19. Guerra con l'Armenia.
Ma ancora non si erano sistemate le condizioni dell'Armenia.
Si è già dimostrato che una dichiarazione di guerra dei Romani a Tigrane era giustificata, anzi imposta dalle circostanze.
Lucullo, che aveva osservato più da vicino e con maggior senno le condizioni delle cose che non il collegio senatorio di Roma, riconobbe chiaramente la necessità di ridurre l'Armenia nei suoi limiti e di riconquistare a prò di Roma la perduta signoria sul Mediterraneo.
Nella direzione degli affari asiatici egli si rivelò non indegno successore del suo maestro ed amico Silla. Filelleno come pochi Romani del suo tempo, egli non era insensibile agli obblighi che Roma aveva assunto coll'eredità di Alessandro: di essere cioè lo scudo e la spada dei Greci in oriente. Non vogliamo negare che Lucullo non si sia lasciato indurre a questi piani anche da motivi personali, dal desiderio di raccogliere degli allori anche oltre l'Eufrate, dalla suscettibilità offesa perchè il gran re in una lettera a lui diretta aveva omesso il titolo di imperator; ma è ingiusto ricercare motivi meschini ed egoistici per azioni, alla cui spiegazione bastano perfettamente quelli conformi al dovere.
Però dal governo romano, sempre in angoscia, neghittoso, male informato e anzitutto tribolato dall'eterna penuria in cui versavano le sue finanze, non si poteva mai aspettare che, senza esservi immediatamente costretto, prendesse l'iniziativa per una così lontana e dispendiosa spedizione.
Verso l'anno 682 = 72 erano venuti a Roma i rappresentanti legittimi della dinastia dei Seleucidi, Antioco detto l'Asiatico e suo fratello, indottivi dalla piega favorevole della guerra pontica, per ottenere l'intervento romano nella Siria, e nel tempo stesso far riconoscere i loro diritti ereditari sull'Egitto.
Benchè questi non potessero venir concessi, non era possibile trovare un più favorevole momento ed una migliore occasione per incominciare la guerra con Tigrane, ritenuta da lungo tempo necessaria. Senonchè il senato aveva riconosciuto i principi come i legittimi re della Siria, ma non si era potuto risolvere ad ordinare l'intervento armato.
Per non lasciarsi sfuggire l'occasione favorevole conveniva che Lucullo cominciasse la guerra a suo rischio e pericolo e senza un preciso ordine del senato. Anch'egli, come Silla, si era visto nella necessità di intraprendere ciò che era di manifesto interesse dell'attuale governo, ma non d'accordo con esso, anzi suo malgrado.
Questa determinazione riusciva meno scabrosa a Lucullo per gli incerti rapporti di Roma coll'Armenia, che da lungo tempo oscillavano tra la pace e la guerra, rapporti che coprirono il suo arbitrario operato e fornirono motivi sufficienti per venire ad una guerra.
La situazione della Cappadocia e della Siria offrivano cause sufficienti, e d'altronde i confini del regno di Tigrane erano già stati lesi dalle truppe romane inseguenti il re pontico.
Ma siccome il còmpito di Lucullo era la direzione della guerra contro Mitridate, ed esso desiderava restare attaccato a quello, così pensò di mandare al gran re in Antiochia uno dei suoi ufficiali, Appio Claudio, per chiedere la consegna di Mitridate, il che doveva condurre necessariamente alla guerra.
La deliberazione era seria, tanto più se si tiene conto delle condizioni dell'esercito romano. Durante la campagna dell'Armenia era inevitabile di occupare fortemente l'esteso territorio pontico, poichè diversamente l'esercito non avrebbe potuto mantenere le comunicazioni con Roma, e oltre ciò era facile prevedere una invasione di Mitridate nel suo antico regno.
Era evidente che l'esercito, alla cui testa Lucullo aveva condotto a fine la guerra contro Mitridate, e che saliva a 30.000 uomini, non bastava per questo duplice compito. In condizioni ordinarie il supremo duce avrebbe chiesto ed ottenuto dal suo governo l'invio supplementare di un secondo esercito; ma siccome Lucullo voleva e in certo modo doveva costringere il governo a fare la guerra, così si sentì obbligato a rinunciarvi, e sebbene egli ingrossasse le sue fila perfino coi mercenari traci del re del Ponto fatti prigionieri, non potè passare l'Eufrate con più di due legioni, ossia tutt'al più con 15.000 uomini.
Questo era già un grave pensiero; ma l'esiguità del numero poteva essere compensata in qualche modo dal provato valore dell'esercito composto completamente di veterani.
Molto peggior male minacciava lo spirito dei soldati, del quale Lucullo, nelle sue massime altamente aristocratiche, si dava troppo poco pensiero. Lucullo era un buon generale e – giudicandolo come aristocratico – un uomo onesto e benevolo, ma non era affatto amato dai soldati. Egli era impopolare perchè fautore deciso dell'oligarchia, e perchè nell'Asia minore aveva messo energicamente un freno alle orribili usure dei capitalisti romani; impopolare perchè teneva sotto severa disciplina i suoi soldati, e impediva, per quanto era possibile, il saccheggio delle città greche, mentre faceva però per sè stesso caricare molti carri e molti cammelli coi tesori dell'oriente; impopolare infine per i suoi modi delicati, da gran signore, affettanti l'ellenismo, assolutamente insocievoli coi suoi soldati, e perchè in tutto portato alla vita comoda.
Non era in lui nemmeno una parte di quell'arte magica che stringe personalmente il supremo duce al semplice soldato. Si aggiunga finalmente che una gran parte dei più valorosi suoi soldati aveva tutte le ragioni di lamentarsi per lo smisurato prolungarsi della durata del servizio. Le sue migliori legioni erano appunto quelle che erano state condotte in oriente da Flacco e da Fimbria nel 668 = 86; nonostante che da ultimo, dopo la battaglia di Cabira, fosse stato loro assicurato il congedo da esse ben meritato dopo tredici campagne, ora Lucullo le conduceva oltre l'Eufrate per una guerra della quale non si poteva calcolare la fine; sembrava che si volessero trattare peggio i vincitori di Cabira che i vinti di Canne.
Era cosa infatti più che temeraria, che un generale con un così scarso numero di truppe, per giunta svogliate, come abbiamo detto, di sua propria autorità, e, strettamente parlando, in opposizione alle leggi, intraprendesse una spedizione in un paese lontano ed ignoto, pieno di rapidi fiumi e di monti coperti di neve, che per la sua sola estensione rendeva pericolosa ogni aggressione tentata con leggerezza.
La condotta di Lucullo fu biasimata a Roma sotto vari aspetti e non a torto; soltanto si sarebbe dovuto tener conto che questo disperato procedere del comandante era stato motivato dalla stravaganza del governo, la quale, se non lo giustificava, lo rendeva però meritevole di scusa.