16.Achei e Spartani.
Gli Achei si credevano obbligati ad ostentare tanto maggiormente l'indipendenza del loro stato quanto minore essa era in realtà; parlavano di diritto di guerra e del leale aiuto prestato nelle guerre dei Romani e chiedevano agli ambasciatori romani, presenti alle adunanze della lega, perchè Roma si desse tanto pensiero di Messene, mentre l'Acaia non se ne dava alcuno di Capua; il generoso patriota che pronunziò queste parole fu applaudito e potè tenersi sicuro dei voti nelle elezioni.
Tutto ciò sarebbe stato giusto e sublime se non fosse stato troppo ridicolo. Era nell'ordine della giustizia, ma nello stesso tempo assai doloroso che, per quanto Roma si affannasse seriamente a fondare la libertà degli Elleni e a meritarne la riconoscenza, null'altro desse loro che l'anarchia, e null'altro raccogliesse che ingratitudine.
Non vi è dubbio che questa antipatia verso la potenza protettrice fosse nei Greci provocata da nobili sentimenti, come non vi è dubbio del valore personale di alcuni capiparte. Ma non ostante ciò, questo patriottismo acheo non è che una stoltezza ed una vera caricatura storica.
Malgrado tutto questo orgoglio e questa suscettibilità, l'intera nazione è intimamente persuasa della propria impotenza.
L'attenzione di tutti, siano liberali o servili, è costantemente diretta a Roma; si rendono grazie ai numi quando il temuto decreto non arriva; si mormora quando il senato fa intendere che converrebbe cedere spontaneamente per non doverlo fare per forza; si fa ciò che si deve fare, possibilmente, in modo offensivo pei Romani «per salvare la forma»; si riferisce, si dànno spiegazioni, si differisce, si agisce fraudolentemente, e quando tutto ciò non giova, si curva la fronte con un patriottico sospiro.
Questa condotta avrebbe meritato, se non approvazione, indulgenza, qualora i capi agitatori fossero stati pronti alla lotta ed avessero preferito al servaggio la distruzione della nazione; ma nè Filopemene, nè Licorta pensavano ad un tale suicidio politico. Si voleva essere possibilmente liberi, ma, sopra ogni cosa, si voleva vivere.
Con tutto ciò non sono mai i Romani quelli che provocano l'intervento di Roma negli affari interni della Grecia, ma sempre i Greci stessi, i quali, come fanciulli, adoperano l'uno contro l'altro il bastone che temono.
Il rimprovero, ripetuto sino a sazietà, contro i Romani, dalla massa dei dotti dei tempi greci e posteriori, di suscitare in Grecia le discordie interne, è una delle più stolte assurdità che i filologi politicanti abbiano mai immaginato.
Non furono mai i Romani che crearono dissensi in Grecia – sarebbe stato come portare nottole ad Atene – ma furono proprio i Greci che portarono le loro discussioni a Roma.
E prima di tutto gli Achei, i quali, per l'avidità di estendere il loro territorio, non vollero assolutamente riconoscere che sarebbe stato più vantaggioso per loro se Flaminino non avesse incorporato nella lega achea anche le città che simpatizzavano per gli Etoli, e suscitarono in Lacedemone ed in Messene una quantità di interne discordie.
A Roma si succedevano senza posa le preghiere e le suppliche degli abitanti di queste due città per essere svincolati dalla odiosa lega, ed è abbastanza caratteristico che fra i supplicanti fossero persino quegli stessi, i quali dovevano agli Achei il loro ritorno in patria.
A Sparta ed a Messene la lega achea non faceva che riformarsi e rigenerarsi; i più furibondi emigrati di queste città dettavano alla dieta le misure che essa doveva prendere. Quattro anni dopo l'ammissione federale di Sparta nella lega, si venne persino a guerra aperta e s'introdusse una restaurazione forsennata, per cui tutti gli schiavi, a cui Nabida aveva donato la cittadinanza, furono di nuovo venduti in schiavitù, e con la somma ricavata fu edificato un peristilio in Megalopoli, capitale degli Achei; in Sparta furono ripristinate le antiche condizioni della proprietà, sostituite alle leggi di Licurgo le achee, ed atterrate le mura (566=188).
Per venire a capo di tutta questa faccenda, da tutte le parti fu finalmente richiesto il senato romano di pronunciare un giudizio arbitrale – noia meritata per aver esso voluto seguire una politica di sentimento.
Lungi dal mischiarsi in questi affari, il senato non solo tollerò, con esemplare sangue freddo, i pungenti sarcasmi dello spirito acheo, ma permise persino, con una biasimevole indifferenza, che si commettessero le cose più nefande.
Gli Achei furono tutti felici quando pervenne loro la notizia che il senato aveva aspramente biasimato la restaurazione, ma non aveva nulla cassato. A favore di Sparta Roma, giustamente sdegnata per la condanna a morte pronunciata dagli Achei contro sessanta od ottanta spartani, non fece altro che togliere alla dieta la giurisdizione criminale sugli Spartani, il quale atto fu certamente un'ingerenza odiosa negli affari interni di uno stato indipendente!
Gli uomini di stato romani ben poco si curavano di questa tempesta in un bicchier d'acqua, come, meglio di ogni altra cosa, lo provano le molteplici lagnanze intorno alle decisioni del senato, superficiali, contraddittorie e confuse; ma come poteva esso rispondere con chiarezza, quando nel suo seno disputavano contemporaneamente i rappresentanti di quattro partiti di Sparta? Si aggiunga a ciò la impressione che la massima parte di questi uomini del Peloponneso produceva in Roma; lo stesso Flaminino non poteva a meno di essere scandalizzato allorchè uno di essi, la sera, lo intratteneva con una danza e il giorno appresso gli parlava di affari di stato.
E le cose andarono tant'oltre che, alla fine, il senato perdette la pazienza e dichiarò ai Peloponnesiaci che non si darebbe più alcun pensiero di loro e che potevano fare ciò che volevano (572=182).
Ciò era naturale, ma non era giusto; nella posizione in cui si trovavano i Romani, essi erano moralmente e politicamente obbligati a ristabilire colà, seriamente, le cose ad una tollerabile condizione.
Quel Callicrate acheo, il quale l'anno 575=179 si presentò al senato per informarlo sulle condizioni del Peloponneso e per chiedere un efficace e durevole intervento, sarà stato un uomo di minore abilità del suo compatriota Filopemene, fondatore principale di quella politica patriottica; ma egli aveva ragione.