25. Carattere di Silla.
– La posterità non ha saputo apprezzare giustamente nè Silla, nè la sua opera di riorganizzazione; fu ingiusta come suol essere con quelli che si frappongono al rapido corso dei tempi.
È infatti Silla una delle più meravigliose e forse unica figura che vanti la storia.
Di temperamento sanguigno, occhi azzurri, biondo, guance di straordinaria bianchezza che alla minima commozione arrossivano, del resto bello della persona, con uno sguardo vivissimo, Silla non pareva destinato ad essere per lo stato più di quanto erano stati i suoi maggiori, che dai tempi del suo trisavolo Publio Cornelio Rufino (console 464 e 477) – uno de' più distinti generali e l'uomo più magnifico dell'epoca di Pirro – erano rimasti sempre in seconda linea.
Egli amava la vita solo per goderla. Cresciuto in mezzo ad un lusso raffinato, allora comune anche alle famiglie senatorie meno agiate di Roma, egli s'era ben presto abbandonato a tutta la pienezza dei piaceri, che la raffinatezza ellenica, unita alle dovizie romane, poteva procacciare.
Egli era il benvenuto nei nobili convegni come sotto la tenda militare, e festeggiato qual piacevole compagno o camerata; grandi e piccoli trovavano in lui un affezionato e servizievole amico, che all'uopo divideva il suo oro piuttosto con un compagno tribolato che con un ricco creditore.
Appassionato amante del vino, e più ancora delle donne, persino negli ultimi anni di sua vita mal si sarebbe potuto scorgere in lui il reggente allorchè, terminati gli affari della giornata, sedeva a mensa. Un non so che d'ironico, o meglio di buffonesco, lo caratterizzava.
Essendogli stata presentata un giorno, mentre egli, ancora reggente, dirigeva l'asta dei beni dei proscritti, una pessima poesia scritta in sua lode, fece dare allo scrittore un regalo, tolto dal bottino, a patto che promettesse di non cantar più di lui.
Giustificando l'assassinio di Ofella in faccia alla cittadinanza, le narrò la favola del bifolco e dei pidocchi.
Egli amava di scegliere i suoi compagni fra istrioni e trincava volentieri non solo con Quinto Roscio, che era il Talma romano, ma con comici di molto minor conto; egli stesso coltivava discretamente l'arte del canto e componeva persino delle farse che faceva rappresentare in casa sua.
Pure in mezzo a questi allegri baccanali non gli veniva meno la vigoria del corpo e dell'animo, e nel beato ozio campestre egli attendeva con passione alla caccia ancora negli ultimi suoi anni; e l'avere egli dall'espugnata Atene portato seco a Roma gli scritti d'Aristotile, prova ch'egli si dilettava anche delle letture più serie.
I costumi specifici dei Romani gli recavan noia. Silla non aveva nulla di quella goffa alterigia, di cui i grandi di Roma solevano far pompa verso i Greci, nè l'ostentazione dei grandi uomini di corto ingegno; smettendo facilmente ogni sussiego, egli con scandalo di molti de' suoi compatrioti si lasciava vedere nelle città greche in costume greco, e induceva i suoi nobili compagni a guidare essi stessi i carri nelle corse.
Nè Silla s'era lasciato sedurre dalle speranze, patriottiche in parte e in parte egoistiche, che nei paesi liberi attirano ogni talento nascente sull'arena politica e che esso pure, come ogni altro, avrà talvolta sentito; in una vita come la sua, sospesa fra l'ebrezza delle passioni e un più che sereno svegliarsi, svaniscono ben presto le illusioni.
I desideri, le aspirazioni gli saranno sembrate una stoltezza in un mondo governato dal caso, e in cui, se pure in generale si poteva fare assegnamento su qualche cosa, questo non era altro che il caso stesso.
Egli pure si abbandonò alla corrente lasciandosi dominare dall'incredulità e dalla superstizione. La sua strana credulità non è la cieca fede plebea di Mario, che si faceva dire contro pagamento la ventura dai sacerdoti, dalla quale faceva dipendere la sorte delle sue imprese; meno ancora il tenebroso fatalismo del fanatico, sibbene quella credenza nell'assurdo, che s'infiltra necessariamente nella mente degli uomini tutti che più non credono a un ordine coerente di cose, la superstizione del giuocatore favorito dalla fortuna, che si crede privilegiato dalla sorte e destinato a tirare sempre il numero fortunato.
Nelle questioni pratiche in materia di religione Silla era maestro nel far uso dell'ironia. Mettendo a sacco i tesori dei templi greci egli andava dicendo che colui al quale gli stessi dei empivano la cassa, non avrebbe mai potuto ridursi al verde.
Avendogli i sacerdoti del tempio di Delfo annunziato che non osavano spedirgli i chiesti tesori perchè la cetra del dio, toccata, aveva mandato un suono sonoro, egli fece rispondere, che tanto più solleciti dovevano essere a mandarglieli essendo evidente che il dio approvava la sua impresa.
Nè perciò egli si pasceva meno dell'idea di essere il prediletto degli dei e particolarmente di quell'Afrodite ch'egli predilesse sino alla più tarda età.
Nei convegni e nella propria biografia egli si vantò dei rapporti che gli immortali avevano seco lui nei sogni e nei presagi.
Silla aveva ragione più di ogni altro di essere fiero delle sue gesta; ma di quelle quasi dimentico, egli era invece orgoglioso della fortuna che gli era stata sempre fedele.
Era solito dire, che nelle sue imprese gli erano sempre meglio riuscite quelle cui si era accinto d'un tratto e senza preordinazione, ed una delle più singolari sue follie, quella di esporre con uno zero la cifra de' suoi morti nelle battaglie, altro non è che uno scherzo fanciullesco, figlio del prediletto della fortuna.
Silla rivelò interi i suoi sentimenti allorchè, giunto all'apice della sua carriera, e scorgendo tutti i suoi contemporanei a grandissima distanza da sè, si attribuì la denominazione di felice, Sylla felix, come formale sopprannome, e aggiunse denominazioni corrispondenti anche al nomi de' suoi figli.