6.Commedia attica.
Nel mondo teatrale la commedia ebbe grande preponderanza sulla tragedia. Gli spettatori rannuvolavano la fronte quando, invece della sperata commedia, si dava una tragedia.
Così avvenne che in questo tempo fiorirono parecchi poeti comici, come Plauto e Cecilio, ma non si trova chi si dedicasse solo a composizione tragiche, e si può ritenere che, per ogni dramma, che noi conosciamo solo di nome, si scrivessero tre commedie.
Naturalmente i poeti comici romani, o per dire meglio i traduttori, misero prima di tutto le mani sulle produzioni che in quell'epoca avevano maggior voga in Grecia, e così essi si trovarono confinati esclusivamente[10] nel cielo della commedia attica media, e specialmente in quello dei suoi più rinomati poeti, Filomene da Soli in Cilicia (364?-492=360-262) e Menandro d'Atene (412 al 462=342 al 292). Per questo fatto che la commedia attica esercitò tanta influenza non solo sullo sviluppo della letteratura, ma anche sullo spirito del popolo romano, la storia deve volgere ad essa necessariamente la sua attenzione.
Le produzioni di questa scuola comica sono di una tediosa monotonia.
Quasi senza eccezione, l'argomento si aggira sul modo d'aiutare un giovane nella conquista d'un'amante d'indubbia bellezza, ma di molta dubbia moralità, e ciò a spese del padre e del lenone. Il mezzo che conduce alla felicità d'amore è di regola una qualunque estorsione di denaro; e il furbo servo, che procura la somma necessaria o il richiesto inganno, mentre l'amante si lamenta delle proprie pene di amore e di denaro, è il perno sul quale s'aggira l'azione.
Abbondano le consuete considerazioni sulle gioie o sulle pene dell'amore, separazioni con spargimento di lacrime, e non mancano gli amanti che, per l'angoscia, minacciano di uccidersi.
L'amore, o piuttosto lo spasimare, era, come dicono i vecchi giudici dell'arte, il vero alito vitale della poesia di Menandro.
Il matrimonio, almeno in Menandro, ne è l'inevitabile conclusione; e perciò, a maggior edificazione e soddisfazione degli spettatori, e si mette in luce la virtù dell'eroina, se non del tutto intemerata almeno sana e salva, e di solito si scopre che essa è la figlia smarrita di un uomo ricco e perciò un buon partito sotto ogni aspetto.
Accanto a queste commedie d'amore, ve ne sono altre di genere patetico; a questa classe appartengono le commedie di Plauto, intitolate la «Gomena» (Rudens), che tratta del naufragio e del diritto di asilo, il «Trinummo» e i Captivi, che non toccano intrighi amorosi, ma dipingono la squisita devozione dell'amico per l'amico, dello schiavo per il padrone.
Le persone e le situazioni vi si ripetono all'infinito come uno stampo si ripete sopra una tappezzeria; p. es. non ci si può liberare da ascoltatori appartati, da colpi alle porte di casa e da schiavi che percorrono le vie con qualche commissione; le maschere fisse, di cui esisteva un numero determinato, per esempio otto vecchioni e sette domestici, fra le quali il poeta poteva far la sua scelta, favorivano maggiormente la trama obbligata della composizione.
In una simile commedia era necessario sopprimere l'elemento lirico, il coro della commedia antica, e limitarsi, fin dal principio, al dialogo e tutt'al più ai recitativi; in ogni modo mancava non solo il contenuto politico, ma in generale ogni vera passione ed ogni poesia.
Queste produzioni, si capisce, non pretendevano ad un grande e reale effetto politico; il loro pregio consisteva, anzitutto, nell'occupare l'attenzione tanto colla materia, per la quale la nuova commedia si distingueva dall'antica, non meno per la sua maggiore vacuità intrinseca, che per la maggiore complicazione dell'intreccio, quanto, anzi più specialmente per la diligenza posta nei particolari e nelle minuzie, in cui l'eleganza della conversazione era il vanto del poeta e il diletto del pubblico. Complicazioni e confusioni, con le quali va benissimo d'accordo il passaggio alla farsa stravagante e spesso licenziosa – come ad esempio la «Casina» che in vero stile falstaffiano termina con la partenza dei due sposi e del soldato vestito da donna – scherzi, frottole ed enigmi, che, in mancanza d'una vera conversazione, erano il passatempo delle mense di questo tempo, riempiono, per la maggior parte, queste commedie.
I poeti che le scrissero non avevano dinnanzi, come Eupoli e Aristofane, un gran popolo, ma piuttosto una società colta, la quale ad esempio di altre società colte, perdeva il suo tempo indovinando rebus e giocando alle sciarade.
Ed è anche per questo ch'essi non ci dànno alcun quadro del loro tempo (in queste commedie non si trova alcuna traccia del grande movimento storico e intellettuale, e dobbiamo fare uno sforzo per ricordarci che Filomene e Menandro sono stati contemporanei di Alessandro e d'Aristotele), ma ci presentano invece un elegante e fedele specchio della colta società attica, dal cui ambito la commedia non esce mai.
Persino nell'imitazione latina, dalla quale specialmente noi li imparammo a conoscere, non è svanita del tutto la grazia originale, e soprattutto nei brani tratti dal più abile tra quei poeti, Menandro, si riflette la vita che quel poeta aveva veduto vivere, e che aveva vissuto egli stesso non tanto nelle sue aberrazioni e nelle sue convulsioni, quanto nelle sue amabili consuetudini giornaliere.
Le amichevoli relazioni domestiche tra padre e figlia, tra marito e moglie, tra padrone e servo, coi loro amori, con i piccoli incidenti, vi sono ritratti con tanta verità, che anche oggi non mancano il loro effetto; il banchetto dei servitori, per esempio, con cui termina lo Stichus è, nel suo genere, d'una insuperabile eleganza.
Sono di grande effetto le eleganti etere, che si presentano profumate e adornate, pettinate all'ultima moda, e con i vestiti a strascico di vari colori e trapuntati d'oro, o che, meglio ancora, vengono ad abbigliarsi sulla scena.
Al loro seguito si trovano le mezzane, talvolta d'infima specie, come se ne trova una nel Curculio, talvolta vecchie guardiane, simili alla Barbara di Goethe, e come Scapha della Mostellaria, nè mancano fratelli e compagni sempre pronti ad aiutare il povero innamorato. Molti e vari sono i tipi: vecchi padri severi ed avari, o teneri e deboli, mezzani compiacenti, vecchiacci innamorati, scapoloni, vecchie gelose che tengono sempre per la padrona contro il padrone; le parti da giovane, invece, vi sono tracciate meno brillantemente, nè il primo amoroso, nè qualche virtuoso figlio modello, che pure ogni tanto s'incontrano, hanno grande importanza.
Le macchiette dei servi – lo scaltro cameriere, il severo maggiordomo, il vecchio e savio pedagogo, il campagnolo che sente l'aglio, l'impertinente monello – sono piacevolmente frammiste con le numerosissime parti dei mestieranti.
Vi è l'immancabile buffone (parasitus) che, in cambio del permesso di sedere alla mensa dei vecchi, ha l'incarico di divertire gli ospiti, narrando storie e arguzie, e, qualche volta, lasciandosi anche buttar i cocci sul viso.
In Atene questa era, allora, una vera professione, e non è certo falso quanto leggiamo nei poeti che il «parassita» si preparava con gran cura sui libri di favole e di aneddoti.
Una parte gradita è quella del cuoco che, non solo sa farsi una fama facendo nuove salse, ma anche rubacchiando come un ladro matricolato; lo sfacciato lenone, che si pavoneggia di ogni suo vizio, tipo di cui è modello Ballio nello Pseudolus; il militare spaccamonti, in cui si personifica bene il governo dei soldati di ventura di quel tempo dei Diadochi; il cavaliere d'industria professionale o sicofante; il cambiavalute furfante, il medico asino, il sacerdote, il barcaiuolo, il pescatore e così via.
A queste finalmente, si aggiungono le vere parti di carattere, come il superstizioso di Menandro o l'avaro nell'Aulularia di Plauto.
La poesia ellenica ha conservato, anche in questa ultima creazione, la sua indistruttibile vigoria plastica; ma la rappresentazione psicologica è piuttosto, in questo caso, una copia esteriore che non uno studio degli intimi sentimenti, e ciò è tanto più vero quanto più il tema si accosta realmente alla creazione poetica.
Per una notevole singolarità, in quei caratteri che abbiamo ora accennati, la verità psicologica è quasi sempre rappresentata da una astratta derivazione d'idee: l'avaro raccoglie le spuntature delle unghie e rimpiange la lacrima sparsa come acqua sciupata.
Ma questo difetto di efficacia nel ritrarre la natura dei caratteri, e, in generale, tutta la vacuità poetica e morale della nuova commedia, è non tanto da ascriversi a colpa dei poeti comici, quanto a tutta la nazione.
Lo spirito, proprio dei greci, si andava affievolendo; patria, fede popolare, famiglia, ogni nobile passione, ogni generoso sentimento s'annebbiavano; la poesia, la storia e la filosofia venivano sfruttate, e all'Ateniese non era rimasto altro che la scuola, il mercato di pesce e il bordello; non può dunque meravigliare, nè si può ragionevolmente accusare alcuno, se la poesia, che è destinata a glorificare la esistenza umana, non potè trarre da una tale vita niente altro fuorchè quello che ci presenta la commedia di Menandro. È anzi molto notevole che, appena la poesia di questo tempo potè in qualche modo sollevarsi sulla corrotta vita attica, senza cadere nell'imitazione scolastica, acquista immediatamente forza e freschezza di ideali.
Nell'unico avanzo della tragedia parodiata di questo tempo, nell'Amphitruo di Plauto, spira un'aria più pura e più poetica, che in tutti gli altri frammenti del teatro contemporaneo; gli dei bonari, trattati con gentile ironia, le nobili figure del mondo eroico, gli schiavi burlescamente vigliacchi, presentano tra di loro le più meravigliose antitesi e, dopo il comico andamento dell'azione, la nascita del figlio degli dei, fra tuoni e lampi, offre un effetto finale quasi grandioso.
Ma questo compito di trattare con ironia i miti era relativamente innocente e poetico, messo a confronto con quello della commedia comune che dipinge la vita attica del tempo. Partendo dal punto di vista storico-morale non si può far rimprovero alla poesia di quei tempi, nè ad alcuno dei poeti in particolare, se dovettero piegarsi allo spirito della loro età; la commedia non era la causa, ma l'effetto della corruzione che prevaleva nella vita del popolo.
Ma è necessario, specialmente per giudicare dell'effetto che dovevano produrre queste commedie sui costumi del popolo romano, accennare all'abisso, che, sotto tutte quelle squisitezze ed eleganze, si andava scavando.
Le sguaiataggini e le oscenità, che veramente Menandro cercava di evitare, di cui però non vi ha difetto presso gli altri poeti, sono la minima parte del male; molto maggiore è lo spaventevole vuoto della vita in cui le sole oasi sono l'amoreggiare e l'ubbriacarsi, la terribile prosaicità per cui, ciò che in qualche maniera somiglia all'entusiasmo, si trova soltanto nei ribaldi, i quali vivono come di una vita continuamente vertiginosa, ed esercitano il mestiere di truffatori con una certa passione.
Il vizio è punito, la virtù è premiata, e se per accidente vi sono peccatuzzi, ad essi s'indulge e si perdona con una specie di conversione e con un buon matrimonio o dopo il matrimonio. Vi sono delle commedie, come ad esempio Trinummus di Plauto e parecchie di Terenzio, nelle quali è distribuito un pizzico di virtù a tutti i personaggi, persino agli schiavi, tutte abbondano di gente onesta, che si lascia ingannare, di donzelle virtuose per quanto possibile, di amanti ugualmente favoriti e amoreggianti in compagnia; ogni momento sbocciano luoghi comuni morali e ammonizioni in quantità, come le more sui rovi.
In un finale di riconciliazione, come è quello delle Bacchides, in cui i figli truffatori ed i padri truffati si recano alla fine a bere in un bordello, si riscontra una corruzione degna di Kotzebue.