16. Ultimo dibattimento in senato.
In tre giorni percorse la via da Ravenna a Roma. Quando i nuovi consoli, Lucio Lentulo e Caio Marcello il giovane[3], convocarono il senato la prima volta il 1° gennaio 705 = 49, Curione consegnò in pieno consiglio la memoria diretta al senato. I tribuni del popolo, Marco Antonio, conosciuto nella cronaca scandalosa quale intimo amico di Curione e compagno di tutte le sue pazzie, ma al tempo stesso anche come brillante ufficiale di cavalleria nelle guerre egizie e galliche, e Quinto Cassio, già questore di Pompeo, i quali ora al posto di Curione promuovevano in Roma le cose di Cesare, sollecitarono l'immediata lettura del dispaccio.
Le parole gravi e chiare colle quali Cesare esponeva con tutta la irresistibile forza della verità la minacciante guerra civile, il desiderio universale della pace, l'alterigia di Pompeo, la propria pieghevolezza, le proposte di conciliazione così moderate da sorprendere i suoi stessi aderenti, la decisa dichiarazione che egli intendeva di porgere così per l'ultima volta la mano pel mantenimento della pace, fecero la più profonda impressione.
Nonostante il timore che incutevano i soldati di Pompeo affluenti nella capitale, lo spirito della maggioranza non era dubbio; non conveniva permettere che si pronunciasse. I consoli, i quali come presidenti lo potevano fare, si rifiutarono di mettere ai voti la rinnovata proposta di Cesare, che fosse ingiunto nello stesso tempo a tutti e due i luogotenenti di deporre le loro cariche di comandanti, e tutte le altre proposte di conciliazione contenute nella memoria, e così pure la proposta di Marco Celio Rufo e Marco Calidio di inviare immediatamente Pompeo in Spagna.
E non potè nemmeno essere messa ai voti la proposta di Marco Marcello, che era uno dei più pronunciati partigiani di Catone, ma che non era così cieco come il suo partito sullo stato militare delle cose, di sospendere cioè la conclusione sin che la milizia italica non fosse sotto le armi e potesse proteggere il senato. Pompeo fece dichiarare per mezzo del suo solito organo, Quinto Scipione, ch'egli era risoluto ad assumere la causa del senato ora o mai più, e che se ne laverebbe le mani quando s'indugiasse più a lungo.
Il console Lentulo dichiarò apertamente, che ormai non si trattava più della decisione del senato, ma che quando questo perseverasse nella sua servilità, egli, d'accordo coi suoi amici, avrebbe fatto di propria autorità quanto occorreva. Così terrorizzata, la maggioranza ordinò quanto le venne imposto: che Cesare rimettesse entro breve tempo la carica di luogotenente della Gallia transalpina a Lucio Domizio Enobarbo, quella di luogotenente della Gallia cisalpina a Marco Servilio Noniano e congedasse l'esercito; che diversamente egli sarebbe considerato come reo di lesa maestà.
Essendosi i tribuni del partito di Cesare serviti del loro veto contro questa risoluzione, non solo furono, almeno come essi sostennero, minacciati dai soldati di Pompeo coi loro brandi nello stesso senato e per mettere in salvo la vita furono costretti ad uscire dalla città travestiti da schiavi, ma il senato, sotto l'impressione del terrore, considerò il loro atto costituzionale come un tentativo di rivoluzione, dichiarò la patria in pericolo e chiamò nelle forme legali tutti i cittadini sotto le armi, ponendo alla testa degli armati tutti gli impiegati fedeli alla costituzione (1° gennaio 705 = 49).