11. Ritorno di Pompeo.
Ma mentre le fazioni della capitale continuavano nelle loro solite contese, senza che ne uscisse una vera decisione, gli affari in oriente, come abbiam già narrato, seguivano il loro fatale corso, e questi avvenimenti erano quelli che spingevano alla crisi il tentennante andamento della politica della capitale.
La guerra continentale e la marittima vi avevano preso una pessima piega. Al principio del 687 = 67 l'esercito pontico dei Romani era stato distrutto, quello dell'Armenia si ritirava in pieno dissolvimento, tutte le conquiste erano perdute, il mare era esclusivamente in potere dei pirati, i prezzi dei cereali per tal cagione in Italia erano saliti tanto alti che si temeva una vera carestia.
Questa misera condizione era certo da attribuirsi, come abbiam veduto, agli errori dei generali e specialmente alla totale inettitudine dell'ammiraglio Marc'Antonio, e alla temerità di Lucio Lucullo, d'altra parte valente capitano; certo anche la democrazia aveva concorso essenzialmente alla dissoluzione dell'esercito armeno colle sue agitazioni. Ma naturalmente ora si rendeva senz'altro responsabile il governo di tuttociò che essi e gli altri avevano guastato e l'astiosa ed affamata moltitudine attendeva solo un'occasione per aggiustare le partite col senato.
Fu una crisi decisiva. L'oligarchia, per quanto fosse disprezzata e disarmata non era però ancora rovesciata, poichè il reggimento della cosa pubblica era ancora nelle mani del senato; ma sarebbe caduta se gli avversari si fossero appropriati della suprema direzione degli affari militari; e ciò era possibile.
Se si fosse proposto ai comizi un altro e miglior modo di condurre la guerra continentale e marittima, era da prevedersi che, tenendo conto dello spirito da cui era invasa la borghesia, il senato non sarebbe stato in grado di impedirne l'adozione; e un intervento della borghesia nelle più alte questioni amministrative valeva in fatto la destituzione del senato e la trasmissione del governo dello stato ai capi dell'opposizione.
La concatenazione delle cose volle che un'altra volta la decisione toccasse a Pompeo. Il festeggiato generale viveva ormai da oltre due anni nella capitale da semplice privato. Di rado si udiva la sua voce in senato e nel foro; in senato egli non era ben veduto e non esercitava alcuna influenza, nel foro temeva il procelloso dibattersi dei partiti. Ma quando vi si mostrava, ciò avveniva col completo corteggio dei suoi ragguardevoli e bassi clienti, e appunto la sua solenne riservatezza s'imponeva alla moltitudine.
Se egli, conservando ancora non menomato il primo splendore dei suoi non comuni successi, si offriva ora di andare in oriente, era sicuro che la borghesia lo avrebbe investito volontariamente di tutta l'autorità militare e politica ch'egli avesse chiesto. Per l'oligarchia, che scorgeva nella dittatura militare concessa dal popolo la sua sicura rovina, e in Pompeo stesso dall'epoca della coalizione del 683 = 71 il suo acerrimo nemico, era questo il colpo estremo; ma nemmeno il partito democratico aveva motivo di stare di buon animo.
Per quanto questo partito potesse vedere volentieri che si mettesse fine al predominio del senato, succedendo però la cosa in questo modo, essa era meno una sua vittoria che una vittoria personale del prepotente suo alleato. Non era difficile che il partito democratico vedesse sorgere in lui un avversario molto più pericoloso di quello che fosse il senato.
Il pericolo scongiurato felicemente pochi anni prima col licenziamento dell'esercito spagnuolo e col ritiro di Pompeo si riaffacciava più tremendo se Pompeo ora si metteva alla testa degli eserciti d'oriente.