SETTIMO CAPITOLO
POMPEO E CESARE
Fra i capi democratici, che dal tempo del consolato di Cesare erano riconosciuti per così dire ufficialmente come i comuni signori della repubblica, per i regnanti «triumviri», il primo posto spettava, secondo la pubblica opinione, assolutamente a Pompeo.
Egli era colui che gli ottimati chiamavano «dittatore privato»; dinanzi a lui Cicerone fece la sua vana genuflessione; contro di lui erano rivolti i più pungenti sarcasmi negli affissi murali di Bibulo, i dardi più velenosi nelle sale di conversazione del partito dell'opposizione. E tuttociò era naturale.
A giudicare dai fatti che si avevano sott'occhio, Pompeo era incontestabilmente il primo capitano del suo tempo. Cesare un abile capoparte ed un disinvolto oratore, di innegabile talento ma notoriamente di un naturale non bellicoso, anzi effeminato. Questi giudizi erano da lungo tempo in corso; non si poteva aspettare dalla nobile plebe, che essa si curasse dell'essenza delle cose e che rinunziasse alle sciocche opinioni, una volta stabilite, in seguito a qualche oscuro fatto eroico, avvenuto sulle rive del Tago.
È evidente che Cesare non rappresentava nella lega altra parte che quella d'aiutante, il quale eseguiva per il suo superiore ciò che Flavio, Afranio ed altri meno abili strumenti avevano tentato e non fatto. Perfino la sua luogotenenza parve non cambiasse questa situazione.
Afranio aveva preso posizione uguale, senza avere perciò ottenuta una particolare importanza; parecchie province erano state negli ultimi anni ripetutamente assoggettate ad un luogotenente, e spesso erano state poste sotto il comando di uno solo più di quattro legioni; quando oltre le Alpi subentrò la tranquillità e il principe Ariovisto fu riconosciuto dai Romani come amico e buon vicino, non vi era più alcuna prospettiva d'una guerra di qualche importanza. Era naturale che si facesse il confronto delle posizioni che aveva ottenuto Pompeo dalla legge gabinio-manilia e Cesare dalla legge vatinia; ma il confronto non era a vantaggio di Cesare.
Pompeo imperava su quasi tutto lo stato romano, Cesare su due province. Pompeo disponeva quasi senza limiti dei soldati e delle casse dello stato, Cesare soltanto delle somme che gli erano state assegnate e di un esercito di 24.000 uomini. Pompeo aveva la facoltà di fissare egli stesso l'epoca del suo ritiro; Cesare era stato investito del comando per lungo tempo, ma sempre per un tempo limitato. A Pompeo finalmente erano state affidate le più importanti imprese per mare e per terra, Cesare era stato inviato nel settentrione per tener d'occhio dall'alt'Italia la capitale e fare in modo che Pompeo la potesse dominare indisturbato.
Ma quando Pompeo fu destinato dalla coalizione a dominare la capitale, egli assunse un mandato che superava di molto le sue forze. Pompeo non conosceva altro del dominio che quanto si può comprendere nella parola d'ordine e nel comando. Le ondate d'agitazione nella capitale, conseguenza delle passate e foriere di future rivoluzioni, erano fortissime; il problema di governare senza una forza armata questa città, che sotto ogni rapporto si può paragonare alla città di Parigi nel secolo decimonono, era immensamente difficile; per quell'impacciato nobile soldato modello era poi assolutamente impossibile.
Non andò molto che, quanto a lui, gli amici ed i nemici suoi, gli uni non meno degli altri a lui molesti, potevano fare ciò che a loro piacesse: dopo la partenza di Cesare da Roma la coalizione dominava ancora sui destini del mondo, ma non sulle vie della capitale.
Anche il senato, a cui pure spettava sempre una specie di autorità nominale nel governo, lasciava che le cose della capitale andassero come potevano, in parte perchè la frazione dominata dalla coalizione mancava di istruzioni dagli autocrati, in parte perchè l'astiosa opposizione per indifferenza o per pessimismo si teneva in disparte, ma specialmente perchè l'intero nobilissimo corpo cominciava a sentire, se non a comprendere, la totale sua impotenza.
Momentaneamente non v'era quindi in Roma ombra di opposizione ad un qualsiasi governo, non v'era nessuna effettiva autorità. Era un interregno tra il governo aristocratico rovesciato ed il governo militare che si andava formando; e se la repubblica romana ha mostrato in modo semplice e normale, come non fece nessun'altra nei tempi antichi e recenti, tutte le più variate funzioni ed organizzazioni politiche, scorgiamo in essa anche la disorganizzazione politica e l'anarchia in una misura non invidiabile.
È una strana coincidenza che negli anni in cui Cesare al di là delle Alpi creava un'opera per l'eternità, a Roma si rappresentasse una delle più bizzarre farse politiche che si sieno vedute sulle scene del mondo. Il nuovo reggente della repubblica non regnava, ma si teneva chiuso in casa facendo silenziosamente il broncio.
Nemmeno regnava il passato governo, che era stato quasi sbalzato, ma sospirava, ora isolatamente nei circoli famigliari delle ville, ora in coro nella curia. Quella parte della borghesia, a cui stava ancora a cuore la libertà e l'ordine, era più che stanca di questa folle agitazione; ma priva di capi e di consiglio, continuava a rimanere passiva, evitando non solo ogni attività politica, ma, per quanto lo poteva, quella stessa Sodoma politica.