6 . Annibale.
Tuttavia questa arrendevolezza dei vinti non era soltanto pazienza e rassegnazione.
Esisteva in Cartagine ancora un partito patriottico, alla cui testa trovavasi l'uomo, che, ovunque la sorte lo ponesse, era sempre lo spauracchio dei Romani.
E quel partito approfittando delle complicazioni sorte, come era facile a prevedersi, tra Roma e le potenze orientali, non aveva rinunziato a riprendere un'altra volta la guerra, e per sostenere questa nuova lotta, dopo fallito il grandioso piano d'Amilcare e de' suoi fidi per virtù dell'oligarchia cartaginese, incominciò prima di tutto col riordinare gli affari interni.
La potenza miglioratrice della necessità, nonchè lo spirito nobile d'Annibale, profondo conoscitore degli uomini, promossero utili riforme politiche e finanziarie.
L'oligarchia, che provocando una delittuosa inchiesta contro il gran capitano, per aver questi, a ragion veduta, mancato di prender Roma e per sottrazione del bottino italico, aveva colmata la misura delle criminose sue stoltezze – questa putrida oligarchia fu per opera d'Annibale rovesciata e stabilito un governo democratico come lo volevano le condizioni della borghesia (prima del 559=195).
Colla riscossione dei denari arretrati e sottratti alle casse e con la istituzione d'un migliore controllo le finanze furono sollecitamente riordinate, sì che il versamento della contribuzione romana fu eseguito senza imporre straordinari aggravi ai cittadini.
Il governo romano, che appunto allora era in procinto di ricominciare la pericolosa guerra col gran re d'Asia, seguiva questi avvenimenti naturalmente con qualche apprensione.
Non era un pericolo immaginario quello che, mentre le legioni romane combattevano nell'Asia minore, la flotta cartaginese approdasse in Italia, e vi potesse insorgere una seconda guerra annibalica.
Non si possono quindi biasimare i Romani se essi mandarono un'ambasciata a Cartagine (559=195) incaricata probabilmente di chiedere la consegna di Annibale.
Gli oligarchi cartaginesi, che nel loro rancore spedivano lettere sopra lettere a Roma, denunziando al nemico della loro patria l'uomo che li aveva rovesciati dal potere, incolpandolo di segrete mene colle potenze avverse ai Romani, meritano tutto il disprezzo; ma le loro relazioni erano probabilmente giuste.
Per quanto sia vero che in questa ambasciata si ravvisasse un'umiliante confessione della paura che teneva in agitazione il gran popolo di fronte al semplice Sufetes di Cartagine, per quanto tornasse ad onore dell'orgoglioso vincitore di Zama, la protesta da lui fatta al senato contro quel passo umiliante, questa confessione non era altro che la semplice verità. Annibale era un uomo così straordinario che soltanto i politici romani sentimentali lo potevano tollerare più lungamente alla testa dello stato cartaginese.
Lo strano riconoscimento, che egli trovò nel governo nemico, non gli riuscì di sorpresa. Siccome era stato Annibale che aveva fatta l'ultima guerra e non Cartagine, così la sorte dei vinti doveva colpire soprattutto lui.
I Cartaginesi non potevano fare altro che rassegnarsi e ringraziare la loro amica stella che Annibale, colla improvvisata e prudente sua fuga in oriente, risparmiando alla città nativa l'onta maggiore, lasciasse ad essa la minore, quella cioè di aver bandito per sempre dalla propria patria il suo più grande cittadino, di aver confiscato i suoi beni e rasa al suolo la sua casa; sicchè si verificò in Annibale pienamente il motto profondamente sapiente, che i prediletti degli dei sono quelli cui essi concedono gioie e dolori innegabili.
Meno giustificabili dell'accanimento del governo romano contro Annibale furono i modi sospettosi e molesti, praticati dallo stesso governo contro Cartagine dopo la sua fuga. Vi continuarono veramente le agitazioni dei partiti, ma dopo l'allontanamento dell'uomo che aveva quasi capovolto i destini del mondo, il partito patriottico non aveva maggior importanza in Cartagine di quello che avesse nell'Etolia e nell'Acaia.
L'idea più saggia di quelli che allora tenevano in agitazione l'infelice città, era senza dubbio quella di unirsi con Massinissa e di tramutare l'oppressore in protettore dei Cartaginesi. Se non che, non essendo pervenuta al potere nè la frazione patriottica del partito nazionale, nè quella che propendeva per i Libi, ma essendo esso rimasto nelle mani degli oligarchi favorevoli ai Romani, essi, sebbene non rinunciassero alla speranza d'un migliore avvenire, si tenevano fermi alla sola idea di salvare il benessere materiale e la libertà comunale di Cartagine sotto la protezione di Roma. I Romani n'avrebbero pure potuto andar tranquilli.
Ma a Roma la moltitudine e gli stessi membri del governo di tempra comune non potevano cacciare dalla mente le ansie provate durante la guerra annibalica; i commercianti romani poi invidiavano Cartagine, la quale, sebbene avesse perduta tutta la sua importanza politica, pure continuava a mantenersi in possesso di estese relazioni commerciali e di una ricchezza solida ed incrollabile.
Il governo cartaginese offrì sin dal 567=187 il versamento immediato di tutte le rate della contribuzione stipulata nel trattato di pace del 553=201, ciò che i Romani, come era ben naturale, declinarono, poichè ad essi importava assai più l'obbligo del tributo di Cartagine che il denaro stesso; ma dall'offerta dedussero la persuasione, che, malgrado tutti gli sforzi fatti, Cartagine non era rovinata, nè poteva esserlo.
E in Roma continuavano a circolare notizie sulle mene degli infidi Cartaginesi. Ora era comparso in Cartagine Aristone da Tiro quale emissario d'Annibale per preparare i cittadini all'approdo d'una flotta asiatica (561=193); ora il senato aveva dato udienza notturna agli ambasciatori di Perseo nel tempio d'Esculapio (581=173); ora si parlava della formidabile flotta che Cartagine armava per la guerra macedonica (583=171). È verosimile che queste notizie ed altre simili non avessero altro fondamento che, tutt'al più, qualche imprudenza individuale; esse erano però sempre pretesto per nuovi insulti diplomatici da parte dei Romani, per nuove usurpazioni da parte di Massinissa e sempre più chiaro si manifestava il pensiero, per quanto fosse assurdo, che con Cartagine non si poteva finirla senza una terza guerra punica.