5. Scienza grammaticale.
Finalmente si aggiunse la scienza, che fissò la legge della lingua e sviluppò la regola che non era più determinata dalla esperienza, ma pretendeva di determinare l'esperienza.
Le desinenze delle declinazioni, che sino allora erano state in parte instabili, dovevano ora essere fissate una volta per sempre, come, per esempio, accennando alle forme del genitivo e del dativo sino allora usate, della cosiddetta quarta declinazione (senatuis e senatus, senatui e senatu), Cesare ordinò che valessero esclusivamente le desinenze abbreviate (us e u). Nell'ortografia furono fatti molti cambiamenti per porre meglio in armonia la scrittura colla lingua; così alla lettera u articolata in mezzo, come nella parola maxumus fu, dopo l'esempio di Cesare, sostituita l'i; e delle due lettere k e q, divenute superflue, la prima fu soppressa e della seconda fu almeno proposta la soppressione.
Se la lingua non era ancora irrigidita, essa incominciava a irrigidirsi; veramente non era ancora spensieratamente dominata dalla regola, ma però compresa dal bisogno di sottomettervisi. Che in questo lavoro nel campo della grammatica latina, non solo la lingua greca prestasse in generale lo spirito e il metodo, ma che la latina fosse secondo essa addirittura rettificata, lo prova ad esempio il modo di servirsi della s finale, la quale sino alla fine di questa epoca ebbe, secondo i gusti, ora il valore di consonante, ora di vocale, però dai nuovi poeti venuti di moda era usata in generale come consonante finale, come nel greco.
Questo regolamento della lingua è il patrimonio proprio del classicismo romano; nei modi più diversi, e appunto perciò con molto maggior effetto in tutti i suoi corifei, in Cicerone, in Cesare, persino nelle poesie di Catullo, s'introduce la regola e si ribatte l'errore contro di essa; mentre intorno alla rivoluzione, che nel campo della lingua procedeva arditamente senza nessun riguardo come in quello politico, la generazione più attempata si esprime naturalmente con risentimento[2].
Ma mentre il nuovo classicismo, cioè la lingua latina regolamentata e modellata, per quanto fu possibile, sull'esempio della greca, sorgendo dalla nota reazione contro il volgarismo, che si andava infiltrando nella società elevata e persino nella letteratura, si fissava letterariamente e si formulava schematicamente, il volgarismo stesso non abbandonava il campo. Noi non solo lo troviamo schietto nelle opere di individui secondari e soltanto per caso confusi tra i letterati, come nella relazione sulla seconda guerra spagnola di Cesare, ma ne troviamo anche nella letteratura propriamente detta, nei mimi, nel semi-romanzo, negli scritti di Varrone sull'estetica, ed è caratteristico che esso si mantenga appunto nel campo più popolare della letteratura e che sia tutelato da uomini veramente conservatori come Varrone.
Il classicismo si basa sulla morte della lingua italica, come la monarchia sulla caduta della nazione italica; era perfettamente conseguente che gli uomini nei quali la repubblica era ancora viva continuassero a sostenere la lingua vivente, e che per amore della relativa sua attività e popolarità ne sopportassero i difetti estetici.
Così si disgiungono ovunque le idee e le tendenze linguistiche di quest'epoca: accanto all'antica poesia di Lucrezio appare quella di Catullo, affatto moderna; accanto al periodo cadenzato di Cicerone, la proposizione di Varrone, che sdegna con intenzione ogni articolazione.
Anche in ciò si rispecchia la frattura prodotta dal tempo.