8.Riforma nell'agricoltura romana.
In un grande stato industriale, la cui agricoltura non basta a nutrire la popolazione, un tale risultato si sarebbe dovuto considerare vantaggioso o per lo meno assolutamente non dannoso; ma un paese come l'Italia, ove l'industria era cosa da poco e l'agricoltura l'oggetto principale, progredendo su questa via, sarebbe stato sistematicamente rovinato ed il benessere universale sagrificato nella maniera più ignominiosa agli interessi della popolazione della capitale essenzialmente parassita, per il quale il prezzo del pane non era mai abbastanza basso.
In nessun luogo è forse più chiaramente provato quanto fosse difettosa la costituzione e quanto inetto il governo di quella cosiddetta età dell'oro della repubblica. Il più meschino sistema rappresentativo avrebbe per lo meno fatto nascere seri reclami ed avrebbe condotto alla scoperta della sede del male; ma in quelle assemblee popolari tutto si ascoltava fuorchè l'ammonizione del patriota previdente.
Ogni governo meritevole di tal nome avrebbe agito da sè; ma la massa del senato romano, nella sua cieca buona fede, avrà riconosciuta la felicità del popolo nel prezzo basso del grano; gli Scipioni ed i Flaminini avevano da occuparsi di cose più importanti, avevano da emancipare i Greci e da esercitare le funzioni di re repubblicani; così fu sospinta la nave, senz'altro, contro lo scoglio.
Da quando le piccole tenute non offrivano più un essenziale prodotto netto, i contadini furono irremissibilmente perduti, e tanto più che anche in essi andavano a poco a poco spegnendosi, sebbene più lentamente che negli altri ceti, la morale e gli usi frugali dei primi tempi della repubblica.
Non si trattava ormai che di una questione di tempo perchè i campi dei contadini italici dovessero essere assorbiti dalle grandi tenute, sia per acquisto, sia per cessione.
Il proprietario del fondo era più in grado di resistere che non il contadino.
Egli trovava maggior tornaconto, non affittando i suoi fondi, secondo l'antico sistema, a piccoli affittavoli temporanei, ma facendoli lavorare secondo il sistema più recente dai suoi schiavi; dove questo sistema non era già prima stato introdotto la concorrenza del grano siciliano, ottenuto per opera degli schiavi, costringeva i possidenti italici ad introdurlo facendo lavorare le loro terre da schiavi non aventi nè moglie nè figli invece di servirsi di famiglie di liberi braccianti.
Il proprietario del fondo poteva inoltre mantenersi in equilibrio di fronte alla concorrenza col mezzo di migliorie o mutando coltivazione, accontentandosi anche di una più tenue rendita, mentre non lo poteva fare il contadino per difetto di capitali o per mancanza d'intelligenza, e perchè altro non aveva che quanto gli abbisognava per vivere.
A queste circostanze si deve aggiungere, nell'agricoltura dei Romani, la trascuratezza della coltivazione del frumento, che in molti luoghi sembra si limitasse alla quantità necessaria pel mantenimento del personale addetto al lavoro delle terre[10], e la maggior cura prestata alla produzione dell'olio e del vino, come pure l'allevamento del bestiame.
Tenuto conto delle favorevoli condizioni del clima d'Italia, questi prodotti non avevano da temere la concorrenza straniera; il vino, l'olio e la lana d'Italia s'imponevano per bontà non solo nei mercati interni, ma comparvero ben presto anche negli esteri; la valle del Po, che non trovava consumatori pel suo frumento, provvedeva mezza Italia di maiali e di prosciutto.
E con ciò collima quanto ci viene narrato dei risultati economici dell'agricoltura romana.
Vi è qualche fondamento per ritenere che un capitale investito nell'acquisto di beni stabili all'interesse del 6%, fosse bene impiegato; ciò che sembra in armonia colla doppia rendita adeguata ai capitali che allora era in uso. L'allevamento del bestiame era più redditizio dell'agricoltura; in questa prevaleva la rendita della vigna; veniva poi l'orto coi legumi e l'ulivo, ultimi erano il prato ed il campo arativo[11]. Si permetteva, com'è naturale, che nell'esercizio di ciascun sistema di economia si procedesse secondo le condizioni che convenivano, e conformemente alla natura del suolo.
Queste condizioni bastavano per sè sole a sostituire a poco a poco, dappertutto, le piccole proprietà con le grandi; ed opporvisi legalmente era cosa difficile.
Ma fu un tratto indegno quello di escludere (poco prima del 556=198) per mezzo della legge claudia – sulla quale ritorneremo – dalla speculazione tutte le case senatorie, obbligandole, in conseguenza, ad investire gli immensi loro capitali preferibilmente in beni immobili, cioè a rimpiazzare le antiche tenute rustiche con masserie e con pascoli.
A favorire la pastorizia in luogo dell'agricoltura, benchè di gran lunga meno produttiva, concorsero inoltre delle speciali circostanze. Prima di tutto questo modo di utilizzare il suolo – l'unico che esigesse e ricompensasse grandi operazioni – era il solo che corrispondesse alla massa dei capitali ed allo spirito dei capitalisti di quel tempo.
Benchè l'economia rurale non esigesse la costante presenza del proprietario del podere, esigeva però le frequenti sue visite, e non permetteva l'estensione dei poderi, e solo entro limitati confini la moltiplicazione delle proprietà; il latifondo a pascolo, invece, poteva essere esteso illimitatamente e non esigeva molta cura da parte del padrone.
Per questo motivo si cominciò già a convertire, benchè con perdita di entrate, i buoni terreni arativi in pascoli, pratica che la legislazione, a dir vero, proibì – non si sa quando, ma probabilmente in questo tempo – sebbene con poco successo.
Si aggiunga l'occupazione dei beni demaniali, in virtù della quale sorsero non solo, esclusivamente, vaste tenute, poichè d'ordinario si procedeva all'occupazione di ragguardevoli estensioni di terreno, ma i possidenti, sempre incerti sulla legale durata dell'occupazione, soggetta a revoche arbitrarie, temevano d'impiegare ingenti capitali in migliorie e particolarmente in piantagioni di viti e d'ulivi; donde la conseguenza di sfruttare questi terreni preferibilmente per la pastorizia.