3. Rendite provinciali.
Nelle province lo stato romano considerava sua proprietà privata tutto il suolo degli stati che, secondo il diritto di guerra, erano stati distrutti e in quelli ove il governo romano era subentrato al posto degli antichi dominatori, il suolo da essi posseduto; in base al quale diritto entrarono a far parte dei demani romani i territori di Leontini, di Cartagine, di Corinto, i beni demaniali dei re di Macedonia, di Pergamo, di Cirene, le miniere in Spagna e in Macedonia, che, come il territorio di Capua, furono appaltati dai censori a impresari privati contro una parte del prodotto o per una somma determinata.
Abbiamo già accennato come Caio Gracco andasse più oltre, e volesse considerare come beni demaniali tutto il suolo della provincia, e come attuasse questo principio dappertutto nella provincia d'Asia, basando la decima del raccolto, la tassa pastorizia e i diritti portuali sul diritto dello stato romano sui campi, sui prati e sulla spiaggia, anche se fossero stati prima proprietà regia o di privati.
Pare che di questo tempo lo stato non ricavasse dalle province nemmeno utili regie; il divieto della coltivazione della vite e dell'ulivo nella Gallia transalpina non giovò certamente all'erario dello stato come tale.
Si riscuotevano per contro su vasta scala imposte dirette ed indirette. Gli stati protetti, riconosciuti assolutamente sovrani, come per esempio i regni di Numidia e di Cappadocia, le città federali (civitates) di Rodi, Messana, Taormina, Massalia, Gades erano per diritto esenti da imposte, e in forza del loro trattato incombeva loro soltanto l'obbligo di venire in aiuto della repubblica romana in tempo di guerra, sia mettendo a disposizione a proprie spese un numero stabilito di navi o di soldati, sia, come era ben naturale, con ogni sorta di mezzi straordinari, qualora fosse necessario.
Tutto il rimanente territorio provinciale, viceversa, comprese persino le città libere, era intieramente soggetto alle imposte, solo eccettuate le città investite del diritto di cittadinanza romana, come Narbona, e principalmente i comuni ai quali era stata accordata l'esenzione dalle imposte (civitates immunes), come Centoripa in Sicilia.
Le imposte dirette consistevano, come in Sicilia e in Sardegna, parte nel diritto alla decima[2] dei covoni e degli altri prodotti del suolo come le uve e le olive, o, se si trattava di terreno da pascolo, nel pagamento di una somma corrispondente, parte, come in Macedonia, nell'Acaia, in Cirene, nella maggior parte dell'Africa, nelle due Spagne, e, dopo Silla, anche nell'Asia, in una somma fissa (stipendium tributum), che ogni comune doveva versare annualmente nelle casse dello stato romano; così, per esempio, tutta la Macedonia versava 600.000 denari, la piccola isola di Giaro, presso Andro, 150 denari; si pagava perciò, a quanto pare, in complesso, meno dopo che prima del dominio romano.
Lo stato dava queste decime sui prodotti del suolo e le tasse sui pascoli a cottimo ad imprenditori privati verso somministrazione di una quantità convenuta di grano o verso il pagamento di determinate somme di danaro; per queste imposte pecuniarie esso si atteneva ai singoli comuni, lasciando ai medesimi la cura di ripartire le singole somme sui contribuenti e quella di riscuoterle secondo i principî stabiliti in generale dal governo romano[3].