SECONDO CAPITOLO
I MOVIMENTI DI RIFORMA E TIBERIO GRACCO
Dopo la giornata di Pidna lo stato romano godette per un'intera generazione della quiete più profonda, appena or qui or là leggermente turbata.
Il suo impero si estendeva sulle tre parti del mondo; lo splendore della potenza e della gloria del nome romano andavano sempre più solidamente crescendo; tutti gli sguardi erano rivolti all'Italia; gli ingegni, le ricchezze vi affluivano; sembrava che l'età aurea di un pacifico benessere materiale e morale che porta seco la pace dovesse incominciare per essa. I popoli d'oriente di quei tempi parlavano con meraviglia di questa possente repubblica occidentale «che soggiogava i regni vicini e lontani, e dinanzi al cui nome tutti tremavano; ma che cogli amici e coi protetti viveva in buona pace. Tanto grande era la maestà del nome romano, eppure nessuno ardì stendere la mano alla corona, nè pavoneggiarsi nel manto di porpora; ma tutti ubbidivano a quello che d'anno in anno eleggevano a loro signore e non conoscevano nè invidia nè discordia».
Tali le cose vedute in lontananza: da vicino esse apparivano diversamente.
Il regime dell'aristocrazia andava a precipizio nel distruggere la sua stessa opera. Non già che i figli ed i nipoti dei vinti di Canne e dei vincitori di Zama avessero tanto tralignato dai loro padri e dai loro avi: non gli uomini che allora sedevano in senato erano mutati, bensì i tempi. Là dove un piccolo numero di antiche famiglie, largamente provvedute di ricchezze ed eredi di una fama politica governa lo stato, esse nei giorni del pericolo dimostreranno appunto un'incomparabile tenacia di propositi ed un'eroica capacità di abnegazione, come nei tempi tranquilli si mostrano imprevidenti, egoiste e neghittose nel governare. Dell'uno e dell'altro effetto si rinvengono i principî nella natura del sistema ereditario e collegiale.
I germi del male esistevano da lungo tempo, solo mancava il sole della fortuna per svilupparli. Nella domanda di Catone, quale sarebbe la sorte di Roma quando essa non avesse più alcuno stato da temere, si racchiudeva un significato profondo. Adesso quel momento era giunto; ogni vicino che si potesse temere era stato politicamente distrutto, e gli uomini educati nell'antico ordine di cose e alla severa scuola della guerra contro Annibale, che sino all'estrema vecchiaia avevano fatto risuonare la fama di quel tempo solenne, l'uno dopo l'altro erano discesi nella tomba; e finalmente ammutolì in senato e nel foro la stessa voce dell'ultimo di loro, quella del vecchio Catone.
Al governo pervenne una più giovine generazione e la sua politica era un'amara risposta alla domanda del vecchio patriota. Abbiamo già narrato quale forma prendesse nelle loro mani il reggimento dei sudditi e quale la politica estera. Ancor più, se possibile, negli affari interni si abbandonava la barca in balìa del vento; se sotto l'espressione di regime interno si comprende qualche cosa di più del disbrigo degli affari giornalieri, si deve convenire che in quel tempo in Roma non esisteva governo. Il solo pensiero della casta che governava era la conservazione e se fosse possibile l'aumento dei suoi usurpati privilegi. Non già lo stato per la più alta sua magistratura aveva diritto all'uomo migliore e più retto, ma ogni membro della consorteria aveva un ingenito diritto alla suprema carica dello stato che non poteva essere scemato nè da un'ingiusta concorrenza di consorti, nè dai trascorsi degli esclusi. Perciò la consorteria per raggiungere il suo più importante scopo politico, avvisò alla limitazione della rielezione al consolato e all'esclusione degli «uomini nuovi», e riuscì di fatti verso lo anno 603 = 151 di ottenere che fosse legalmente vietata[1] la rielezione e bastasse un governo di patrizie nullità.
Con questa politica della nobiltà avversa alla cittadinanza e diffidente verso i singoli consorti si connetteva pure senza dubbio l'inerzia del governo per ciò che si riferiva all'estero. Non si potevano più sicuramente allontanare dai più puri circoli aristocratici i plebei, i cui diplomi di nobiltà erano le azioni, che tenendoli nell'impossibilità di agire; e nell'universale mediocrità dell'esistente governo, sarebbe riuscito di grave molestia persino un nobile conquistatore della Siria e dello Egitto.