuscoli d'ogni genere e soprattutto di poesia. I poeti vi formicolavano come appena in Tarso e in Alessandria; le pubblicazioni poetiche erano divenute le abituali occupazioni giovanili di nature ardenti, e anche allora si lodavano coloro, le cui poesie giovanili erano preservate dalla critica mercè un pietoso oblio.
Chi conosceva questo mestiere, scarabocchiava sopra un tema i suoi cinquecento esametri, senza che vi trovasse alcun maestro qualcosa da biasimare, ma certamente anche nessun lettore alcuna cosa da lodare.
Anche il sesso femminile prendeva viva parte a questo incremento letterario; le donne non si limitavano a danzare e a far musica, ma dominavano con lo spirito e con l'ingegno la conversazione e discutevano stupendamente tanto di letteratura greca, quanto di latina; e se la poesia dava l'assalto ai cuori delle zitelle, l'assediata fortezza capitolava non di rado essa pure con graziose rime.
I ritmi divenivano sempre più gli eleganti balocchi dei grandi fanciulli dei due sessi: biglietti scritti in versi, esercizi poetici, sfide poetiche scambiate fra buoni amici, erano cose abituali, e verso la fine di quest'epoca furono aperte nella capitale anche scuole ove imberbi poetucci latini potevano, col loro denaro, imparare a verseggiare.
In grazia del grande consumo di libri fu essenzialmente perfezionata l'arte del trascrivere, e le opere si pubblicavano con una certa rapidità ed a buon prezzo; il commercio librario divenne un ragguardevole e lucroso ramo d'industria, e la bottega del libraio era il convegno di uomini colti.
La lettura era diventata di moda, anzi era una mania; durante il pranzo, dove non era già stato introdotto qualche altro passatempo più grossolano, d'ordinario si leggeva, e quelli che intraprendevano un viaggio non dimenticavano di premunirsi di una biblioteca portatile. Al campo si vedeva il comandante sotto la tenda con in mano un lubrico romanzo greco, in senato l'uomo politico con un trattato di filosofia.
Nello stato romano le cose quindi andavano come andarono e andranno in qualsiasi altro stato, in cui i cittadini null'altro fanno che leggere dalla mattina alla sera. Il visir partico non aveva torto quando, mostrando ai cittadini di Seleucia i romanzi nel campo di Crasso, chiese loro se essi considererebbero ancora avversari temibili i lettori di simili libri.