20. Distruzione di Corinto.
Più duro trattamento toccò ai comuni di Tebe, di Calcide e di Corinto. Non si può condannare il fatto che, prese e disarmate, le due prime, con la demolizione delle loro mura, furono ridotte a borghi aperti; invece la distruzione ingiustificata della fiorente Corinto, la prima città mercantile della Grecia, è una vergognosa macchia negli annali di Roma.
Per ordine del senato furono arrestati tutti i cittadini di Corinto, e quelli sfuggiti alla morte, furono venduti schiavi; nè solo le mura e la cittadella vennero demolite, cosa inevitabile, poichè non la si voleva occupare durevolmente, ma la città stessa fu rasa al suolo e si proibì colle usate formule di scongiuro di far servir quel terreno a qualsiasi uso; il territorio della città in parte fu ceduto a Sicione, affinchè sopportasse invece di Corinto le spese per i giuochi nazionale istmici, ma per la maggior parte fu dichiarato bene comunale dei Romani.
Così si spense la «pupilla dell'Ellade», l'ultima preziosa gemma della Grecia, una volta ricca città. Ma se prendiamo di nuovo ad esaminare l'intera catastrofe, la storia imparziale deve riconoscere ciò che gli stessi Greci di quel tempo francamente hanno riconosciuto, che non debba attribuirsi ai Romani la causa della guerra, ma che l'imprudente fellonia e l'insensata tracotanza dei Greci costrinsero i Romani ad intervenire.
La soppressione della sovranità apparente delle leghe, e con essa di ogni folle e rovinoso capriccio, fu una fortuna per il paese, e benchè il governo del supremo duce romano in Macedonia lasciasse molto a desiderare, esso era molto migliore di quello disordinato delle leghe greche e delle commissioni romane durate sino allora.
Il Peloponneso cessò di essere il grande albergo dei mercenari; è provato e naturale che coll'immediato governo romano ritornassero in ogni luogo la sicurezza e il pubblico benessere. L'epigramma di Temistocle, che la ruina aveva cacciato la ruina, non fu senza ragione applicato dagli Elleni di quel tempo al tramonto dell'indipendenza greca. La straordinaria indulgenza dimostrata anche adesso da Roma verso i Greci, si rivela per il confronto col governo che gli stessi magistrati fecero in quel tempo degli Spagnoli e dei Fenici; incrudelire coi barbari non pareva vietato, ma, come più tardi l'imperatore Traiano, anche i Romani di quest'epoca considerarono «cosa inumana e barbara distruggere ad Atene e Sparta l'ultima ombra di libertà rimastavi».
E tanto più vivo si fa il contrasto di questa mitezza coll'aspro trattamento toccato a Corinto, disapprovato persino dagli oratori che avevano difesa la catastrofe di Cartagine e di Numanzia, trattamento che secondo lo stesso diritto romano delle genti non ha giustificazione alcuna dalle parole di scherno contro gli ambasciatori romani pronunciate nelle vie di Corinto.
Nè tuttavia è dovuta alla brutalità di un solo uomo, e meno di tutti a Mummio, la colpa di quella distruzione, che fu decretata dal senato romano. Non si incorre in errore riconoscendo in essa l'opera del partito commerciale, che in questa epoca comincia, vicino alla vera aristocrazia, a immischiarsi della politica, e che colla città di Corinto si liberò di una rivale in commercio.
Siccome furono consultati i maggiori mercanti romani intorno all'organizzazione della Grecia si capisce come la condanna debba essere stata diretta appunto contro Corinto e perchè non solo sia stata distrutta la città, ma vietata la costruzione di una colonia in un luogo tanto favorevole al commercio. Per i negozianti romani, numerosi anche nell'Ellade, il punto centrale fu da allora in poi la peloponnesiaca Argo; ma più importante per il grande commercio romano era Delo, che, porto franco romano sin dal 586 = 168, aveva attirato a sè da Rodi una gran parte degli affari, e ora subentrava con la stessa funzione negli affari di Corinto. Quest'isola rimase per lungo tempo lo scalo principale delle merci che dal levante passavano a ponente[15].