7. Costituzione cartaginese.
Aristotele, morto all'incirca cinquant'anni avanti la guerra punica, descrive la costituzione di Cartagine come una monarchia inclinante verso l'aristocrazia, o come una democrazia tendente all'oligarchia, definendola contemporaneamente nelle due maniere.
La direzione degli affari era affidata al consiglio degli anziani, il quale, come la gerusìa spartana, si componeva dei due re eletti annualmente dai cittadini, e di ventotto geronti, i quali pare fossero anch'essi eletti d'anno in anno dai cittadini. Questo consiglio trattava la somma degli affari di stato, dava le disposizioni per la guerra, ordinava le leve e gli arruolamenti, nominava il capitano generale, cui erano assegnati parecchi geronti, fra i quali eleggevansi d'ordinario i comandanti in seconda; ad esso erano diretti i dispacci.
Non è accertato se accanto a questo piccolo consiglio vi fosse anche un gran consiglio; ad ogni modo esso non deve aver avuto una grande importanza.
Pare che ai re non venisse accordata un'influenza personale nello stato; essi, per lo più, apparivano come supremi giudici e come tali venivano chiamati suffeti (praetores). Maggiore era il potere del capitano.
Isocrate, di poco più antico d'Aristotele, dice che i Cartaginesi, in casa loro, si reggevano oligarchicamente, sul campo monarchicamente; e quindi non a torto gli scrittori romani riguardavano l'ufficio del generale presso i Cartaginesi come una dittatura, sebbene i geronti, che gli stavano ai fianchi, dovessero, se non dividere, almeno frenare il suo potere, e sebbene egli fosse tenuto a render conto delle sue azioni appena uscito d'ufficio, ciò che non era prescritto ai duci romani.
La durata del generalato non era fissata, e anche ciò prova come questa dignità fosse affatto diversa dalla potestà regale, in cui l'eletto non rimaneva più d'un anno, e che del resto, anche Aristotile esplicitamente distingue dal generalato; se non che presso i Cartaginesi era in uso conferire molte cariche nello stesso tempo ad un solo individuo; nè deve quindi meravigliare se vediamo lo stesso individuo figurare come duce e come pretore.
Ma sopra la gerusía e i supremi magistrati si trovava la corporazione dei cento e quattro, o meglio dei cento giudici, rocca e baluardo dell'oligarchia. Nella originaria costituzione cartaginese non si parlava di questa corporazione, ma come l'eforato spartano, nacque dall'opposizione aristocratica contro gli ordini monarchici.
La venalità delle cariche ed il piccolo numero dei membri componenti la suprema autorità minacciavano di conferire ad una famiglia cartaginese, che primeggiava su tutte le altre per ricchezza e per gloria militare, la famiglia di Magone, l'amministrazione pubblica in pace ed in guerra, e quella della giustizia. Ciò produsse, verso l'epoca dei decemviri, un cambiamento della costituzione e l'istituzione di un nuovo potere.
Sappiamo che la carica di questore dava diritto ad entrare nel collegio dei giudici, ma che però il candidato doveva sottoporsi all'elezione di certi gruppi di cinque uomini che si completavano nel loro seno; sappiamo inoltre che i giudici, benchè venissero eletti annualmente, rimanevano, di fatto, in carica oltre il tempo prefisso e persino per tutta la loro vita, per cui dai Romani e dai Greci erano chiamati senatori.
Per quanto queste particolarità costituzionali sieno confuse, si riconosce però chiaramente, che lo spirito di questo collegio era quello d'una rappresentanza oligarchica costituita mediante un'elezione fatta dagli ottimati nel corpo del patriziato; di che abbiamo una sola, ma caratteristica prova nel fatto, che a Cartagine, accanto al bagno comune per i cittadini, ve n'era uno particolare per i giudici.
Essi, prima di tutto, erano obbligati a sentenziare come giurati politici, e invitavano principalmente i duci, e, certo, all'occorrenza, anche i pretori ed i geronti a render conto della loro gestione uscendo d'ufficio, e li punivano a lor talento, spesso in modo crudele, senza alcun riguardo e persino colla morte. Qui, come ovunque, i funzionari amministrativi sono sottoposti al sindacato di un'altra corporazione, la forza del potere passò naturalmente dall'autorità sindacata all'autorità sindacante; ed è facile comprendere come da un lato il collegio sindacante si ingerisse di tutti gli affari amministrativi, come ad esempio la gerusía comunicasse i dispacci importanti prima ai giudici e poscia al popolo, e dall'altro come il timore d'un giudizio emesso secondo i successi conseguiti, paralizzasse le azioni dell'uomo di stato, non meno che le azioni del generale.
Benchè in Cartagine la cittadinanza non era costretta, come a Sparta, ad assistere soltanto passivamente alle deliberazioni dei pubblici affari, essa però non vi aveva che una scarsa influenza pratica.
Nelle elezioni dei geronti non s'aveva il menomo pudore a ricorrere alla corruzione; quanto ai generali, veramente non si nominavano senza interrogare il popolo, che però dava il suo voto solo quando la nomina era già proposta dai geronti; con lo stesso sistema si procedeva per altre questioni; per ciò l'appello al popolo aveva effetto solo quando la gerusia credeva di ammetterlo, o quando non potevano mettersi d'accordo i membri che componevano quell'alta magistratura.
In Cartagine non si conoscevano i giudizi popolari. Questa esclusione della cittadinanza dall'esercizio del potere era, probabilmente, un effetto della sua organizzazione politica; le società cartaginesi delle mense in comune, che sono paragonate alle fidizie[3] di Sparta, devono essere state corporazioni ordinate oligarchicamente. V'è indizio persino di un'antitesi fra cittadini urbani e lavoratori, ciò che fa supporre, che questi ultimi fossero tenuti in più basso stato, forse senza partecipazione di diritti.
Se si considerano tutti questi elementi, la costituzione cartaginese apparirà come un governo di capitalisti, cosa naturale in uno stato dove mancava un agiato ceto medio, e dove confluiva una moltitudine di poveri esseri viventi alla giornata, mentre vi fioriva una classe potente di industriali, di uomini politici ragguardevoli, di grossi commercianti e di proprietari di vaste tenute coltivate da schiavi. Il sistema di rinsanguare a spese dei sudditi i patrizi caduti in povertà inviandoli a riscuotere i tributi o ad amministrare la cosa pubblica nei comuni dipendenti – infallibile indizio d'una corrotta oligarchia urbana – era conosciuto anche in Cartagine.
Aristotile attribuì a questo sistema la consistenza della costituzione cartaginese. Fino ai suoi tempi non era avvenuta in Cartagine alcuna notevole rivoluzione nè dall'alto nè dal basso; la plebe rimaneva senza capi poichè la dominante oligarchia poteva sempre offrire a tutti i nobili, ambiziosi o mendichi, uffici e guadagni; e doveva rassegnarsi a raccogliere le briciole, che dalle mense dei ricchi le si gettavano sotto forma di strenne elettorali o di somiglianti largizioni.
Con un governo simile non poteva mancare un'opposizione democratica, ma fino ai tempi della prima guerra punita essa era senza forza. Più tardi, e in parte per reazione alle sconfitte sofferte, il numero dei malcontenti crebbe con una rapidità assai maggiore di quella della fazione demagogica che si era venuta formando a Roma intorno a questi stessi tempi; le assemblee popolari cominciarono ad occuparsi delle questioni politiche, e spesso, a dire l'ultima parola, incrinando così l'onnipotenza dell'oligarchia cartaginese. Anzi, finita infelicemente la seconda guerra punica, su proposta d'Annibale, fu decretato che nessuno del consiglio dei cento potesse durare in carica per due anni consecutivi, e fu così instaurata la piena democrazia; la sola, che, se non fosse stato troppo tardi, avrebbe potuto ancora salvare Cartagine.
Questa fazione, che osteggiava gli ottimati, mostrò di possedere ardite aspirazioni patriottiche e desiderio di riformare lo stato; ma non bisogna dimenticare com'essa si appoggiasse su fondamenta fiacche e marcite.
I cittadini cartaginesi, che i Greci paragonavano ai cittadini alessandrini, erano intolleranti di disciplina che ben meritavano di essere tenuti lontani dagli affari; e ci si domanda quale salvezza si poteva attendere da rivoluzioni le quali, come in Cartagine, erano compiute da uomini vili.