TREDICESIMO CAPITOLO
AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO
1 Agricoltura.
L'agricoltura e il commercio sono così strettamente legati alla costituzione sociale ed alla storia esterna degli stati, che già nel trattare di ciò abbiamo dovuto più volte accennarvi. Ora tenteremo di descrivere, completando i cenni che già ne abbiamo dati, gli ordini economici d'Italia e specialmente quelli di Roma.
Abbiamo già notato come il passaggio dalla pastorizia all'agricoltura avvenne prima della migrazione degli Italici nella penisola. L'agricoltura rimase il perno fondamentale di tutte le società italiche, cioè delle sabelliche e delle etrusche non meno che delle latine; nel tempo storico non si riscontrano in Italia vere tribù pastorali, sebbene vi si esercitasse dappertutto, a seconda della natura del suolo, accanto all'agricoltura, anche la pastorizia. Quanto fosse comune e profonda la persuasione che base d'ogni repubblica dovesse essere l'agricoltura, lo prova l'aureo costume di iniziare la fondazione delle nuove città, tracciando coll'aratro un solco, ove doveva poi sorgere il cerchio delle mura. La prova che Roma, la sola delle cui condizioni agrarie si possa parlare con qualche sicurezza, poneva sin da principio negli agricoltori il centro di gravità dello stato, e che anzi faceva ogni sforzo per vincolare allo stato tutti i possidenti considerandoli come il nerbo della cosa pubblica, si ha chiaramente nella riforma di Servio. Dopo che, coll'andar del tempo, una gran parte dei latifondi romani erano passati nelle mani di non cittadini e che per conseguenza i diritti ed i doveri dei cittadini non si fondavano più sulla proprietà, la costituzione riformata tolse di mezzo simile sproporzione ed i pericoli che vi erano insiti non per una volta soltanto, ma per tutti i tempi, classificando gli abitanti di Roma, senza alcun riguardo alla politica loro origine, in «possidenti» e in «procreatori di prole» e aggravando i possidenti di tutte le imposizioni pubbliche, alle quali per conseguenza dovevano rispondere i diritti politici. Tutta la politica guerriera e conquistatrice dei Romani era basata, come la costituzione, sulla proprietà; e allo stesso modo che nello stato non contava se non il proprietario, così lo scopo della guerra era quello di aumentarne il numero degli abitanti con domicilio e proprietà nel comune.
Il comune conquistato, o costretto a scendere a patti, si vedeva o incorporato nel contado romano, o, quando non si arrivava a tale estremo, in luogo delle contribuzioni di guerra o tributi, veniva obbligato a cedere una terza parte del suo territorio che era convertito in tenute reali romane.
Molti popoli hanno riportato vittorie e fatto conquiste come i Romani, ma nessuno al pari di essi ha saputo appropriarsi col sudore della fronte il suolo dei vinti e meritare per la seconda volta, con l'aratro, quello che la lancia aveva loro acquistato. Ciò che la guerra dà, la guerra può togliere: ma non così le conquiste fatte dall'agricoltore. Se i Romani, malgrado le molte battaglie perdute, nel far la pace non cedettero quasi mai alcuna parte della terra romana, essi ne andarono debitori al tenace amore dei contadini per i loro campi e per le loro proprietà. La forza dell'uomo e quella dello stato stanno nel dominio della terra; la grandezza di Roma crebbe sulla base della più vasta e immediata signoria dei cittadini sul suolo e sulla serrata unità di codesta salda e radicata ruralità.