DUODECIMO CAPITOLO
RELIGIONE – CULTURA LETTERATURA ED ARTE
1. Religione dello stato.
In quest'epoca non sorge alcun nuovo fattore nello sviluppo religioso filosofico.
La religione dello stato romano-ellenico e la filosofia stoica ad esso indissolubilmente legata, erano per ogni governo, oligarchico, democratico o monarchico, uno strumento non solo comodo, ma indispensabile, poichè era proprio altrettanto impossibile ordinare lo stato senza nessun elemento religioso, quanto era impossibile di trovare in sostituzione dell'antica una conveniente religione dello stato.
Quindi la scopa della rivoluzione passò bensì incidentalmente con molta asprezza sulle ragnatele della scienza augurale; ma la fracida macchina crepitante in tutte le sue connessure, resistette al terremoto che inghiottì la repubblica, e salvò intatta la sua goffaggine e il suo fasto trasmettendoli alla nuova monarchia.
Si comprende che essa crebbe col disfavore di tutti coloro che conservavano libertà di giudizio. Veramente l'opinione pubblica si tenne indifferente rispetto alla religione dello stato, che era dappertutto riconosciuta come una istituzione di convenienza politica e della quale, ad eccezione degli scienziati politici e degli antiquari, nessuno si dava gran pensiero.
Ma contro la filosofia sua sorella si sviluppò nel pubblico spregiudicato quella ostilità che la vuota e perfida ipocrisia parolaia non manca alla lunga di destare. Che lo stesso stoa cominciasse ad avere un sospetto della propria nullità, lo prova il suo tentativo d'infondere artificialmente a se stesso nuovo spirito mediante il sincretismo.
Antioco d'Ascalona (fioriva nel 675 = 79), il quale sosteneva di avere cementato in una organica unità il sistema stoico col platonico-aristotelico, riuscì effettivamente a far sì che la sua sfigurata dottrina divenisse la filosofia di moda dei conservatori di quell'epoca e che fosse coscienziosamente studiata da distinti dilettanti e letterati di Roma. Quelli però che manifestavano una freschezza di mente o si opponevano allo stoa o lo ignoravano.
V'era principalmente l'avversione per i chiacchieroni e per i noiosi Farisei romani, o, se si vuole, anche la crescente tendenza a passare dalla vita pratica ad una rilassata apatia o ad una futile ironia, alla quale durante quest'epoca il sistema di Epicuro andava debitore della sua propagazione in cicli maggiori, e la filosofia cinica di Diogene della sua cittadinanza in Roma.
Per quanto però quel sistema fosse debole e povero di pensiero, una filosofia che per giungere alla sapienza non cercava nuove cognizioni, ma si accontentava di quelle esistenti, e che non ammetteva come assolutamente vera se non la sensuale percezione, era sempre da preferirsi al crepitare termologico e ai vuoti concetti della sapienza stoica; e la filosofia cinica era, fra tutti i sistemi filosofici d'allora, il migliore, inquantochè il suo sistema si limitava a non avere alcun sistema e a schernire tutti i sistemi e tutti i sistematici.
In entrambi i campi si combattè con zelo e con buon esito contro lo stoa; per gli uomini serî predicava l'epicureo Lucrezio, col pieno accento dell'intima persuasione e del santo fervore contro la fede stoica degli dei e della provvidenza, e contro la dottrina stoica dell'immortalità dell'anima; per le masse, pronte a ghignare, colpiva nel segno ancor più aspramente il cinico Varrone con gli acuti strali delle sue satire, molto lette. Se dunque i più validi uomini della più antica generazione sfidavano lo stoa, i più giovani invece, per esempio Catullo, non stavano più con essa in alcuna intima relazione e la censuravano, assai più mordacemente, con un assoluto oblio.