9. Annullamento politico del patriziato.
Con l'elezione del primo console non patrizio, che cadde su uno dei promotori di questa riforma, Lucio Sestio Laterano, già tribuno del popolo, la nobiltà ereditaria cessò di fatto e di diritto di aver posto fra le politiche istituzioni di Roma.
Se dopo l'adozione di queste leggi l'instancabile propugnatore del patriziato, Marco Furio Camillo, fondò ai piedi del Campidoglio, su un piano elevato che dominava l'antica piazza ove si adunavano i cittadini a comizio, un tempio dedicato alla Concordia, in cui spesso si raccoglieva il senato, è naturale credere che il fiero patrizio riconoscesse ormai nel fatto compiuto la fine d'una contesa che si era anche troppo prolungata. La consacrazione religiosa della nuova concordia del comune fu l'ultimo atto pubblico del vecchio guerriero e uomo di stato, e la nobile fine della sua gloriosa carriera. Egli non si era interamente ingannato; quelle fra le vecchie famiglie, che meglio intendevano i segni dei tempi, riguardavano come perduti i privilegi esclusivi del patriziato e si accontentavano ormai di dividere il potere coll'aristocrazia plebea. Ma nella maggioranza dei patrizi la incorreggibile nobiltà non smentì i principii. In forza del privilegio, che i propugnatori della legittimità si sono attribuiti, di ubbidire alle leggi soltanto quando esse coincidono cogli interessi del loro partito, i nobili romani si permisero ancora parecchie volte, con aperta violazione del seguìto componimento, di far eleggere due consoli patrizi; ma quando per rappresaglia di una simile elezione, fattasi l'anno 411 = 343, il popolo, nell'anno successivo, decise formalmente di autorizzare la nomina di due plebei ad entrambe le cariche di console, i patrizi capirono la minaccia contenuta in siffatta decisione, e in seguito, benchè forse l'abbiano desiderato, non hanno osato mai più tentare d'invadere il secondo posto di console. In egual modo la nobiltà si ferì colle proprie mani tentando, in occasione delle leggi sestio-licinie, di conservare con meschine tergiversazioni qualche briciola degli antichi privilegi.
Col pretesto che la sola nobiltà conosceva la giurisprudenza, allorchè la magistratura suprema si dovette accomunare ai plebei, fu separata dal consolato l'amministrazione della giustizia e le venne delegato un apposito terzo console o pretore, come fu comunemente poi chiamato.
Per la sorveglianza del mercato e per gli annessi uffici di polizia, come ancora per l'ordinamento della festa della città, furono nominati due edili i quali, dalla loro giurisdizione senatoria, affine di distinguerli dai plebei, furono detti edili curuli (aediles curules).
Ma l'edilità cerule divenne tosto accessibile ai plebei in modo che ogni anno si scambiavano gli edili curuli nobili e plebei.
L'anno 398 = 356 fu inoltre schiusa ai plebei la via alla dittatura, come sino dall'anno prima che comparissero le leggi sestio-licinie (386 = 368) essi ottennero la dignità di mastro di cavalleria, l'anno 403 = 351 la censoria, l'anno 417 = 337 la pretura: anzi di quel tempo (415 = 339) la nobiltà fu legalmente esclusa da uno dei posti di censore, come era accaduto prima rispetto al consolato. Non si dava alcuna importanza alle proteste di un augure patrizio che avesse trovato nell'elezione di un dittatore plebeo (427 = 327) dei vizi segreti, invisibili ad occhi profani, nè si badò più all'opposizione del censore patrizio, il quale fino allora (474 = 280) non aveva permesso al suo collega plebeo di fare il solenne sacrifizio, col quale si chiudeva il censimento. Queste sofisticherie ad altro non servivano se non a provare il malumore dei nobili.
Finalmente la legge publilia del 415 = 339 e la legge menia, che non comparve prima della metà del quinto secolo, tolsero ai patrizi il diritto di confermare o di rigettare le deliberazioni delle centurie, diritto che senza dubbio avranno di rado osato esercitare, in modo che sarà stata per loro una necessità di approvare anticipatamente ogni deliberazione delle medesime, fossero leggi o elezioni.
Le famiglie patrizie mantennero, come è facile immaginare, assai più lungamente i loro privilegi religiosi; anzi non fu mai fatta innovazione di sorta in parecchi di quei privilegi che non avevano importanza politica, come, per esempio, il diritto esclusivo di elezione ai tre supremi uffici dei flamini, alla carica di sommo sacerdote, e alla confraternita dei saltatori.
Troppo importanti erano invece i due collegi dei pontefici e degli auguri, ai quali era annessa la conoscenza della legge ed una grande influenza sui tribunali e sui comizi, perchè potessero durare in esclusivo patrimonio dei patrizi: la legge ogulnia dell'anno 454 = 300 schiudeva anche ai plebei l'ingresso nei detti collegi aumentando il numero dei pontefici e quello degli auguri da sei a nove e dividendo nei due collegi i posti in numero eguale tra patrizi e plebei.
L'ultima conclusione della lotta durata duecento anni, fu la legge del dittatore Q. Ortensio (465 = 289 – 468 = 286), che invece del pareggiamento condizionato, stabilì quello incondizionato delle deliberazioni dell'assemblea repubblicana e della plebe. Così si erano mutate le circostanze in modo che quella parte della cittadinanza che già aveva posseduto, sola, il diritto di votazione, d'ora in poi non era nemmeno più interpellata nelle votazioni obbligatorie per tutta la cittadinanza complessiva.