6. Conseguenze della sconfitta.
La catastrofe, terribile per se stessa, sembrava dovesse esserlo anche nelle sue conseguenze e scuotere nelle sue fondamenta il dominio romano in Oriente. Era ancora il minore dei mali che i Parti ora fossero assoluti padroni oltre l'Eufrate, e che l'Armenia, dopo essere già prima della catastrofe staccata dalla lega romana, ora cadesse interamente sotto la clientela dei Parti, e che ai fedeli cittadini di Carre si facesse duramente scontare la loro devozione verso gli occidentali, per mezzo del loro nuovo signore imposto dai Parti nella persona di un tale Andromaco, che fu una delle guide che trassero i Romani alla rovina.
Ora i Parti si disponevano con tutta serietà a passare l'Eufrate per cacciare dalla Siria i Romani d'accordo cogli Armeni e cogli Arabi. I Giudei e parecchie altre popolazioni occidentali attendevano la liberazione dal dominio romano con non minore impazienza di quanto gli Elleni stanziati oltre l'Eufrate attendevano la liberazione da quello dei Parti; a Roma era imminente lo scoppio della guerra civile; un attacco fatto appunto qui e in questo momento era cosa pericolosissima.
Ma per buona fortuna di Roma i generali delle due parti erano stati cambiati. Il sultano Orode aveva troppe obbligazioni verso l'eroico principe, il quale prima gli aveva messo in capo la corona, e poi aveva fatto sgombrare il paese dai nemici, per non liberarsene immediatamente per mezzo del carnefice. Il suo posto di supremo duce dell'esercito invasore della Siria fu conferito al principe Pacoro, figlio del re, al quale, per essere tanto giovane e senza esperienza, venne assegnato quale consigliere per le cose militari il principe Osace.
Dal lato dei Romani il posto di Crasso nella Siria venne provvisoriamente assegnato al risoluto e assennato questore Caio Cassio. Siccome i Parti, appunto come prima Crasso, non si diedero grande fretta di attaccare, ma si contentarono di mandare negli anni 701 e 702 = 53-52 oltre l'Eufrate delle deboli schiere, che furono facilmente respinte, così Cassio ebbe tutto il tempo di riorganizzare alla meglio l'esercito, e, con l'aiuto del fedele alleato dei Romani Erode Antipatro, di ridurre all'obbedienza i Giudei, che, irritati per la spogliazione del tempio fatta da Crasso, avevano dato mano alle armi.
Il governo romano avrebbe avuto quindi tutto il tempo di spedire delle truppe fresche per la difesa del minacciato confine; ma per le agitazioni dell'incipiente rivoluzione nulla si fece, e così avvenne che quando nel 703 = 51 comparve sull'Eufrate il grande esercito d'invasione dei Parti, Cassio non aveva da opporre che le due deboli legioni, composte degli avanzi dell'esercito di Crasso.
Con esse Cassio non poteva naturalmente nè impedire il passaggio del fiume, nè difendere la provincia. La Siria fu quindi percorsa dai Parti e tutta l'Asia anteriore tremava. Ma i Parti non sapevano assediare la città. Da Antiochia, dove Cassio si era ritirato con le sue truppe, essi non solo ripartirono come erano venuti, ma nella loro ritirata furono sullo Oronte tratti in un'imboscata dalla cavalleria di Cassio e battuti dalla fanteria romana; lo stesso principe Osace fu trovato fra i morti.
Amici e nemici allora s'accorsero che l'esercito dei Parti, condotto da un generale di comune talento, e su un terreno comune, non era superiore a qualunque altro esercito orientale. Però non era detto che si rinunciasse all'aggressione. Ancora nell'inverno 703-4 = 51-50, Pacoro mise il suo campo presso Cirrestica, sulla destra dell'Eufrate, e il nuovo governatore della Siria, Marco Bibulo, altrettanto meschino come generale quanto inetto come uomo di stato, non seppe far nulla di meglio che chiudersi nelle sue fortezze.
Tutti credevano che nel 704 = 50 la guerra irromperebbe con nuova forza, ma Pacoro, invece di rivolgere le armi contro i Romani, le volse contro il proprio padre e si mise d'accordo persino col governatore romano. Con ciò non fu cancellata la macchia dallo scudo dell'onore romano, nè ripristinata in Oriente la considerazione per Roma, ma fu impedita l'occupazione partica nell'Asia minore e fu mantenuto, almeno provvisoriamente, il confine dell'Eufrate.
A Roma l'avvampante vulcano della rivoluzione avvolgeva intanto colle vorticose sue nubi di fumo tutti gli spiriti. Si mancava assolutamente di soldati e di danaro per combattere i nemici del paese e nessuno più volgeva un pensiero alle sorti dei popoli.
Il fatto che l'enorme calamità nazionale avvenuta a Carre e a Sinnaca interessasse gli uomini di stato molto meno che non quel meschino tafferuglio avvenuto sulla via Appia, nel quale, pochi mesi dopo Crasso, era rimasto morto Clodio il condottiero di bande, è uno dei tratti caratteristici più orrendi dell'epoca; ma la cosa si spiega ed è scusabile.
La scissione fra i due autocrati, da lungo tempo preveduta inevitabile e spesso annunziata come vicina, si andava ora a gran passi avvicinando. La nave della repubblica romana si trovava, come nell'antico mito greco marinaresco, quasi fra due roccie spinte l'una contro l'altra; quelli che vi si trovavano, attendendo nella più terribile angoscia di udire da un momento all'altro lo scricchiolante tremendo urto, stavano collo sguardo fisso sulle onde, che, elevandosi sempre più gigantesche, si frangevano nella vorticosa voragine, e mentre ogni più lieve movimento attraeva qui mille sguardi, nessuno osava volgere l'occhio nè a destra nè a sinistra.